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Il temporale sembrava non volersi spostare dalla valle. Per quanto adesso non fosse più così intensa, la pioggia non aveva smesso un attimo per tutto il giorno, e il rombo dei tuoni si allontanava appena per cedere il passo a un’altra scarica ancora più potente. Elizondo senza luce elettrica sembrava completamente divorata dalla montagna, e solo il fugace bagliore dei fulmini e il ballo frenetico delle candele lasciavano riconoscere la sua presenza.
Ros correva per la strada con una torcia in mano, i capelli incollati alla fronte per la pioggia. Il cuore le pulsava in petto come un tamburo enorme che non le impediva di sentire i passi di Ernesto alle sue spalle. Arrivò alla porta di casa e la trovò socchiusa. Tutta l’energia che l’aveva sostenuta fin lì l’abbandonò di colpo, facendole piegare le ginocchia. Si afferrò allo stipite della porta e sentendo la pietra fredda e rugosa ebbe la certezza che qualcosa di orribile fosse successo, che quel luogo, un tempo rifugio contro ogni male, contro il freddo, la pioggia, la solitudine, il dolore e i guaeko, gli spiriti notturni del Baztán, alla fine fosse stato macchiato.
Ernesto la raggiunse, le tolse di mano la torcia ed entrò. La casa era ancora calda, nonostante la porta aperta. Nel buio più totale, fluttuava ancora nell’aria l’odore acre delle candele appena spente. Il lieve bagliore aranciato delle braci nel camino permetteva di intravedere il disordine. Ernesto perlustrò la sala con il fascio di luce. C’era una sedia rovesciata accanto al tavolo e il vaso di fiori freschi a cui Engrasi teneva tanto era in frantumi a terra; una delle bergère era ribaltata vicino al camino, e se le fiamme fossero state più alte avrebbe sicuramente preso fuoco.
«Zia!» chiamò Ros, e in quel momento non riconobbe la sua stessa voce.
La torcia illuminò le gambe dell’anziana stesa a terra, mentre la parte superiore del corpo era nascosta dietro la bergère. Ernesto le si avvicinò e spostò la poltrona.
«Oddio!» urlò facendo un balzo.
Ros si rifiutava di avvicinarsi. L’aveva capito da quando era entrata in casa: la zia era morta.
«È morta, vero?» chiese.
Ernesto si chinò su di lei.
«È viva, ma le hanno dato un colpo fortissimo sulla testa. Ros, dobbiamo chiamare un medico!»
In quel momento le squillò il telefono nella tasca del cappotto. Lei lo prese con mano tremante e guardò il display con la vista annebbiata. Le lacrime le offuscavano gli occhi, ma sapeva per certo chi era.
«Amaia, la zia…» scoppiò in un pianto inconsolabile. «L’ha quasi uccisa, le ha rotto la testa, sta perdendo tantissimo sangue ed Ernesto ha appena chiamato l’ambulanza, ma sono tutti fuori per l’esondazione. Forse non ce la fanno neanche i pompieri!» gridò, mentre girava per la sala senza riuscire a dominare il panico. «La casa è a soqquadro, ha lottato come una leonessa, ma Ibai non c’è più, se lo sono portato via, si sono portati via il bambino!»
Sai che è un infarto perché pensi di stare per morire.
E poi crollò. Sentiva la pressione di un oceano sul petto, la consapevolezza del battito che salta, la certezza di stare per morire, e il sollievo di sapere che sarà solo un attimo, e dopo il dolore cesserà.
Inspirò boccheggiando, con l’intenso odore di ozono delle burrasche che entrava a folate, soffiatole sul naso e sulla bocca forse da un inguma benevolo, una creatura invisibile che la sottraeva a quel mare immobile e spesso a cui si era quasi rassegnata.
Inspirò ancora, ansimando.
«Ferma la macchina!» urlò a Jonan.
Jonan accostò e Amaia si buttò fuori dall’auto ancora prima che frenasse del tutto. Andò davanti al cofano, appoggiò le mani alle ginocchia e si chinò in avanti senza smettere di ansimare, iperventilando, mentre fissava il folto del bosco sforzandosi di ritrovare la calma e di riflettere.
Sentì Iriarte accostare dietro di loro e arrivare di corsa.
«Si sente bene?» chiese rivolgendosi a Jonan.
«Ha quasi ucciso mia zia e si sono portati via mio figlio!»
Iriarte aprì la bocca e scrollò la testa, incapace di dire una parola, mentre Markina rimase immobile accanto a lui senza sapere cosa fare. Jonan si prese la testa tra le mani, persino Zabalza si coprì la bocca per non urlare. Solo Montes ebbe il coraggio di parlare.
«Dall’altra parte non possono uscire: se chiudiamo questa strada rimarranno bloccati».
«Lui è di qui, conosce tutte le strade, adesso potrebbero essere già arrivati in Francia».
«Ma figurarsi», insistette Montes, «adesso do subito l’allarme: chiamo anche Padua e l’Ertzaintza nel caso fossero diretti a Irún, e avverto anche i gendarmi, se come dice lei sono diretti verso la Francia. Ma io non credo, non hanno avuto tempo, capo: se è di qui, come dice, non andrà da nessuna parte con questo temporale, si nasconderà in qualche posto che conosce. Consideri che si porta dietro una donna anziana e un neonato: è la cosa più logica da fare».
«La casa del padre», rispose lei all’istante. «È figlio di… Esteban Yáñez, di Elizondo: se non è lì, guardate anche a Juanitaenea, il padre ha le chiavi», esclamò, improvvisamente euforica, guardando Montes quasi a ringraziarlo per la sua forza d’animo.
Tornarono alla macchina.
«Lasciami guidare, Jonan», disse al suo vice.
«Sicura?»
Si sedette al volante e rimase immobile per qualche secondo, mentre le auto sfrecciavano perdendosi nell’oscurità. Mise in moto e fece inversione. Jonan la fissava, stringendo le labbra in un’espressione di paura e controllo che lei conosceva bene. Riprese la strada e dopo qualche metro imboccò la deviazione.
Il fiume imponeva la sua presenza sulla destra, e nonostante il buio più profondo la sua forza era palpabile quasi fosse una creatura viva. Guidò a tavoletta tra i brandelli di nebbia, che sembravano disegnare un’altra strada sopra quella esistente, come un sentiero alternativo per creature eteree che seguivano la sua stessa direzione. Era una fortuna che a quell’ora le pecore e i pottokiak dormissero, perché se ne avesse centrato uno a quella velocità, l’avrebbe fatto fuori di sicuro. Trovare un posto in montagna in piena notte è molto difficile, ancora di più quando i riferimenti visivi sono alterati dal temporale. Accostò lungo la strada e scese con la torcia accesa. Sembrava tutto uniforme, ma puntando la luce in lontananza riconobbe il muro del casolare abbandonato in mezzo ai campi, sull’altro lato del fiume. Tornò alla macchina.
«Jonan, io devo andare, ma non posso chiederti di seguire un presentimento insieme a me. Se stanno andando dove credo, prenderanno la strada e poi il sentiero. Ma io da qui arrivo prima, è la mia unica possibilità».
«Vengo con lei», rispose lui scendendo dall’auto. «Ecco perché non voleva che il giudice venisse con noi: lei sapeva già che forse avrebbe dovuto fare una cosa del genere».
Amaia lo guardò, chiedendosi cos’avesse sentito della conversazione tra lei e Markina. Pazienza, al momento non faceva alcuna differenza.
Il pendio era decisamente scivoloso, ma la terra umida in cui i piedi potevano affondare si rivelò di grande aiuto per raggiungere la sponda del fiume. L’acqua passava tranquilla fra le balaustre arrugginite del ponte, che oscillavano quasi sul punto di cadere. La costruzione al di sotto era sommersa e una gran quantità di rami e foglie si ammucchiavano contro una sponda e la balaustra, formando una piccola chiusa. Fu lì che puntarono le loro torce, sapendo che poteva cedere da un momento all’altro. Si guardarono e cominciarono subito a correre. Arrivare sull’altro lato non attenuò la sensazione di camminare in mezzo all’acqua. Il fiume era penetrato quasi di un palmo nella zona circostante. Per fortuna la terra era rimasta compatta, forse grazie al manto erboso che la rivestiva, ma ogni passo era comunque una gran fatica. Arrivarono al casolare, oltre il quale c’era il confine del bosco. Amaia guardò in quella direzione con un misto di apprensione e decisione, che era l’unica cosa a guidarla. Eppure entrare nel bosco fu un sollievo: le chiome degli alberi erano servite da ombrello naturale e il terreno mostrava appena i segni dei recenti acquazzoni. Corsero nella vegetazione puntando le torce davanti a sé e cercando di intravedere alla luce dei lampi la fine di quel labirinto. Corsero a lungo ascoltando solo lo scricchiolio delle foglie e il proprio respiro, finché lei non si fermò di botto. E Jonan fece altrettanto, con il fiatone.
«Dovremmo essere già fuori. Ci siamo persi».
«Aiutami!» gridò nel buio.
Jonan la guardò perplesso.
«Dovrebbe essere qualche metro più in là…»
«Aiutami!» gridò di nuovo nel buio, ignorando il collega.
Jonan non disse nulla. Rimase in silenzio a guardarla mentre puntava la torcia a terra. Lei era immobile, con gli occhi chiusi come se pregasse.
Il fischio si sentì così forte, così vicino, che a Jonan cadde la torcia per lo spavento. Si chinò a raccoglierla e quando si rialzò lei era diventata un’altra. Lo sconforto si era dileguato negli occhi di Amaia, e al suo posto regnava la determinazione.
«Andiamo», disse, e ripresero il cammino.
Un nuovo fischio li fece spostare sulla destra, e un terzo più lungo e forte suonò di fronte a loro quando uscirono dal bosco. La radura dove giorni prima pascolavano le pecore era scomparsa sotto il livello dell’acqua, e lì accanto, il torrentello delle lamiak che in quel punto sfociava nel fiume scendeva lungo il pendio come un’impetuosa lingua d’acqua che copriva le rocce e le felci sui bordi. Cercarono il ponticello di cemento sul fiume impetuoso. Anche in quelle condizioni, rimaneva il punto migliore dove attraversare. Stretti per mano, cominciarono a percorrerlo, ed erano quasi sull’altra sponda quando un grosso ramo trascinato dal fiume colpì Jonan su una caviglia facendogli perdere l’equilibrio. Cadde in ginocchio sul ponte e l’acqua lo travolse, ma Amaia non gli lasciò la mano, aiutandolo a rialzarsi e a saltare sulla riva.
«Stai bene?»
«Sì», rispose, «ma ho perso la torcia».
«Dai, siamo quasi arrivati», lo incoraggiò lei correndo giù per la discesa.
Attraversarono il sottobosco e cominciarono a salire lungo il fianco della montagna. Quando Amaia notò che Jonan non riusciva a stare al passo, si girò a guardarlo e puntandogli contro la torcia scoprì la ragione: il tronco gli aveva fatto un taglio profondo sulla caviglia, i jeans erano impregnati di sangue, che era colato anche sulla scarpa.
«Oh, Jonan» esclamò tornando indietro.
«Sto bene, andiamo», tagliò corto lui. «Vada avanti, io la raggiungo».
Lei annuì. Detestava l’idea di lasciarlo indietro, ferito, senza torcia e nel fitto del bosco, ma lo sapevano entrambi, lei non poteva fermarsi. Aggirò la roccia che copriva l’ingresso della grotta e intravide la luce. Prese la Glock e spense la torcia.
«Aiutami, Signore», supplicò con un filo di voce. «E aiutami anche tu, dannata signora della tempesta», aggiunse in tono rabbioso.
Costeggiò il sentierino a esse che serviva da barriera naturale. Nessun rumore. Ascoltò meglio e percepì un fruscio e dei passi, poi, all’improvviso, uno di quei versetti adorabili che faceva Ibai. Gli occhi le si gonfiarono di lacrime. Era così grata che il suo piccolo fosse ancora in vita, che ebbe la tentazione di cadere in ginocchio in quel preciso istante davanti al dio che proteggeva i bambini. Invece si passò una mano furiosa sul viso, spazzando via ogni traccia di pianto. Si affacciò all’interno, con la pistola puntata, e quello che vide le gelò il sangue. Ibai era sdraiato a terra, al centro di un intricato disegno che sembrava tracciato con il sale o la cenere bianca, e circondato di candele che avevano riscaldato l’ambiente, evitando che il bimbo piangesse per il freddo anche se indossava solo il pannolino.
Accanto a lui vide una scodellina di legno e un altro recipiente di vetro insieme a un imbuto metallico, e le scene che Elena le aveva descritto si fecero vivide nella sua mente. Indifferente al pericolo, Ibai giocherellava cercando di afferrarsi i piedini. Rosario, in ginocchio a terra, brandiva un pugnale sulla pancia del bimbo come se tracciasse arabeschi invisibili sulla sua pelle. Aveva lo stesso giaccone troppo grande che aveva visto nelle immagini della telecamera di sicurezza, e adesso vide che sotto indossava golf e pantaloni neri, scarpe da ginnastica e teneva i capelli raccolti in uno chignon… Il dottor Berasategui, ora più Tarttalo che mai, chinato al suo fianco, sorrideva affascinato dalla cerimonia, mentre recitava una specie di cantilena che Amaia non riconobbe.
Il cuore le batteva all’impazzata e sentì il sudore colarle lungo le mani fino a formare una grossa goccia che le solleticò il polso quando sollevò la pistola. Sapeva di avere paura, lo sapeva anche prima di entrare nella grotta, e sapeva che quando se la fosse trovata di fronte il terrore sarebbe tornato. Ma sapeva anche che niente sarebbe riuscito a fermarla. Lui la vide per primo, la guardò con interesse, quasi fosse un ospite inatteso, e sgradito.
Rosario alzò lo sguardo e quando la trafisse con i suoi occhi scuri, Amaia tornò ad avere nove anni. Sentì che senza aprire bocca le lanciava addosso la corda, la ragnatela del suo controllo, e per un istante la dominò ancora, trascinandola nel suo letto di bambina, nella vasca della farina, nella sua tomba.
Ibai emise un gemito, come se stesse per piangere, e questo bastò a riportarla alla realtà e a rompere gli argini che avevano trattenuto la sua furia. Non si aspettava la rabbia, bestiale e razionale insieme, che le irrigidì il corpo e le esplose nel cervello con un solo ordine che annullava l’allarme rosso della paura e la supplicava: «Falla fuori!»
«Butta via il coltello e allontanati da mio figlio!» le ordinò con fermezza.
Rosario cominciò a sorridere, ma smise all’improvviso come distratta da qualcosa.
«Vai avanti», la incitò Berasategui, ignorando la presenza di Amaia.
Ma Rosario ormai si era fermata e guardava Amaia con l’attenzione che si presta a un nemico in attesa della sua prossima mossa.
«Giuro su Dio che vi faccio saltare la testa se non vi allontanate dal bambino!»
Il viso di Rosario si contrasse in una smorfia mentre svuotava i polmoni con un gemito. Buttò a terra il coltello, accanto a lei, e si chinò sul bambino aprendo gli adesivi del pannolino.
«Ahhh!» urlò.
Tendendo la mano al dottore, si appoggiò a lui per alzarsi.
«Ma dov’è la bambina?» urlò. «Dov’è la bambina? Mi avete ingannato!» Trafisse di nuovo Amaia con lo sguardo e le chiese: «Dov’è tua figlia?»
Ibai scoppiò in lacrime, impaurito da quelle urla.
«Ibai è mio figlio», rispose lei in tono fermo, e si rese conto che quella semplice frase era una dichiarazione d’intenti. Ibai, il bimbo del fiume, «il bimbo che doveva essere bimba e ha cambiato idea all’ultimo momento«, «se ha avuto un maschio significa che doveva andare così».
«Ma non era una femmina? Me l’ha detto Flora!» protestò, confusa. «Doveva essere una troietta, doveva essere il Sacrificio».
Berasategui guardò il bimbo con aria infastidita e andò ad appoggiarsi alla parete, ormai disinteressato alla vicenda.
«Come mia sorella…»
Rosario sembrò sorpresa per un istante, poi rispose: «E anche come te… O pensi che con te abbia finito?»
Il pianto di Ibai era sempre più forte e nella grotta diventava addirittura assordante, trafiggendole i timpani come uno spigolo vivo. Rosario gli rivolse un’ultima occhiata e si diresse verso Amaia.
«Ferma», le ordinò, senza abbassare la pistola. «Non ti muovere».
Ma lei continuava ad avanzare mentre Amaia le girava attorno, quasi interpretassero uno strano ballo a distanza che la portava verso l’interno della grotta e la avvicinava al punto in cui si trovava Ibai. La distanza che le separava era sempre la stessa, come due magneti di carica identica che si respingono. Continuò a puntarle contro la pistola mentre teneva d’occhio Berasategui, che sembrava quasi divertito da quello spettacolo, finché l’anziana non raggiunse l’ingresso della grotta e scomparve. Allora Amaia si girò verso di lui, che sfoderò un sorriso fascinoso e fece un passo verso l’imboccatura della grotta tenendo le mani in alto.
«Attento!» lo avvertì Amaia in tono pacato. «Con te non mi tremerà la mano, fai un altro passo e ti ammazzo».
Lui si fermò di botto, con aria rassegnata.
«Contro la parete!» gli ordinò.
Senza abbassare la pistola, fece un passo avanti e gli tirò le manette.
«Mettile!»
Il dottore ubbidì senza smettere di sorridere, quindi sollevò le mani per mostrargliele.
«A terra, in ginocchio!»
Berasategui fece un’aria svogliata, quasi non avesse capito che lo stava arrestando.
A quel punto Amaia si avvicinò al bimbo e lo sollevò rovesciando delle candele, che rimasero riverse a terra senza spegnersi. Lo abbracciò stringendoselo al petto per riscaldarlo e riempirlo di baci, mentre si accertava che stesse bene.
«Ispettrice!» la chiamò Jonan da fuori.
«Qui, Jonan», urlò, felice di sentire la sua voce, «qui!»
Neanche per un istante le era venuto in mente di uscire a inseguirla sotto il temporale. Non avrebbe mai lasciato Jonan, ferito, a sorvegliare un prigioniero, e ovviamente non avrebbe mai lasciato Ibai. Controllò il telefono e guardò il viceispettore.
«Non c’è segnale».
Lui annuì.
«Sulla collina c’era, così almeno ho potuto chiamare. Stanno arrivando».
Lei trasse un sospiro di sollievo.
Le operazioni di ricerca furono avviate subito, e vi parteciparono sia la Policía Foral, sia la Guardia Civil. Fecero arrivare anche un’unità cinofila da Zaragoza, ma quando ventiquattr’ore dopo ritrovarono il giaccone di Rosario impigliato in un ramo nel fiume quasi due chilometri più a valle, Markina esaminò lo stato dell’indumento e, visti i colpi e i graffi ricevuti, decise di annullare le operazioni.
«Con la forza della corrente, se è caduta qui ieri, adesso sarà già nel Cantabrico. Avvisiamo subito la guardia costiera, ma ieri ho visto l’acqua trascinare tronchi ben più grossi di un corpo come fossero stuzzicadenti», commentò un volontario della Protezione Civile.
Amaia tornò nella casa che senza Engrasi era solo una casa, e lei e James rimasero abbracciati a guardare il figlio dormire.
«Possono dire quello che vogliono, ma io sono sicura che Rosario è ancora viva».
Lui la strinse senza contraddirla, ma le chiese: «E tu come lo sai?»
«Perché sento ancora la sua minaccia, come una corda che ci lega, lo so che è lì fuori da qualche parte e che non ha ancora finito con me».
«È anziana e non sta bene. Credi davvero che ce l’abbia fatta a uscire dal bosco e a mettersi in salvo da qualche parte?»
«Io so per certo che il mio predatore è ancora là fuori, James. Secondo Jonan, potrebbe aver buttato via il giaccone durante la fuga».
«Amaia, adesso basta, ti prego», e l’abbracciò ancora più forte.