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Fuori dalla volta del bosco il cielo era ancora abbastanza chiaro, ma appena si inoltrarono nel folto degli alberi il livello di luce scese considerevolmente. Camminarono di buon passo con due valigette rigide che Amaia portava insieme a Etxaide, mentre si facevano luce con le torce potenti della sua attrezzatura. Oltrepassato il ponticello, salirono lungo il fianco della collina fino alla grande roccia.
«È qui dietro», spiegò Amaia, puntando il fascio di luce verso l’ingresso della grotta.
Impiegarono neanche un quarto d’ora a sbrigare tutte le operazioni. Scattare le foto preliminari, per poi passare la parete con quel miracolo di nome Luminol che aveva rivoluzionato la scienza forense permettendo di individuare le tracce di sangue che reagiscono catalizzando l’ossidazione e diventando visibili a una lunghezza d’onda diversa dal normale. Una cosa semplicissima in realtà, come la bioluminescenza delle lucciole o di certi organismi marini. Indossarono gli occhiali arancioni, che avrebbero neutralizzato la luce blu per consentire di vedere una volta spente le torce. Per accendere «una nuova luce».
Amaia avvertì una specie di crampo alla schiena, una sensazione sgradevole ed euforica insieme di fronte alla certezza di aver trovato la pista giusta. Fece qualche passo indietro, mentre indicava a Jonan a che altezza posizionare la luce che rendeva visibili le tracce, e fotografò più volte il messaggio scritto sulla roccia di quella grotta in cui una bestia aveva scritto con il sangue «Tarttalo».
Il viceispettore Etxaide camminava in silenzio al suo fianco, mentre tornavano alle macchine. Sotto le chiome degli alberi era calato il buio, e il vento scuoteva i rami producendo un frastuono scandito dagli scricchiolii del legno. Il cielo si illuminava di tanto in tanto con il bagliore di un fulmine che dietro i monti annunciava il ritorno dello spirito delle cime. Nonostante il fragore, riusciva quasi a sentire i pensieri del viceispettore, che a ogni passo le rivolgeva sguardi carichi di interrogativi senza aprire bocca.
«Deciditi a parlare, Jonan, o finirai per esplodere».
«Johana Márquez è stata assassinata tredici mesi fa a pochi chilometri da qui, e il suo braccio amputato è riapparso in questa grotta, dove qualcuno ha lasciato scritto “Tarttalo”, lo stesso messaggio che Quiralte ha scritto sulla parete della sua cella, prima di seguire Medina all’inferno».
«E questo non è tutto, Jonan», aggiunse lei, fermandosi a guardarlo. «È anche lo stesso messaggio che un detenuto ha lasciato nel carcere di Logroño quando si è suicidato dopo aver ucciso la moglie. A tutte quante le vittime è stato amputato un braccio, che poi è scomparso, fatta eccezione per quello di Johana, che si trovava tra le ossa che la Guardia Civil ha trovato in questa grotta», spiegò, riprendendo a camminare.
Dopo qualche secondo di silenzio in cui sembrò assimilare l’informazione, Jonan chiese: «Ma secondo lei tutti quei tizi erano d’accordo?»
«No, secondo me no».
«E secondo lei tutti quanti hanno portato fin quaggiù gli arti amputati?»
«Qualcuno deve averli portati quaggiù sicuramente, ma non sono stati loro, e secondo me non sono neanche stati loro a eseguire le amputazioni. Stiamo parlando di personaggi aggressivi, ubriaconi violenti, il genere di persona che si lascia trasportare dai propri istinti più bassi, senza prendere nessuna precauzione».
«Quindi sta parlando di una terza persona che sarebbe intervenuta in tutti i crimini, ma in qualità di complice?»
«No, Jonan, non in qualità di complice, ma in qualità di induttore; qualcuno con un controllo tale su di loro da istigarli prima al delitto e poi al suicidio, portandosi via un trofeo per ognuna di quelle morti e firmando ogni singola volta con il suo nome, Tarttalo».
Jonan si fermò di botto e Amaia si girò a guardarlo.
«Ci sbagliavamo tutti, come ho fatto a essere così stupido, era chiaro…»
Amaia rimase in silenzio. Conosceva Jonan Etxaide, un agente con due lauree, una in antropologia e l’altra in archeologia… un agente fuori dal comune, con punti di vista fuori dal comune, e ovviamente sapeva benissimo che non era uno stupido.
«Trofei, capo, ha detto bene: le braccia erano trofei e i trofei si conservano come simboli del bottino, degli onori, delle prede che si sono conquistate; ecco perché non mi quadrava che fossero state abbandonate, lanciate senza tanti riguardi in una grotta nascosta; così non quadra, a meno che non siano i trofei del Tarttalo. Capo, secondo la leggenda il Tarttalo divorava le sue vittime e poi lanciava le ossa sulla soglia della sua grotta come prova di crudeltà e avvertimento contro chiunque osasse avvicinarsi alla sua tana. Le ossa non erano state né buttate via né abbandonate, ma disposte con la massima cura per trasmettere un messaggio preciso».
Amaia annuì.
«Ma c’è di peggio, Jonan: il nostro Tarttalo corrisponde alla descrizione a livelli impressionanti. Le ossa presentavano lesioni piane e parallele identificate come segni di denti. Denti umani, Jonan».
Lui sgranò gli occhi, sconcertato.
«Un cannibale».
Amaia annuì ancora.
«Le impronte del morso sono state confrontate con i calchi dentali del patrigno di Johana e con quelli di Víctor, ma non coincidono».
«A quanti cadaveri appartenevano le ossa ritrovate?»
«A una dozzina, Jonan».
«E si è stabilita una relazione solo con Johana Márquez?»
«Era l’osso più recente».
«E le altre ossa che fine hanno fatto?»
«Sono state analizzate, ma senza un Dna di confronto…»
«Ecco perché mi ha fatto cercare le donne vittime di violenza di genere…»
«Le tre che abbiamo trovato sinora erano di qui o vivevano qui da piccole, come Johana».
«È incredibile che a nessuno sia venuto in mente di collegare il ritrovamento di una serie di avambracci ad altrettanti corpi di donne trovate senza un arto. Com’è possibile?»
«Gli assassini hanno tutti confessato il loro delitto volontariamente. È vero che almeno in due casi i rei confessi hanno negato di aver eseguito l’amputazione, ma chi vuoi che gli credesse? I dati non sono stati incrociati, ma questo non accadrà mai finché non si decideranno a creare una squadra speciale anticrimine che raccolga tutte le informazioni, finché saremo costretti a rispettare le competenze dei diversi corpi di polizia. Tu stesso hai potuto verificare quanto sia difficile indagare in questo genere di omicidi. I reati contro le donne non hanno quasi conseguenze: si chiudono e si archiviano in un attimo, soprattutto se l’autore confessa e si suicida. A quel punto è un caso chiuso e la vergogna provata dalle famiglie contribuisce solo a mettere tutto a tacere».
«Ho trovato altre due donne nate nella valle che sono morte per mano dei loro compagni. Ho i loro nomi e gli indirizzi in cui vivevano all’epoca del delitto: una era di Bilbao e l’altra di Burgos. Era questo che volevo dirle quando ci siamo sentiti prima: sono stati pubblicati i necrologi di entrambe nelle agenzie funebri della valle».
«Si sa se hanno subito amputazioni?»
«No, non si menziona niente del genere…»
«E degli aggressori cosa sappiamo?»
«Morti tutti e due: uno si è suicidato dentro casa prima che arrivasse la polizia e l’altro è scappato e l’hanno ritrovato qualche ora dopo. Si era impiccato a un albero in un campo vicino casa».
«Dobbiamo rintracciare qualche parente. È importantissimo».
«Mi metto al lavoro appena torniamo».
«Ah, Jonan, non parlarne con nessuno. È un’indagine autorizzata, ma non vogliamo fare rumore: ufficialmente ci occupiamo solo della profanazione della chiesa».
«La ringrazio per la fiducia».
«Prima hai detto che, oltre alle due nuove vittime, avevi altre novità sulle pompe funebri».
«Sì, con tutto questo trambusto quasi me ne scordavo. Più che altro è un aneddoto curioso, ma alle pompe funebri Baztandarra mi hanno detto che qualche settimana fa una donna è entrata in agenzia trascinandosene dietro un’altra, urlandole contro e facendola entrare a spintoni. Ha chiesto informazioni sulle bare e quando il proprietario le ha mostrato i vari modelli, lei ha preso per un braccio l’altra donna e le ha detto di sceglierne una perché sarebbe morta presto. Quello dell’agenzia dice che la donna era terrorizzata, che continuava a piangere e ripetere che non voleva morire.
«Davvero curioso…» ammise Amaia. «E non sa chi fossero? Mi sembra strano…»
«Dice di no», rispose Jonan con aria perplessa.
«Questo dev’essere l’unico posto al mondo in cui tutti sanno cosa fanno i vicini di casa e nessuno vuole raccontarlo», commentò scrollando le spalle.
Amaia prese il cellulare e verificò il segnale e l’ora, sorpresa di quanto fosse presto nonostante il buio e ricordando che il segnale orario era saltato mentre parlava con quella giovane in riva al fiume.
«Andiamo», disse rimettendosi in cammino, «devo fare una telefonata».
Ma non fece in tempo: era quasi arrivata alla macchina, quando il telefono squillò. Era Padua.
«Mi dispiace, ispettrice, ma la donna di Logroño non aveva parenti, perciò sono stati i familiari del marito a occuparsi dei suoi resti: l’hanno cremata».
«E non c’è proprio nessun altro? Niente genitori, niente fratelli, niente figli?»
«No, nessuno, neanche figli. Però almeno aveva un’amica molto stretta. Se vuole parlare con lei, posso trovarle il numero di telefono».
«No, non serve: non volevo parlarci, ma confrontare il Dna».
Riagganciò dopo averlo ringraziato. Poi si soffermò un istante a guardare il temporale, che continuava a infuriare dietro le montagne, disegnandone il profilo a ogni fulmine su un cielo sgombro di nuvole.
«Adesso arriva…» risuonò la voce della giovane nella sua testa. Un brivido le corse lungo la schiena e montò in macchina.
Il commissariato con tutte le luci accese nella notte anticipata di febbraio aveva un che di irreale, come un incrociatore spettrale approdato lì per errore. Amaia parcheggiò accanto a Jonan e sulla soglia d’ingresso si incrociarono con Zabalza, che usciva in compagnia di due persone. Beñat Zaldúa e il padre, si disse. Il viceispettore le fece un cenno di saluto, evitando di guardarla, e proseguì senza fermarsi.
Amaia lasciò Jonan alle prese con le sue ricerche ed entrò nell’ufficio di Iriarte.
«Ho visto Zabalza che usciva con il ragazzino e suo padre. Cos’è venuto fuori?»
«Niente», rispose scrollando la testa, «è un caso molto triste. Un ragazzo in gamba, proprio intelligente a dirla tutta. Depresso per la morte della madre, con un padre alcolista che lo picchia. Era pieno di lividi, ma si ostina a dire che è caduto per le scale. Il blog è la sua via di fuga e il modo con cui riempire le sue inquietudini culturali. È un adolescente arrabbiato, un po’ come tutti, solo che lui ha le sue buone ragioni. Mi ha fatto un’esposizione sugli agotes e la loro vita nella valle che mi ha lasciato a bocca aperta. Secondo me li usa semplicemente come fuga per la sua frustrazione, ma non credo che c’entri qualcosa con le profanazioni. No davvero, non me lo immagino a prendere ad asciate il fonte battesimale. È… come dire, fragile».
Lei si mise a elencare mentalmente quanti profili di assassini fragili, con l’aria di non aver mai rotto un piatto in vita loro, avesse studiato. Guardò negli occhi Iriarte e decise di fidarsi: non a caso era ispettore, e in fondo era stata lei a decidere di delegargli l’interrogatorio.
«Ve bene, ma se scartiamo il ragazzo, da che parte suggerisce di continuare?»
«In realtà non abbiamo granché in mano: i rapporti autoptici dei mairu-beso non sono ancora arrivati, teniamo un’autopattuglia appostata di fronte alla chiesa e per il momento non si sono verificati altri incidenti».
«Io interrogherei le catechiste, tutte quante, ognuna singolarmente a casa sua. Il parroco avrà anche detto di non aver mai avuto problemi con nessuno, ma magari le signore ricordano qualche dettaglio che a lui può essere sfuggito, o che preferisce tenere per sé, e dovrebbe andarci con Zabalza. Ho notato che piace molto alle signore di una certa età», aggiunse sorridendo. «Se bevendoci un caffè insieme le convince a parlare, forse riesce a farsi raccontare qualcosa d’interessante».
Facendo una piccola deviazione, Amaia guidò fino alla piazza del mercato e attraversò il fiume all’altezza di calle Giltxaurdi. Percorse il quartiere lentamente, muovendosi con attenzione tra le macchine parcheggiate, quando un gruppetto di tre ragazzi in bici le tagliò la strada facendole prendere un bello spavento. Girarono a destra e si fermarono sul retro del laboratorio. Accostò la macchina e li seguì a piedi con la torcia spenta in mano. Le loro risate e la luce della loro torcia si riconoscevano da lontano. Camminò strisciando contro la parete finché non li raggiunse, e solo allora si identificò, puntando loro contro la sua luce potente.
«Polizia! Cosa state facendo?»
Uno dei ragazzi si prese una tale paura che perse l’equilibrio e andò a sbattere con la bici contro i suoi compagni. Mentre cercavano di rialzarsi, uno di loro si mise una mano a visiera sugli occhi per guardarla.
«Non facciamo niente», rispose nervoso.
«Come no? Allora cosa ci fate qui? Questa è l’entrata posteriore di un magazzino, qui non c’è niente d’interessante».
Nel frattempo gli altri due ragazzi avevano raddrizzato le bici e risposero: «Non facevamo niente di male, siamo solo venuti a guardare».
«Guardare che cosa?»
«Le scritte».
«Le avete fatte voi?»
«No, non siamo stati noi!»
«Non dite balle!»
«Non diciamo balle».
«Però sapete chi è stato».
I tre ragazzi si guardarono a vicenda, ma non aprirono bocca.
«Lo sapete cosa faccio adesso? Chiamo un’autopattuglia, vi fermo per vandalismo, avviso i vostri genitori e forse allora vi si rinfrescherà la memoria, che ne dite?»
«È una vecchia», confessò di getto uno.
«Sì, una vecchia…» gli andarono dietro gli altri.
«Viene qui tutte le sere e scrive tantissimi insulti, tipo “puttana”, “troia”, e robe del genere. Un giorno l’abbiamo vista che si infilava qui dietro, e quando se n’è andata siamo venuti a guardare…»
«Viene tutte le sere, secondo me è un po’ matta», azzardò l’altro.
«Sì, una vecchia graffitara pazza», sentenziò il primo, facendo scoppiare tutti a ridere.