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«Buongiorno», disse, rivolgendosi all’uomo alla reception. «Vorrei parlare con il dottor Sarasola. Potrebbe avvertirlo?»

Sul viso del concierge si dipinse un’espressione quasi impercettibile di sorpresa prima di recuperare la calma e rispondere: «Mi dispiace, signora, ma non risulta nessun dottor Sarasola nel nostro centro».

La sorpresa di Amaia fu molto più evidente.

«Come no? Il dottor Sarasola. Padre Sarasola, di Psichiatria».

Il concierge tornò a scrollare la testa.

Amaia guardò Jonan sconcertata ed estrasse il suo distintivo, mettendoglielo sotto il naso e ripetendo: «Gli dica che l’ispettrice Salazar è qui».

L’uomo prese il telefono e digitò un numero sforzandosi di dissimulare l’agitazione in cui l’aveva fatto piombare la vista del distintivo.

Un amabile sorriso gli si dipinse sulle labbra mentre riagganciava.

«Mi deve scusare, ispettrice, ma siamo tenuti a seguire un protocollo di privacy rigidissimo per proteggere eminenze del calibro di padre Sarasola. Se solo si sapesse in giro che si trova qui, avremmo la reception piena di persone che vogliono parlare con lui. Vi riceve subito. Quarto piano. Vi verranno a prendere all’ascensore, e scusate l’equivoco».

Amaia si girò verso gli ascensori senza replicare. Quando le porte si aprirono al quarto piano, una giovane monaca li attendeva per condurli lungo il corridoio verso un ufficio accanto all’infermeria. Li invitò ad accomodarsi e uscì, sempre silenziosa. Un minuto dopo, padre Sarasola entrava nell’ufficio.

«È un piacere rivederla, ispettrice. Vedo che non è sola», disse porgendo la mano al viceispettore Etxaide, «perciò ne deduco che si tratta di una visita di lavoro, e non di carattere medico».

«In realtà un po’ tutte e due, ma sarà meglio cominciare con il lavoro».

Sarasola si sedette e incrociò le mani.

«Come già saprà, c’è stata una nuova profanazione nella chiesa di Arizkun. Hanno provocato un incendio in un antico palazzo medievale della zona, distraendo l’attenzione della pattuglia di guardia, e ne hanno approfittato per compiere il loro gesto sacrilego, stavolta con alcuni danni alla facciata dell’edificio, oltre che con l’abbandono dei resti ossei. Prima di quest’ultima profanazione, avevamo già interrogato un giovane di Arizkun che, in effetti, mostra rancore contro la Chiesa a causa di una morbosa ossessione per gli agotes e la loro storia. È un adolescente brillante, in piena elaborazione del lutto per la morte della madre, che forse è solo uscito di strada; tuttavia, siamo convinti che il profanatore non sia lui, anche se magari ha potuto facilitare le cose al responsabile vero e proprio. Non abbiamo ancora concluso le indagini, ma credo che a breve potremo arrestare il vero colpevole e sarà proprio grazie alla collaborazione del ragazzo, che ci ha fornito un grande aiuto per identificarlo».

«Sì…» ribadì Sarasola, «un vero modello di virtù. Mi auguro che abbiate arrestato questo angioletto: la diocesi sporgerà denuncia contro di lui».

«Le ho già detto che ha collaborato…»

«Ma di fatto il responsabile resta lui».

Amaia squadrò Sarasola chiedendosi se stessero cercando il vero responsabile, o avessero solo bisogno di un capro espiatorio.

«No, è soltanto un adolescente confuso, manipolato da un delinquente. Non vediamo alcun motivo per sporgere denuncia».

Sarasola la guardò con aria severa come se volesse ribattere, ma all’ultimo rilassò i lineamenti e fece un leggero sorriso.

«Bene, allora se non c’è motivo di sporgere denuncia, rimarremo in attesa di questo arresto».

Sapeva distinguere una concessione, la manovra di negoziazione per cui si dava sempre qualcosa in cambio di qualcos’altro. Perciò rimase in attesa.

«E adesso, immagino che venga la parte medica, giusto?»

Amaia sorrise. Eccoci al punto.

«Non preferisce che parliamo in privato?» disse Sarasola guardando Jonan. «Mi scusi, ma sono argomenti molto delicati…»

«Per me può rimanere», rispose Amaia.

«Io preferirei di no», tagliò corto Sarasola.

«L’aspetto accanto all’infermeria», disse Jonan uscendo.

Sarasola attese che la porta si richiudesse prima di cominciare a parlare.

«Manteniamo la massima riservatezza circa le informazioni mediche. Tenga conto che lei è la figlia, ma per chiunque altro la terapia di sua madre appartiene al segreto medico-paziente».

«L’altro giorno, nella clinica Santa María de las Nieves, ha detto che conosceva il caso di Rosario. Mi risulta tuttavia che lei non l’abbia mai avuta in cura, quindi come ha fatto a venirne a conoscenza?»

«Le ho già spiegato che la sfumatura del caso psichiatrico di sua madre è quella che ci interessa di più».

«La sfumatura del male?»

«La sfumatura del male. Ai congressi di psichiatrica si presentano casi che possono rivelarsi utili a ottenere progressi terapeutici. Non si menziona mai il nome del paziente, ma solo l’età e i dettagli della sua storia personale e familiare in rapporto alla malattia».

«Ed è stato così che è venuto a conoscenza della malattia di Rosario?»

«Sì, quasi sicuramente la prima volta che ho sentito parlare del suo caso dev’essere stato a un congresso, forse è stato lo stesso dottor Franz a menzionarlo».

«Il dottor Franz della Santa María de las Nieves?»

«Non sarebbe poi così strano, e non deve risentirsene. Come le ho già detto, è una pratica abituale che consente di mettere in comune aspetti clinici e trattamenti terapeutici. Questo, insieme agli articoli scientifici pubblicati sulle riviste mediche specializzate, costituisce un apporto fondamentale nel nostro lavoro. Desidera vederla?»

Amaia ebbe un sussulto.

«Che cosa?»

«Desidera vedere sua madre? Adesso è molto tranquilla, e il suo aspetto è buono».

«No», rispose lei.

«Lei non la vedrà: è sotto osservazione dietro una vetrata a specchio come quella che usate voi in commissariato. Forse vedendola si potrà fare un’idea del suo stato attuale e smetterla di fare supposizioni».

Il dottor Sarasola si era già alzato e si dirigeva verso la porta. Amaia lo seguì mentre sentiva crescere la confusione. Non voleva vederla, ma lui aveva ragione: doveva sapere fino a che punto l’evoluzione clinica di cui parlava il dottor Franz fosse autentica, fino a che punto fosse manipolabile.

Il locale attiguo alla stanza di Rosario era in effetti molto simile a quello che c’era in commissariato accanto alla sala interrogatori. Seguì il dottor Sarasola, che entrando salutò il tecnico video che attraverso lo specchio registrava tutto ciò che accadeva nella stanza. Rosario era di spalle, rivolta alla finestra senza tende da cui entrava una luce intensa che contribuiva a offuscare il suo profilo. Amaia entrò dopo Sarasola e si affacciò con cautela, avvicinandosi al vetro. Come se avesse sentito urlare il suo nome, come se un fulmine scagliato dalla figlia l’avesse colpita in pieno, come se fosse stata uno squalo assetato di sangue, Rosario si girò lentamente verso lo specchio, e nel farlo sulle sue labbra si dipinse una smorfia di orribile soddisfazione che Amaia riuscì a vedere solo di sbieco, giacché d’istinto si era ritratta dalla finestra, nascondendosi dietro la parete.

«Riesce a vedermi!» esclamò terrorizzata.

«No, non può vederla né sentirla: questa stanza è completamente isolata».

«Riesce a vedermi», ripeté, «chiuda le tende!»

Sarasola la osservava con occhio clinico, chiaramente interessato alle sue reazioni.

«Le ho detto di chiudere le tende!» ripeté estraendo la pistola. Sarasola fece un passo avanti e azionò il bottone di chiusura automatica della tapparella.

Solo quando sentì il clic, Amaia si staccò dalla parete quel tanto che le bastava per verificare che fosse chiusa. Mise via la pistola e uscì dalla stanza. Sarasola la seguì, ma prima si girò verso il tecnico e gli chiese: «Hai registrato tutto?»

Amaia avanzava furiosa lungo il corridoio, seguita da Sarasola.

«Lei lo sapeva cosa sarebbe successo!»

«No, non sapevo cosa sarebbe successo!» si difese lui.

«Però sapeva che sarebbe successo qualcosa, sapeva che ci sarebbe stata una reazione», lo accusò, girandosi leggermente per guardarlo.

Lui non rispose.

«Non avrebbe dovuto farlo, non senza consultarmi».

«Aspetti, la prego, quello che è successo è importante, dobbiamo parlarne!»

«Mi dispiace tanto, dottor Sarasola», disse senza fermarsi, «ma adesso devo proprio andarmene, sarà per un’altra volta!»

Raggiunsero l’infermeria nello stesso momento in cui un gruppo di sei medici in camice bianco che avanzavano quasi in formazione si fermò con aria rispettosa vedendo il sacerdote. Sarasola fece un cenno verso di loro e disse ad Amaia: «Guarda che felice coincidenza! Ispettrice, le presento l’équipe medica che ha in cura sua madre, per la precisione il dottor Berasategui è il…»

«Un’altra volta», tagliò corto Amaia. Quindi guardò il sorridente gruppo di dottori e proseguì verso gli ascensori biascicando un «Se mi volete scusare…»

Attese che le porte si richiudessero prima di dire: «Maledizione, Jonan, mi sa che ho commesso un terribile errore a portare qui mia madre! Non ne sono mai stata del tutto convinta, ma adesso ho davvero seri dubbi sulla decisione di spostarla, e non perché non creda che riceverà le cure migliori… Si tratta d’altro».

«Sarasola?»

«Sì, mi sa che è padre Sarasola… quell’uomo ha qualcosa, non so cosa, ma è di una tale prepotenza… Eppure so che in qualche modo ha ragione».

«Quando ero piccolo, si diceva che al reparto psichiatrico dell’Opus Dei si praticavano esorcismi: se in Spagna o in qualsiasi altro posto c’era un caso sospetto di possessione demoniaca, i sacerdoti li chiamavano e loro si facevano carico delle spese, dei trasferimenti e ovviamente anche della “cura”», le spiegò Jonan senza sorridere.

Neanche lei lo fece quando aggiunse con aria pensierosa: «Il giorno che Sarasola mi ha proposto di trasferirla qui, gli ho chiesto quasi per scherzo se volessero praticarle un esorcismo».

Jonan attese qualche secondo, concedendole un po’ di tempo prima di chiederle: «E lui cosa le ha risposto?»

«Che nel caso di mia madre non serviva, e secondo me non scherzava affatto».