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L’atmosfera in tribunale era irrespirabile. L’umidità della pioggia, impregnata nei cappotti, cominciava a evaporare insieme al fiato di centinaia di persone che affollavano i corridoi di fronte alle aule. Amaia si sbottonò il giaccone mentre salutava il tenente Padua, che, dopo aver scambiato due parole con una donna e averla fatta accomodare, le si avvicinò schivando la gente in attesa.
«Ispettrice, che piacere vederla. Come sta? Non ero sicuro che ce l’avrebbe fatta a venire oggi», aggiunse, indicando il suo pancione.
Lei si portò d’istinto una mano sull’addome, che rivelava una gravidanza quasi a termine.
«Tutto bene, pare che per il momento abbia deciso di aspettare. Ha visto la madre di Johana?»
«Sì, è molto nervosa, aspetta dentro con la famiglia. Io sto andando di sotto, mi hanno appena avvertito che è arrivato il cellulare con Jasón Medina», la informò avviandosi verso l’ascensore.
Amaia entrò nell’aula e si accomodò su una delle panche in fondo, in modo da vedere la madre di Johana Márquez vestita a lutto e molto più magra rispetto al funerale della figlia. Quasi percependo la sua presenza, la donna si girò verso di lei e abbozzò un cenno di saluto. Lei cercò inutilmente di sorridere, colpita dal colorito terreo del viso di quella madre tormentata dalla certezza di non aver potuto proteggere la figlia dal mostro a cui lei stessa aveva spalancato le porte di casa. Il cancelliere procedette con l’appello delle parti in causa e ad Amaia non sfuggì lo sdegno che si dipinse sul volto della donna sentendo il nome del marito.
«Jasón Medina», ripeté il cancelliere. «Jasón Medina».
Un poliziotto in uniforme entrò di corsa nell’aula, si avvicinò al cancelliere e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. A sua volta lui si chinò per parlare con il giudice, che rimase ad ascoltarlo, annuì, chiamò al banco il pubblico ministero e l’avvocato difensore, disse loro qualcosa e si alzò.
«La seduta è sospesa fino a nuovo ordine». E senza aggiungere altro, uscì dall’aula.
La madre di Johana si mise a gridare girandosi verso di lei in cerca di risposte.
«No!» strillò. «Ma perché?»
Le donne con cui era venuta in tribunale cercarono invano di abbracciarla per contenere la sua disperazione.
Uno dei poliziotti si avvicinò ad Amaia.
«Ispettrice Salazar, il tenente Padua chiede se può raggiungerlo di sotto, nelle celle».
Uscendo dall’ascensore, vide subito che c’erano diversi poliziotti assiepati di fronte alla porta dei servizi. L’agente che l’accompagnava le fece segno di entrare. Un poliziotto e una guardia penitenziaria se ne stavano appoggiati contro la parete con l’aria stravolta. Padua guardava dentro il bagno, con i piedi quasi nella pozza di sangue che si allargava sotto la parete divisoria e che non aveva ancora cominciato a coagularsi. Appena vide entrare l’ispettrice, si fece da parte.
«Ha detto al secondino che doveva andare in bagno. È riuscito a tagliarsi la gola con le manette addosso. È stato un attimo, l’agente non si è mosso da qui: l’ha sentito tossire ed è entrato, ma ormai non c’era più niente da fare».
Amaia fece un passo avanti per vedere la situazione. Jasón Medina era seduto sul gabinetto con la testa all’indietro e un taglio scuro e profondo sul collo. Il sangue aveva impregnato il bavero della camicia come se un bavaglino rosso gli fosse scivolato tra le gambe macchiando tutto al suo passaggio. Il corpo era ancora caldo e l’odore della morte saturava l’aria.
«Cos’ha usato?» chiese Amaia, non vedendo oggetti.
«Un cutter. Gli è caduto di mano quando ha perso le forze ed è finito nel gabinetto qui accanto», rispose Padua aprendo la porta vicina.
«Come ha fatto a portarlo qui dentro? È di metallo, e il metal detector avrebbe dovuto suonare, no?»
«Infatti non è stato lui a portarlo. Se guarda bene», disse, «noterà che sul manico del cutter c’è un pezzo di scotch. Qualcuno si dev’essere preso il disturbo di lasciare il cutter qui dentro, quasi certamente dietro lo sciacquone, e lui non ha dovuto far altro che estrarlo dal nascondiglio».
Amaia trasse un profondo sospiro.
«Ma c’è dell’altro», riprese Padua, con aria turbata. «Guardi cosa abbiamo trovato nella tasca della giacca di Medina», disse sollevando con una mano inguantata una busta bianca.
«Un biglietto di addio?» azzardò Amaia.
«Non proprio», rispose Padua porgendole la busta e un paio di guanti. «È indirizzata a lei».
«A me?» si stupì Amaia, indossando i guanti.
«Posso?»
«Prego».
L’aletta era incollata in maniera leggera e cedette senza strapparsi. Dentro, un biglietto bianco con una sola parola scritta al centro.
TARTTALO
Amaia sentì una forte fitta al ventre, trattenne il fiato nascondendo il dolore, girò il foglio per controllare che non ci fosse scritto altro, e lo restituì a Padua.
«Cosa significa?»
«Veramente speravo che fosse lei a dirmelo».
«Non ne ho idea, tenente Padua, per me non ha un grande significato», rispose Amaia, leggermente confusa.
«Un tarttalo è un essere mitologico, no?»
«Sì, per quel che ne so io, dovrebbe essere un ciclope della mitologia greco-romana, e anche di quella basca. Dove vuole arrivare?»
«Lei ha lavorato al caso del basajaun, il Signore del bosco, che era un’altra creatura mitologica, e adesso l’assassino confesso di Johana Márquez, che casualmente ha cercato di imitare un delitto del basajaun per nascondere il suo, si suicida e lascia un biglietto indirizzato a lei, un biglietto in cui scrive solo la parola ‘tarttalo’. Non vorrà negare che è quantomeno curioso, no?»
«Sì, lo ammetto», sospirò Amaia, «è piuttosto strano. Ma nel corso delle indagini abbiamo stabilito senza margine di dubbio che era stato Jasón Medina a violentare e uccidere la sua figliastra, per poi cercare di imitare in maniera piuttosto maldestra un delitto del basajaun. In più, era stato lui stesso a confessare il crimine fin nel minimo dettaglio. Intende forse suggerire che non l’abbia uccisa lui?»
«No, non ho alcun dubbio in proposito», affermò Padua guardando infastidito il cadavere. «Ma rimane ancora il problema dell’amputazione e delle ossa della ragazza ritrovate ad Arri Zahar, e adesso questo. Speravo proprio che lei potesse…»
«Non so cosa significhi, e neppure perché sia indirizzato a me».
Padua sospirò continuando a fissarla.
«Certo, ispettrice».
Amaia preferì uscire dal retro per non incontrare la madre di Johana. Non avrebbe saputo cosa dirle; forse che era finito tutto, oppure che alla fine quel miserabile era riuscito a svignarsela nell’altro mondo come lo schifoso vigliacco che era sempre stato in vita. Mostrò il distintivo agli agenti di guardia e finalmente si liberò dell’atmosfera plumbea del tribunale. Aveva smesso di piovere e la luce incerta e brillante del dopo acquazzone tipica di Pamplona la fece lacrimare mentre frugava nella borsa alla ricerca degli occhiali da sole. Aveva fatto una gran fatica a trovare un taxi per arrivare in tribunale all’ora di punta. Quando pioveva era sempre la stessa storia, ma adesso alla fermata era pieno di taxi, mentre i pamplonesi avevano deciso di andare a piedi. Si fermò un istante di fronte al primo della coda. Non voleva ancora tornare a casa: la prospettiva di farsi bombardare di domande da Clarice non l’attirava per niente. Da quando erano arrivati i suoi suoceri due settimane prima, il concetto di casa aveva subito profonde alterazioni. Guardò le vetrine invitanti dei bar di fronte al tribunale e in fondo a calle San Roque, dove intravide gli alberi del parco della Media Luna. Fino a casa sua doveva esserci all’incirca un chilometro e mezzo, e così si incamminò. Casomai, poteva sempre prendere un taxi lungo la strada.
Provò un sollievo immediato quando entrò nel parco lasciandosi alle spalle il rumore del traffico e l’odore dell’erba umida sostituì la puzza dei gas di scarico. In maniera quasi istintiva rallentò il passo e imboccò uno dei vialetti in pietra che costeggiavano la serie ininterrotta di prati. Trasse un respiro profondo ed espirò molto lentamente. Bella mattinata, si disse; Jasón Medina incarnava alla perfezione il profilo del colpevole che si suicida in prigione. Avendo violentato e ucciso la figlia di sua moglie era rimasto in isolamento in attesa del processo, ma di sicuro la prospettiva di mescolarsi ai delinquenti comuni dopo la condanna doveva terrorizzarlo. Dagli interrogatori di nove mesi prima, durante le indagini sul basajaun, lo ricordava come un verme piagnucoloso e spaventato, che confessava le sue atrocità in un mare di lacrime.
Per quanto non fosse un caso di sua competenza, il tenente Padua della Guardia Civil l’aveva invitata a partecipare alle indagini per via del goffo tentativo di Medina di imitare il modus operandi del serial killer a cui lei dava la caccia da tempo. Nove mesi fa, proprio quando era rimasta incinta. Quante cose erano cambiate da allora.
«Vero, piccolina?» sussurrò accarezzandosi la pancia.
Una forte contrazione la costrinse a fermarsi. Afferrandosi all’ombrello e piegandosi in avanti, riuscì a superare la fitta tremenda che l’aveva colpita al basso ventre, per poi estendersi all’interno coscia, provocandole un crampo che le strappò un gemito, non tanto di dolore, ma piuttosto di sorpresa.
Ecco com’era. Si era chiesta mille volte come sarebbe stato partorire, se avrebbe saputo distinguere le prime avvisaglie o se sarebbe stata una di quelle donne che arrivano in ospedale con la testa del bimbo fuori a metà, o che partoriscono sul taxi.
«Ehi, piccolina!» le disse con dolcezza. «Manca ancora una settimana, sei sicura di voler già uscire?»
Il dolore era scomparso come se niente fosse. Provò una gioia immensa e un’ondata di nervosismo di fronte all’imminenza del suo arrivo. Sorrise felice e si guardò attorno come per condividere la sua soddisfazione, ma il parco era deserto, umido e fresco, di un verde smeraldo reso ancora più radioso dalla luce brillante che filtrava attraverso le nuvole. Le ricordava la sensazione di scoperta che provava sempre nel Baztán, e che a Pamplona le sembrò un dono inaspettato. Riprese a camminare, proiettata adesso in quel magico bosco, dinnanzi agli occhi ambrati del signore di quei domini. Solo nove mesi prima faceva le sue indagini proprio lì, nel posto dove era nata, nel posto da cui aveva sempre voluto fuggire, nel posto in cui era tornata per dare la caccia a un assassino e dove aveva concepito la sua piccola.
La certezza di una figlia che le cresceva in grembo le aveva donato la calma e la serenità indispensabili per superare gli eventi orribili che era stata costretta a vivere e che solo pochi mesi prima l’avrebbero annientata. Tornare a Elizondo, scavare nel suo passato e soprattutto la morte di Víctor avevano sconvolto il suo mondo e quello di tutta la sua famiglia. La zia Engrasi era l’unica che non faceva una piega, leggeva i tarocchi e ogni pomeriggio continuava a giocare a poker con le sue amiche, sorridendo con l’aria di chi ormai è abituata a tutto. Flora si era trasferita in fretta e furia a Zarautz, con il pretesto di dover registrare quotidianamente i programmi di pasticceria per la televisione nazionale. Con grande sorpresa di tutti, si era rassegnata a cedere la gestione della Mantecadas Salazar a Ros, che in realtà – come aveva previsto Amaia – si era dimostrata una bravissima direttrice, per quanto all’inizio un po’ timida. Amaia le aveva offerto il suo appoggio, e negli ultimi mesi aveva trascorso quasi tutti i fine settimana a Elizondo, anche se da qualche tempo si era resa conto che Ros non aveva più bisogno di aiuto. Eppure continuava ad andare da loro, a mangiare con loro, a dormire a casa della zia, la sua casa. Dal momento in cui la bimba aveva cominciato a crescerle in pancia, da quando aveva avuto il coraggio di dare un nome alla paura e di condividerla con James, e forse anche per via del contenuto del dvd che custodiva accanto alla pistola nella cassaforte della sua camera, l’aveva saputo, aveva saputo di avere una certezza, una sensazione di casa, di radice, di terra, che credeva di aver perduto per sempre.
Arrivata in calle Mayor, ricominciò a piovere. Aprì l’ombrello e camminò evitando la gente che faceva shopping e i passanti sorpresi dall’acqua che correvano mezzi curvi sotto le grondaie dei palazzi e le pensiline dei negozi. Si trattenne di fronte a una vetrina tutta colorata di abbigliamento per bambini e rimase a fissare i vestitini rosa ricamati a fiorellini minuscoli, dicendosi che forse Clarice aveva ragione a ripeterle di comprare qualcosa di simile alla sua bimba. Sospirò, improvvisamente infastidita al pensiero della cameretta che Clarice le aveva regalato. I suoi suoceri erano venuti a Pamplona per la nascita della piccola, e nel giro di soli dieci giorni lei aveva visto realizzate tutte le sue più nefaste previsioni di suocera invadente. Sin dal primo giorno quella donna aveva messo bene in chiaro che le sembrava assurdo non aver ancora predisposto una cameretta per la neonata, con tutte le stanze vuote che c’erano in casa.
Amaia aveva recuperato una culla antica di legno nobile che per anni era servita come portalegna nel salotto della zia Engrasi. James l’aveva scartavetrata a fondo e ridipinta, mentre le amiche di Engrasi avevano cucito dei bellissimi coprifasce e una sovracopertina bianca che davano un ulteriore tocco di eleganza e tradizione alla culletta. La sua stanza era grande, avevano spazio in abbondanza, e l’idea di tenere la bimba in un’altra camera non la convinceva del tutto, nonostante i numerosi vantaggi che gli esperti continuavano a elencare. No, non le piaceva, almeno per il momento. Per i primi mesi, almeno finché l’avesse allattata al seno, tenerla vicina avrebbe facilitato le poppate notturne e contribuito a dominare le sue ansie di neomamma.
Clarice non ne voleva sapere. «La bambina deve avere una stanza per sé, con tutte le sue cose accanto. Credimi, riposerete entrambe molto meglio. Se te la tieni vicina, passerai la notte a controllare ogni sospiro e ogni più piccolo movimento. Lei deve avere il suo spazio, e voi il vostro. In più, non credo che sia igienico per la bimba condividere l’aria notturna con due adulti, poi i bambini si abituano e non si riesce più a metterli nella loro stanza».
Anche lei aveva letto i libri di una quantità di prestigiosi pediatri decisi a creare una nuova generazione di bambini educati alla sofferenza, che non andavano presi troppo in braccio, che dovevano dormire da soli fin da subito e che non andavano consolati nelle crisi di pianto perché dovevano imparare a essere indipendenti e a gestirsi da soli i fallimenti e le paure. Tutte quelle sciocchezze le facevano rivoltare lo stomaco. Forse, se uno di quegli illustri dottori si fosse visto costretto come lei a «gestire» il suo dolore sin dall’infanzia, la sua visione del mondo sarebbe stata leggermente diversa. Se sua figlia voleva dormire con loro fino a tre anni, per lei andava benissimo: voleva consolarla, ascoltarla, dare e togliere importanza alle sue paure, che – come lei ben sapeva – potevano essere enormi anche da piccoli. Ma era evidente che Clarice aveva le sue idee su come andavano fatte le cose, e voleva a tutti i costi imporle agli altri.
Tre giorni dopo, arrivata a casa, aveva trovato il regalo a sorpresa della suocera: una magnifica cameretta con tanto di armadio, fasciatoio, cassettiera, tappeto e lampada. Un tripudio di nuvolette e agnellini rosa, di pizzi e merletti ovunque. James l’aveva aspettata sulla porta con aria mortificata e le aveva dato un bacio sussurrandole all’orecchio: «Lo fa con buone intenzioni». A quel punto, ad Amaia si era gelato il sorriso di fronte a quello stucchevole profluvio di rosa, sentendosi scavalcata in casa sua. Invece Clarice sembrava deliziata dai suoi acquisti e si aggirava tra i mobili nuovi come la presentatrice di una televendita, mentre il suocero, impassibile come sempre di fronte all’energica moglie, continuava a leggere il giornale sulla poltrona del salotto. Amaia faceva una gran fatica a immaginare che Thomas fosse a capo di un impero finanziario negli Stati Uniti; di fronte alla moglie si comportava sempre con un misto di sottomissione e indolenza che riusciva immancabilmente a stupirla. Si rese conto di quanto si sentisse a disagio James, e solo per questo cercò di mantenere la calma mentre la suocera le mostrava la meravigliosa cameretta che le aveva appena comprato.
«Guarda che bell’armadio, qui ci stanno tutti gli abitini della piccola, e dentro il fasciatoio c’è una cassettiera molto capiente. Non vorrai dirmi che il tappeto non è bello, vero? E poi», aggiunse tutta soddisfatta, «la cosa più importante: una culla degna di una principessa».
Amaia riconobbe che l’enorme culla rosa era degna della figlia di un re, e così grande che la bimba ci avrebbe potuto dormire comodamente almeno fino ai quattro anni.
«Che bella», si costrinse a dire.
«È bellissima, e così potrai restituire il portalegna a tua zia».
Amaia uscì dalla cameretta senza rispondere, entrò nella sua stanza e aspettò James.
«Oh, mi dispiace, tesoro, non lo fa per cattiveria, è solo che lei è fatta così, resisti solo qualche altro giorno, ti prego. Lo so che stai avendo molta pazienza, Amaia, ma ti prometto che quando se ne saranno andati ci libereremo di tutto quello che non ti piace».
E così aveva finito per accettare, per James e perché non aveva la forza di mettersi a discutere con Clarice. James aveva ragione, stava avendo molta pazienza, cosa che normalmente non si addiceva al suo carattere. Sarebbe stata la prima volta che permetteva a qualcuno di manipolarla, ma in quest’ultima fase della gravidanza dentro di lei era cambiato qualcosa. Erano giorni che non si sentiva bene, tutta l’energia di cui aveva goduto nei primi mesi si era come dileguata, sostituita da una svogliatezza insolita per lei. In più, la presenza ingombrante di sua suocera accentuava ancora di più la sua mancanza di forze. Tornò a guardare i vestitini in vetrina e decise che Clarice ne aveva già comprati abbastanza. I suoi eccessi di nonna al primo nipotino le davano un gran fastidio, ma c’era anche dell’altro: in realtà, avrebbe dato qualsiasi cosa per provare anche lei la stessa ebbrezza di felicità a tinte rosa che aveva colpito la suocera.
Da quando era rimasta incinta, si era limitata a comprare un paio di scarpine, delle camiciole e delle ghettine per la bimba, più qualche pagliaccetto a tinte neutre. No, il rosa non era proprio il suo colore preferito. Quando vedeva in vetrina i vestitini, le giacchine, le copertine e tutti quegli oggettini strapieni di pizzi e merletti, pensava che erano belli, certo, perfetti per una piccola principessa, ma quando li teneva in mano provava un rifiuto totale per tutta quella roba sdolcinata, e finiva sempre per non comprare niente e uscire dal negozio confusa e infastidita. Non le sarebbe dispiaciuto avere almeno un po’ dell’entusiasmo di Clarice, che si scioglieva in gridolini di giubilo di fronte ai vestitini con le scarpette coordinate. Sapeva che non avrebbe potuto essere più felice, che aveva amato quella creaturina da sempre, da quando lei stessa era una bambina sventurata e infelice e sognava un giorno di diventare madre. Una madre vera, un desiderio che aveva preso forma quando aveva conosciuto James e le aveva fatto vivere settimane di angoscia quando la gravidanza stentava ad arrivare, al punto da prospettare l’ipotesi di un trattamento di fertilità. E poi, nove mesi prima, proprio mentre indagava sul caso più importante di tutta la sua vita, era rimasta incinta.
Era felice, o almeno credeva di doverlo essere, e questo la confondeva ancora di più. Fino a poco prima si era sentita appagata, contenta e sicura come non si sentiva da tanto, e tuttavia, nelle ultime settimane, nuovi timori, che in realtà erano vecchi come il mondo, erano furtivamente tornati a insinuarsi nei suoi sogni, sussurrandole parole che conosceva ma non aveva nessuna voglia di riconoscere.
Una nuova contrazione meno dolorosa ma più lunga le indurì di nuovo l’addome. Guardò l’orologio. Venti minuti dall’ultima nel parco.
Si avviò verso il ristorante in cui avevano appuntamento, perché Clarice disapprovava che James fosse costretto a cucinare tutti i giorni. Di fronte al rischio di ritrovarsi un maggiordomo inglese dentro casa da un giorno all’altro, avevano deciso di andare a pranzo e cena fuori tutti i giorni finché i suoi fossero rimasti in città.
James aveva scelto un ristorante moderno su una parallela di calle de Mercaderes, dove vivevano. Clarice e il silenzioso Thomas stavano sorseggiando un Martini quando Amaia arrivò. James si alzò appena la vide.
«Ciao, Amaia, come stai, amore?» le chiese baciandola sulle labbra e spostando la sedia per farla accomodare.
«Bene», rispose lei, incerta se informarlo del probabile inizio delle contrazioni. Guardò Clarice e decise di lasciar stare.
«E la nostra piccola?» sorrise James mettendole una mano sulla pancia.
«La nostra piccola»», ripeté sarcastica Clarice. «Ma vi sembra normale che a una settimana dalla nascita di vostra figlia non le abbiate ancora scelto un nome?»
Amaia aprì il menu e fece finta di leggere dopo aver rivolto un’occhiata a James.
«Oh, mamma, ancora con questa storia! Ci sono un po’ di nomi che ci piacciono, ma non abbiamo ancora deciso, e così aspettiamo che la bimba nasca. Quando vedremo il suo faccino, riusciremo a decidere come chiamarla».
«Ah, sì?» si interessò Clarice. «E che nomi avete in mente? Magari Clarice?» Amaia sbuffò. «No, no, ditemi quali nomi avete pensato», insistette Clarice.
Amaia sollevò lo sguardo dal menu mentre una nuova contrazione le induriva l’addome per qualche secondo. Guardò l’orologio, sorrise.
«In realtà, io ho già deciso», mentì, «ma vorrei che fosse una sorpresa. Posso solo anticiparti che non sarà Clarice, non mi piacciono i nomi ripetuti all’interno della famiglia: credo che ognuno debba avere un’identità propria».
Clarice le rivolse un sorriso a denti stretti.
Il nome della piccola era l’altro missile che Clarice le lanciava contro ogni volta che poteva. Come si sarebbe chiamata la bambina? La suocera aveva insistito a tal punto che James l’aveva pregata di decidersi a scegliere per mettere finalmente a tacere la madre. Ma a quel punto lei si era infuriata. Questo era davvero il colmo: doveva scegliere un nome solo per dare soddisfazione alla suocera?
«No, non per darle soddisfazione, Amaia: dobbiamo scegliere un nome perché in qualche modo dovremo pur chiamare la bimba e sembra quasi che tu non ci voglia pensare».
E come per la questione dei vestitini, lei sapeva benissimo che avevano ragione. Aveva letto qualche libro sull’argomento, e si era preoccupata tanto che aveva chiesto aiuto alla zia Engrasi.
«Vedi, io non ho avuto bambini, perciò non posso parlare per esperienza personale, però a livello clinico so che capita spesso alle madri al primo figlio e soprattutto ai papà. Quando si ha già un bambino, si sa cosa ci aspetta, non c’è più sorpresa, ma alla prima gravidanza può accadere che una mamma non riesca ad associare i cambiamenti del proprio corpo alla presenza di un bambino reale. Al giorno d’oggi, con le ecografie e la possibilità di ascoltare il cuore del feto e conoscere il sesso, l’impressione di realtà aumenta, ma in passato, quando non si poteva vedere il bimbo fino al momento del parto, erano in tanti a prendere coscienza di avere un figlio solo quando potevano stringerlo in braccio e vederlo in viso. Le insicurezze che ti agitano sono del tutto normali, credimi», l’aveva rassicurata posandole una mano sul ventre. «Nessuno è mai davvero pronto a diventare padre o madre, anche se sono in tanti a far finta».
Ordinò un piatto di pesce che assaggiò appena, e nel frattempo notò che il riposo aveva fatto distanziare e alleggerire le contrazioni.
Al momento del caffè, Clarice tornò alla carica.
«Avete già trovato un asilo nido?»
«No, mamma», le rispose James appoggiando la tazzina sul tavolo e guardandola con aria stanca. «Non abbiamo cercato niente perché non abbiamo intenzione di mandarla al nido».
«Bene, allora vorrà dire che cercherete una tata che badi alla bimba quando Amaia tornerà al lavoro, giusto?»
«Quando Amaia tornerà al lavoro, sarò io a prendermi cura di mia figlia».
Clarice spalancò gli occhi e guardò il marito cercando una complicità che non trovò nel sorridente Thomas, che sorseggiava il suo tè rosso scrollando la testa.
«Clarice…» la avvisò. Sussurrare il nome della moglie in tono di rimprovero era la cosa più simile a una protesta che potesse uscire dalla bocca di Thomas.
Lei fece finta di niente.
«Non direte sul serio, spero! Come farai a prenderti cura tu della bambina? Tu di neonati non sai niente!»
«Imparerò, vedrai», rispose lui in tono divertito.
«Imparare? Per l’amor del cielo, avrai bisogno di aiuto!»
«Abbiamo già una donna di servizio che viene a ore».
«Non parlo di una donna di servizio quattro ore alla settimana, parlo di una tata, una baby-sitter che si occupi della bimba».
«Lo farò io, lo faremo tutti e due, è così che abbiamo deciso».
James sembrava divertirsi un mondo, e a giudicare dall’espressione di Thomas, anche lui se la stava spassando. Clarice sbuffò e assunse un sorriso rigido e un tono cadenzato che tradivano il suo sforzo supremo di dimostrarsi ragionevole e paziente.
«Sì, capisco che i genitori moderni vogliono allattare i bambini finché non hanno i denti, facendoli dormire nel lettone con loro e senza chiedere aiuto a nessuno, però, tesoro, anche tu devi lavorare, la tua carriera è in una fase molto importante e il primo anno la bambina non ti lascerà neppure il tempo di respirare».
«Ho appena finito una collezione di quarantotto opere per la mostra del Guggenheim dell’anno prossimo e ho ancora parecchi lavori in cantiere, perciò posso concedermi un po’ di tempo da dedicare a mia figlia. E poi, Amaia non lavora sempre: a volte è più impegnata, ma di solito torna a casa presto».
Amaia sentì l’addome indurirsi sotto la camicetta. Stavolta fece più male. Respirò lentamente cercando di far finta di niente e guardò l’orologio. Un quarto d’ora.
«Sei pallida, Amaia, ti senti bene?»
«Sono stanca, vorrei andare a casa e fare un riposino».
«Bene, tuo padre e io andiamo a fare spese», annunciò Clarice, «o sarete costretti a coprire quella piccolina con delle foglie di fico! Ci vediamo a cena qui?»
«No», tagliò corto Amaia. «Io preferisco una cena leggera a casa, e dopo cercherò di riposare. Volevo andare a fare shopping domani, ho visto un negozio con dei vestitini bellissimi».
La trappola funzionò alla perfezione. La prospettiva di fare compere con la nuora rasserenò all’istante Clarice, che sorrise entusiasta.
«Oh, ma certo, tesoro, vedrai quanto ci divertiremo io e te, sono giorni che vedo cosine deliziose. Riposati, cara», la salutò dirigendosi verso l’uscita.
Thomas si chinò a dare un bacio ad Amaia prima di uscire.
«Bella mossa», le sussurrò strizzandole l’occhio.
La casa in cui vivevano in calle de Mercaderes non lasciava trasparire all’esterno la magnificenza degli alti soffitti, degli ampi finestroni, dei cassettoni in legno, dei meravigliosi stucchi che decoravano molte delle stanze e il pianoterra, in cui James aveva installato il suo laboratorio e che in passato aveva ospitato una fabbrica di ombrelli.
Dopo la doccia, Amaia si sdraiò sul divano con un taccuino in una mano e un orologio nell’altra.
«Oggi mi sembri più stanca del solito. Anche a pranzo ho notato che eri preoccupata, non hai quasi prestato attenzione alle sciocchezze che diceva mia madre…»
Amaia sorrise.
«È per via del processo? Mi hai detto che hanno sospeso la seduta, ma non so il motivo».
«Jasón Medina si è suicidato stamattina nei bagni del tribunale, domani uscirà sul giornale».
«Accidenti!» esclamò James stringendosi nelle spalle. «Non posso certo dire che mi dispiaccia».
«No, non è una gran perdita, ma immagino che la famiglia della ragazza sarà delusa che alla fine non venga processato, per quanto in questo modo si risparmiano l’orrore di rivivere l’inferno ascoltando dettagli macabri».
James annuì, assorto nei suoi pensieri.
Amaia ebbe la tentazione di raccontargli del biglietto che le aveva lasciato Medina prima di morire, ma poi si disse che sarebbe stata solo una preoccupazione in più per lui, e non voleva rovinare un momento così speciale con quel dettaglio.
«In ogni caso, è vero che oggi sono più stanca e che sono distratta da altri pensieri».
«Ah, sì?» replicò lui.
«Alle dodici e mezzo ho cominciato ad avere le contrazioni ogni venticinque minuti. All’inizio duravano solo pochi secondi, adesso invece sono aumentate e vengono ogni dodici minuti».
«Oh, Amaia, perché non me l’hai detto prima? Hai retto tutto il pranzo in questo stato? Ti fanno molto male?»
«No», rispose lei sorridendo, «non fanno molto male, sono come una forte pressione, e non volevo che tua madre facesse l’isterica. Adesso ho solo bisogno di un po’ di calma. Vorrei riposarmi controllando la frequenza delle doglie finché non sarò pronta, e a quel punto andremo in ospedale».
Il cielo di Pamplona era ancora coperto da uno spesso strato di nubi che lasciava intravedere a stento la luce lontana e tremolante delle stelle invernali.
James dormiva a pancia in giù occupando una porzione di letto superiore a quella che gli spettava, con la solita placidità che Amaia gli aveva sempre invidiato. Sulle prime non voleva saperne di andare a dormire, ma poi lei gli aveva fatto capire che al momento del bisogno doveva farsi trovare riposato.
«Sicura che starai bene?» le aveva chiesto mille volte.
«Ma certo, James, devo solo controllare la frequenza delle contrazioni; quando arriva il momento, ti avverto subito».
Si era addormentato subito e adesso il suo respiro ritmato e il fruscio delle pagine del suo libro erano gli unici rumori che si sentivano dentro casa.
Interruppe la lettura all’arrivo di una nuova contrazione. Ansimò afferrandosi ai braccioli della sedia a dondolo su cui aveva trascorso l’ultima ora e attese che l’ondata passasse.
Infastidita, mise da parte il libro senza segnare la pagina, ammettendo di non aver prestato alcuna attenzione alla storia. Le contrazioni erano aumentate molto nell’ultima mezz’ora ed erano diventate anche decisamente più dolorose: a stento era riuscita a non lamentarsi a voce alta. Eppure decise di aspettare un altro po’. Si affacciò al davanzale e guardò la strada, ancora parecchio affollata in quel venerdì sera, nonostante il freddo, la pioggia intermittente e la tarda ora.
Sentì un rumore in ingresso, si avvicinò alla porta della stanza e rimase in ascolto.
I suoceri tornavano a casa dopo la cena e una bella passeggiata. Si girò a guardare la luce fioca con cui aveva letto fino a un attimo prima ed ebbe la tentazione di correre a spegnerla, ma in fondo si disse che non serviva. La suocera era una ficcanaso quasi in tutto, ma non si sarebbe mai permessa di bussare alla porta della sua stanza.
Continuò a controllare la frequenza crescente delle contrazioni mentre ascoltava i rumori domestici, i suoceri che andavano a dormire, lasciando spazio al silenzio fatto di scricchiolii e fruscii che popolavano l’enorme casa e che lei conosceva come il suo stesso respiro. Non c’era più nulla di cui preoccuparsi: di sicuro Thomas dormiva già come un masso e Clarice prendeva i sonniferi tutte le sere, perciò fino al giorno dopo non sarebbe stata più consapevole di nulla.
La contrazione successiva fu tremenda e, per quanto si fosse concentrata a inspirare ed espirare esattamente come le avevano insegnato al corso preparto, provò la spaventosa sensazione di avere un corpetto di acciaio schiacciato in maniera così atroce contro reni e polmoni da metterle il panico. Era spaventata, ma non per il parto: ammetteva le sue paure al riguardo, ma sapeva anche che erano del tutto normali. Quello che la spaventava davvero era più profondo e significativo, lo sapeva, perché non era la prima volta che aveva a che fare con la paura. Per anni l’aveva portata con sé come un ospite indesiderato e invisibile che si manifestava solo nei momenti di debolezza.
La paura era un vecchio vampiro che si chinava sul suo letto mentre dormiva, nascosto tra le ombre, e che riempiva di orribili presenze i suoi sogni. Le venne in mente all’improvviso come lo chiamava sua nonna Juanita, gaueko, «quello della notte». Una presenza che era tornata nell’oscurità quando lei era riuscita a fare breccia nelle sue stesse difese, una breccia attraverso cui era penetrata la luce della comprensione che le aveva rivelato senza pietà gli episodi terribili che avevano segnato per sempre la sua vita e che lei stessa aveva mantenuto sepolti nel cuore con un controllo ferreo. Capirlo, conoscere la verità, affrontarla, era stato il primo passo, ma perfino in quel momento di euforia, quando tutto sembrava passato, sapeva di non aver vinto la guerra, ma solo una battaglia. Gloriosa, certo, essendo il suo primo trionfo sulla paura, ma pur sempre una battaglia. Da quel giorno in poi, aveva sempre fatto il possibile per tenere aperta quella breccia nel muro, e la luce che entrava a fiotti aveva rafforzato il suo rapporto con James e l’idea che negli anni si era fatta di se stessa. E, come la ciliegina sulla torta, quella gravidanza, la creaturina che cresceva dentro di lei, le aveva portato una pace che non si sarebbe mai aspettata. Per tutta la gravidanza si era sentita benissimo, niente nausea o fastidi di alcun genere. Il sonno ristoratore di ogni notte era sereno e placido, senza incubi né soprassalti, e di giorno si era sentita così piena di energia quasi da stupirsene. Una gestazione perfetta fino alla settimana prima, quando una notte il male aveva fatto ritorno.
Come tutti i giorni, aveva lavorato in commissariato, occupandosi della scomparsa di una donna di mezz’età, il cui compagno sembrava l’indiziato principale. In un primo tempo il caso era stato archiviato come fuga volontaria, ma l’insistenza delle figlie, certe che la madre non avrebbe mai deciso di scomparire volontariamente, aveva convinto Amaia a riaprire le indagini. Oltre alle due figlie, la donna aveva tre nipoti, faceva la catechista e andava a trovare tutti i giorni l’anziana madre ricoverata in casa di riposo. Troppi legami per sparire senza voltarsi indietro. Certo, dalla sua casa mancavano valigie, vestiti, documenti e denaro, e tutti i controlli di rito erano già stati eseguiti nella fase preliminare. Eppure, quando prese le redini dell’indagine, Amaia volle a tutti i costi visitare la casa della donna. L’appartamento di Lucía Aguirre aveva un aspetto lucido e ordinato come la foto della sorridente proprietaria che dominava in ingresso. Dentro la saletta, un lavoro all’uncinetto era posato sul tavolino da caffè stracolmo di foto dei nipoti.
Perlustrò il bagno e la cucina, entrambi immacolati. Nella camera matrimoniale, il letto fatto e l’armadio quasi vuoto, così come i cassetti del comò. Nella stanza degli ospiti, due lettini gemelli.
«Jonan, cosa noti di strano qui?»
«I letti hanno due coperte diverse», rispose il viceispettore Etxaide.
«Ce ne siamo accorti già la prima volta: l’altro piumino è chiuso nell’armadio», spiegò l’agente che li accompagnava, ripassando gli appunti.
Amaia lo aprì e in effetti verificò che una trapunta blu identica a quella di uno dei due lettini era piegata alla perfezione e chiusa in una fodera trasparente.
«E non vi è sembrato strano che una donna così meticolosa, così attenta all’aspetto della sua casa, non si prendesse la briga di mettere le sovracoperte uguali, avendole a disposizione?»
«Perché mai doveva mettersi a cambiare le coperte, se tanto aveva in mente di filarsela?» replicò l’agente scrollando le spalle.
«Perché siamo schiavi del nostro carattere. Lo sa che certe tedesche di Berlino Est lavavano i pavimenti di casa prima di fuggire dall’altra parte del muro? Disertavano il loro paese, ma non volevano che qualcuno le criticasse come casalinghe».
Amaia estrasse il piumino dall’armadio, lo depositò su un letto e aprì la chiusura lampo. Un penetrante odore di candeggina invase la stanza all’istante. Con la mano inguantata tirò uno dei capi e portò allo scoperto una macchia giallastra al centro, in cui la candeggina aveva divorato il colore.
«Vede il problema, agente?» disse girandosi verso il poliziotto, che annuiva sconcertato.
«Il nostro assassino ha visto abbastanza film polizieschi da sapere che il sangue si smacchia con la candeggina, ma si è dimostrato un disastro come casalingo e non ha tenuto conto che qui avrebbe mangiato il colore. Chiamate la Scientifica, la macchia è enorme».
Dopo una minuziosa analisi, nonostante la candeggina si erano trovate tracce che rivelavano la presenza di una quantità di sangue incompatibile con la vita: un corpo umano contiene cinque litri di sangue; con la perdita di cinquecento millilitri si può perdere coscienza, e la quantità indicata dai campioni era di due litri e più. Quello stesso giorno avevano arrestato il sospettato numero uno, un tizio arrogante con i capelli brizzolati troppo lunghi e la camicia aperta sul petto. Amaia scoppiò quasi a ridere quando lo vide dalla stanza accanto.
«Che macho!» borbottò il viceispettore Etxaide. «Chi lo deve interrogare?»
«L’ispettore Fernández, il caso è loro…»
«Ero convinto che ce ne saremmo occupati noi, adesso si tratta di omicidio. Se non fosse stato per lei, starebbero ancora ad aspettare una cartolina da Cancun da parte della signora!»
«Ti prego, Jonan, non mi sento proprio in vena di fare interrogatori», replicò Amaia indicandosi la pancia.
L’ispettore Fernández entrò nella sala attigua e Jonan attivò il sistema di registrazione.
«Buongiorno, signor Quiralte, sono l’ispettore Fer…»
«Un momento!» lo interruppe Quiralte, sollevando i polsi ammanettati e accompagnando il gesto con una scrollata di capelli degna di una diva. «Non mi interroga la superstar della polizia?»
«A chi si riferisce?»
«È ovvio, l’ispettrice dell’Fbi».
«E lei come fa a saperlo?» chiese Fernández, sconcertato. Amaia schioccò la lingua con aria infastidita.
«Lo so perché sono più furbo di te».
Fernández cominciò a innervosirsi, non aveva mai interrogato un assassino e di sicuro si sentiva osservato almeno quanto il sospettato, che per un attimo era riuscito a spiazzarlo.
«Recupera il controllo, dai», sussurrò Amaia.
Quasi l’avesse sentita, Fernández riprese le redini dell’interrogatorio.
«E perché vorresti che fosse lei a interrogarti?»
«Perché mi hanno detto che è molto carina e… cosa vuoi che ti dica? Tra un’ispettrice bella e te, non ho molti dubbi», rispose stravaccandosi sulla sedia.
«Mi dispiace, ma dovrai accontentarti di me, l’ispettrice a cui ti riferisci non è in servizio».
Quiralte si girò verso lo specchio come se potesse penetrarlo con lo sguardo e sorrise.
«Che peccato, allora dovrò aspettare che torni».
«Non intende parlare?»
«Ma certo, che domande!» Era chiaro che si divertiva un mondo. «Non fare quella faccia: se la superstar non c’è, portami davanti al giudice e sarò ben felice di dirgli che sono stato io a uccidere quella stupida».
E in effetti confessò l’omicidio senza farsi pregare, ma solo per avere la sfacciataggine di dire al giudice che se non c’era cadavere non c’era delitto, e per il momento non aveva nessuna intenzione di dire dove si trovava il corpo. Markina era uno dei giudici più giovani in servizio. Con il suo viso da modello e i jeans sbiaditi, rischiava spesso di venire sottovalutato dai delinquenti. E infatti andò così anche stavolta, perché con lo stesso sorriso fascinoso che faceva strage tra le funzionarie del tribunale aveva spedito l’imputato in prigione.
«Ah, lei dice che non c’è cadavere, signor Quiralte? Benissimo, allora aspetteremo che venga fuori. Temo che abbia visto un po’ troppi film americani. Con il semplice fatto di aver ammesso che sa dove si trova il corpo ma non vuole dirlo, ne ho già abbastanza per tenerla in prigione fino a data indefinita, ma in più ha confessato anche di averla uccisa. Forse passare un po’ di tempo in prigione le rinfrescherà la memoria. Ci rivediamo qui quando avrà qualcosa da raccontarmi. Fino ad allora…»
Amaia era tornata a casa a piedi, cercando con un esercizio di autocontrollo di togliersi dalla testa i dettagli dell’indagine e di cambiare umore per cenare tranquilla con James e festeggiare il suo ultimo giorno di lavoro. Mancavano due settimane alla data prevista del parto e si sentiva in grado di lavorare fino all’ultimo giorno, ma i genitori di James sarebbero arrivati l’indomani e lui l’aveva convinta a mettersi in ferie per restare con la famiglia. Dopo cena, la stanchezza della giornata l’aveva fatta addormentare di botto. Ricordava solo che stava chiacchierando sul letto con James, e poi più nulla.
La sentì ancora prima di vederla, tremava di freddo e i suoi denti sbattevano facendo un rumore di osso contro osso così forte che bastò a farle spalancare gli occhi. Lucía Aguirre, con lo stesso golfino all’uncinetto bianco e rosso che portava nella fotografia del suo ingresso, un crocifisso d’oro sul petto e i capelli corti e tinti di biondo per nascondere il bianco. Nient’altro nel suo aspetto ricordava la donna allegra e fiduciosa che sorrideva all’obiettivo. Lucía Aguirre non piangeva, non gemeva e non gridava, ma c’era nel blu dei suoi occhi un dolore intenso e sconcertante che le faceva affiorare in viso una smorfia di profonda confusione, come se non riuscisse a capire, come se quello che le capitava fosse impossibile da accettare. Rimaneva in piedi, tranquilla, disorientata, apatica, scrollata da un vento implacabile che sembrava soffiare da tutte le direzioni facendola ondeggiare a ritmo e aumentando l’impressione di fragilità. Si cingeva la vita con il braccio sinistro, fornendosi così un piccolo rifugio che tuttavia non bastava a darle consolazione, e a tratti si guardava attorno in cerca di… finché non incrociò gli occhi di Amaia. Aprì la bocca, sorpresa come una bambina il giorno del suo compleanno, e cominciò a parlare. Amaia vedeva muoversi le sue labbra, livide per il freddo, ma non sentiva alcun suono. Si alzò a sedere sul letto, sforzandosi di decifrare le parole della donna, ma la distanza e il vento assordante portavano chissà dove i suoni leggeri che le uscivano di bocca. Ripeteva sempre le stesse parole, ma lei non riusciva a capirle. Si risvegliò confusa e infastidita dalla sensazione di angoscia che quella donna era riuscita a trasmetterle, e con un senso crescente di delusione. Quel sogno, quell’apparizione spettrale, veniva a incrinare uno stato quasi di grazia in cui aveva vissuto da quando aveva concepito la figlia, un periodo di pace in cui tutti gli incubi, i gaueko, tutti i fantasmi erano stati esiliati in un altro mondo.
Tempo prima, a New Orleans, una sera, davanti a una birra ghiacciata in un bar di Sant Louis Street, un sorridente agente dell’Fbi le aveva chiesto: «Mi dica, ispettrice Salazar, le vittime degli assassini le si presentano ai piedi del letto?»
Amaia aveva sgranato gli occhi, sorpresa.
«Non faccia finta di niente, Salazar, so distinguere un poliziotto che vede i fantasmi da uno che non li vede».
Amaia lo guardò in silenzio cercando di capire se stesse scherzando, ma lui proseguì con un sorriso che non lasciava adito a dubbi: «… e lo so perché sono anni che le vittime mi vengono a trovare».
Amaia sorrise, ma l’agente Aloisius Dupree la guardava negli occhi facendole capire che parlava sul serio.
«Si riferisce…»
«Mi riferisco, cara ispettrice, a quando ci si sveglia nel cuore della notte e si vede accanto al letto la vittima del caso che si vuole risolvere». Adesso Dupree non sorrideva più.
Lei lo guardava un po’ impensierita.
«Non mi prenda in giro, Salazar. Mi vuole far credere che mi sbaglio, che lei non vede i fantasmi? Sarebbe una vera delusione».
Lei era sconcertata, ma non al punto da rischiare di mettersi in ridicolo.
«Agente Dupree, i fantasmi non esistono», ribatté sollevando il boccale per un brindisi.
«Certo, ispettrice, ma se non mi sbaglio, e non mi sbaglio, più di una volta le è capitato di svegliarsi nel cuore della notte perché aveva percepito la presenza di una di quelle vittime perdute che le parlavano ai piedi del letto. Mi sbaglio?»
Amaia bevve un sorso di birra, senza dire nulla ma invitandolo implicitamente a proseguire.
«Non si deve vergognare, ispettrice. Preferisce il termine “sognare” le vittime?»
Amaia sospirò.
«Temo sia altrettanto inquietante, impreciso e assurdo».
«Ecco qual è il problema, ispettrice, il problema è definirlo assurdo».
«Vada a spiegarlo allo psicologo dell’Fbi o al suo omologo della Policía Foral», replicò lei.
«Andiamo, Salazar! Né io né lei siamo così stupidi da esporci al giudizio dello psicologo, quando sappiamo entrambi benissimo che non riuscirebbe mai a capire di cosa parliamo. Chiunque penserebbe che un poliziotto che inizia ad avere incubi su un caso è, come minimo, stressato, se non emotivamente troppo coinvolto».
Fece una pausa per finire l’ultimo sorso di birra e alzò una mano per chiederne altre due. Amaia stava per protestare, ma il caldo umido di New Orleans, la musica dolce di un pianoforte che qualcuno accarezzava in fondo al locale e un vecchio orologio fermo sulle dieci sopra il bancone del bar la fecero desistere. Dupree attese che il cameriere portasse i boccali, quindi proseguì: «Le prime volte è scioccante, si ha quasi paura di essere diventati matti. Ma non è così, Salazar, anzi è esattamente il contrario. Un buon detective della Omicidi non deve essere una mente semplice e i suoi processi mentali non possono esserlo. Passi ore e ore cercando di capire la mente di un assassino, come pensa, cosa desidera, come sente. Poi vai all’obitorio e aspetti di fronte alla sua opera, in attesa che il cadavere ti racconti il perché, perché sai che appena avrai capito la sua motivazione avrai la possibilità di prenderlo. Ma il più delle volte il cadavere non basta, perché un cadavere è solo un involucro rotto, e forse per troppo tempo le indagini di polizia si sono concentrate più sul tentativo di decifrare la mente criminale che sulla vittima in sé. Per anni si è considerato il morto quasi alla stregua del prodotto finale di un delitto, ma la vittimologia si fa strada dimostrando che la scelta della vittima non è mai casuale; perfino quando pretende di essere aleatoria, anche questo è un segno distintivo. Sognare le vittime significa solo avere accesso a una visione proiettata dal nostro subconscio, che non per questo è meno importante, perché si tratta solo di un’altra forma di processo mentale. Le apparizioni delle vittime attorno al mio letto mi hanno torturato per un bel po’: mi svegliavo fradicio di sudore, terrorizzato e preoccupato, l’ansia mi restava addosso per ore mentre mi chiedevo se non stessi perdendo la ragione. A quei tempi ero un agente giovane e lavoravo in coppia con un collega più anziano. Un giorno, durante un noioso appostamento di parecchie ore, mi sono svegliato di soprassalto da uno di quegli incubi. “Ehi, hai visto un fantasma?” ha esclamato il mio collega. “Forse sì”, gli ho risposto io. “Ah, così vedi i fantasmi? Allora la prossima volta non dovresti metterti a gridare e opporti in quel modo, ma faresti bene a prestare attenzione a quello che hanno da dirti”. È stato un buon consiglio. Con gli anni ho imparato che quando sogno una vittima, una parte della mia mente sta proiettando informazioni che sono lì, ma che non sono stato capace di vedere».
Amaia annuì lentamente.
«Allora, sono fantasmi o proiezioni della mente dell’investigatore?»
«La seconda che ha detto, ovviamente, per quanto…»
«Sì?»
L’agente Dupree non rispose, sollevò il boccale e bevve.
Amaia svegliò James cercando di non farlo agitare. Lui saltò a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi.
«Andiamo in ospedale?»
Lei annuì con il viso stravolto, cercando inutilmente di sorridere.
James indossò i jeans e un maglione che aveva lasciato pronti ai piedi del letto.
«Chiama la zia e avvisala, guarda che gliel’ho promesso».
«Sono già tornati i miei?»
«Sì, ma non chiamarli, James, ti prego. Sono le due del mattino, e di sicuro il travaglio andrà per le lunghe. E poi, la cosa più probabile è che non li facciano entrare e li lascino tutto il tempo in sala d’attesa».
«Tua zia sì e i miei genitori no?»
«James, lo sai benissimo che la zia non verrà mai, sono anni che non esce dalla valle. È solo che le ho promesso che l’avrei avvertita quando fosse arrivato il momento».
La dottoressa Villa aveva una cinquantina d’anni e i capelli prematuramente brizzolati le coprivano il viso quando si chinava in avanti. Dopo averla visitata, si avvicinò al lettino su cui era sdraiata Amaia.
«Allora, Amaia, ci sono notizie buone e meno buone».
Nell’attesa che proseguisse, Amaia tese la mano a James, che la prese prontamente tra le sue.
«Cominciamo da quelle buone: sei in travaglio, la bimba sta bene, il cordone ombelicale è posizionato in maniera corretta e il suo cuore batte forte anche durante le contrazioni. Le notizie meno buone sono che nonostante tutte le ore di travaglio ti sei dilatata molto poco e la bimba non si è ancora impegnata nel canale del parto. Ma quello che mi preoccupa di più è che ti vedo molto stanca. Non hai dormito bene?»
«No, in effetti negli ultimi giorni non ho dormito molto bene».
Non molto bene era un eufemismo. Da quando erano tornati gli incubi, non aveva quasi chiuso occhio, solo qualche minuto qua e là, quando cadeva in una sorta di stato di incoscienza da cui si risvegliava di malumore e più stanca di prima.
«Adesso ti ricovero, Amaia, ma non voglio che ti metta a letto: devi camminare, in maniera da aiutare la piccola a sistemarsi in posizione. Quando arriva la prossima contrazione, prova a metterti rannicchiata: la sopporterai meglio e faciliterai la dilatazione».
Lei sospirò, rassegnata.
«Lo so che sei stanca, ma ormai manca poco, e adesso è arrivato il momento di aiutare tua figlia».
Amaia annuì.
Nelle due ore seguenti si costrinse a camminare su e giù per il corridoio dell’ospedale, deserto a quell’ora di notte. Accanto a lei, James si sentiva inutile e completamente fuori posto.
All’inizio si era fatto in quattro, chiedendole come stava, se poteva esserle utile, oppure se voleva qualcosa, qualsiasi cosa. Lei gli aveva risposto appena, concentrata a mantenere il controllo su quel corpo che non sembrava più suo; quel corpo forte e sano, che le aveva suscitato sempre la segreta soddisfazione di sentirsi all’altezza, era ridotto adesso a un ammasso di carne dolorante. Le venne quasi da sorridere di fronte al suo assurdo convincimento di saper sopportare bene il dolore.
Sconfitto, James aveva optato per il silenzio, e lei preferiva così. Aveva fatto grandi sforzi per trattenersi e non mandarlo al diavolo ogni volta che le chiedeva se le faceva male. Il dolore la sfiancava in maniera quasi animale, mentre la stanchezza e la mancanza di sonno cominciavano a togliere coerenza ai suoi pensieri, che ormai erano ridotti praticamente solo a uno: «Non vedo l’ora che finisca».
La dottoressa Villa buttò via i guanti soddisfatta.
«Bravissima, Amaia, la dilatazione non è ancora completa, ma la bimba si è impegnata: adesso è solo questione di contrazioni e di tempo».
«Quanto tempo?» chiese lei con aria afflitta.
«Visto che sei al primo parto, potrebbero essere minuti oppure ore, ma adesso ti puoi mettere a letto, così starai più comoda. Ora attacchiamo il monitoraggio e ci prepariamo al parto».
Appena toccato il letto, si addormentò all’istante. Il sonno calò come una lastra di piombo a chiudere due palpebre che non riuscivano più a rimanere aperte.
«Amaia, Amaia, svegliati!»
Aprì gli occhi e vide sua sorella Rosaura a dieci anni, i capelli arruffati e la camicina da notte rosa.
«È quasi giorno, Amaia, devi tornare nel tuo letto, se l’amá ti trova qui sono guai per tutte e due!»
Scostò le coperte impacciata e quando posò i suoi piedini di cinque anni sul pavimento freddo della stanza riuscì ad aprire gli occhi e a distinguere tra le ombre il rettangolo bianco del suo letto, il letto in cui non voleva dormire perché ogni volta lei arrivava di notte a fissarla con i suoi occhi neri e gelidi e quell’aria di profondo disprezzo sulle labbra. Anche senza aprire gli occhi l’avrebbe percepita chiaramente, avrebbe sentito l’odio trattenuto nel ritmo del suo respiro mentre la fissava, e avrebbe finto di dormire sapendo che lei sapeva che stava fingendo. A quel punto, quando non ne poteva più, quando le sue membra erano assalite dai crampi per la tensione accumulata, quando la sua piccola vescica minacciava di rovesciarle tutto il suo contenuto tra le gambe, avrebbe sentito che la madre si chinava lentamente sul suo viso contratto con gli occhi stretti, e allora avrebbe recitato nel suo cervello una preghiera, ripetendola come una lituania ancora e ancora, affinché neppure di fronte alla più oscura paura potesse cadere nella tentazione di contravvenire all’ordine.
Nonapriregliocchinonapriregliocchinonapriregliocchinonapriregliocchinonapriregliocchi.
Non li avrebbe aperti, no di certo, eppure anche così avrebbe percepito il lento avanzare, la precisione del suo avvicinarsi e il sorriso gelido sul viso della madre prima di sussurrare: «Dormi, troietta. Per oggi l’amá non ti mangia».
Invece, se avesse dormito con le sue sorelle, non le si sarebbe mai avvicinata. Sì, ne era certa. Ecco perché, ogni notte, quando i genitori andavano a letto, si profondeva in preghiere e promesse di sudditanza con le sue sorelle perché le permettessero di dormire insieme a loro. Flora acconsentiva raramente, e sempre in cambio della sua schiavitù il giorno seguente, mentre Rosario si inteneriva se la vedeva piangere, e piangere era facile quando si aveva tanta paura.
Camminò per la stanza al buio percependo solo a tratti il profilo del letto, che sembrava allontanarsi mentre il pavimento si ammorbidiva sotto la pianta dei piedi e l’odore di cera si trasformava in quello più aromatico e minerale della terra umida del bosco. Si aggirò in mezzo agli alberi protetta come tra colonne centenarie mentre ascoltava, lì accanto, la chiamata melodiosa del fiume Baztán che scorreva libero. Si avvicinò alla riva sassosa e sussurrò: «il fiume». E la sua voce si trasformò in un’eco che rimbombò contro le pareti millenarie di roccia madre entro cui scorreva il corso d’acqua. «Il fiume», ripeté.
Allora vide il corpo. Una ragazzina sui quindici anni giaceva morta sui ciottoli lisci della riva. Gli occhi aperti sul nulla, i capelli riversi sui lati in ciocche perfette, le mani contratte nella parodia di un’offerta con i palmi rivolti all’insù, a mostrare il vuoto.
«No!» gridò Amaia.
E guardandosi attorno, vide che non c’era un solo corpo, ma tanti altri disposti su entrambe le rive del fiume come la macabra fioritura di una primavera infernale.
«No!» ripeté con una voce che adesso era una supplica.
Le mani dei cadaveri si sollevarono tutte insieme e indicarono il suo ventre con il dito.
Uno scrollone la riportò quasi alla coscienza durante la contrazione… per poi fare ritorno al fiume.
I cadaveri avevano recuperato la loro immobilità, ma un forte vento che sembrava avere origine dal fiume spettinava i loro capelli, agitandoli come fili di aquiloni alti in cielo, e rimescolava la superficie cristallina increspando l’acqua in volute bianche e schiumose. Nonostante il ruggito del vento, riuscì a sentire il pianto della bimba che era lei stessa, mescolato ad altri pianti che sembravano provenire dai cadaveri. Si avvicinò ancora e vide che in effetti le bambine piangevano con lacrime dense che disegnavano sulle loro guance sentieri argentati, brillanti alla luce della luna.
Il dolore di quelle anime lacerò il suo petto di bambina.
«Non posso far niente», gemette, impotente.
Il vento cessò all’improvviso, sprofondando il letto del fiume in un silenzio impossibile. Poi uno scalpiccio acquoso e ritmico lo sostituì.
Splash, splash, splash.
Come un applauso lento e cadenzato proveniente dal fiume. Splash,splash, splash.
Come quando correva nelle pozzanghere lasciate dalla pioggia. Al primo se ne unì un altro.
Splash, splash, splash, splash, splash…
Poi un altro. Splash, splash, splash… poi un altro ancora. Finché non sembrò che stesse grandinando forte o che l’acqua del fiume stesse bollendo.
«Non posso far niente», ripeté, folle di paura.
«Pulisci il fiume», le gridò una voce.
«Il fiume».
«Il fiume».
«Il fiume», ripeterono in coro le altre.
Cercò disperata l’origine delle voci che urlavano dall’acqua. Il cielo coperto del Baztán si squarciò lasciando filtrare la luce argentata della luna, che illuminò le donne sedute sulle rocce sporgenti, intente a battere la superficie dell’acqua con i piedi d’anatra strappandosi i lunghi capelli e ripetendo la litania che sgorgava feroce dalle loro bocche che avevano labbra rosse e carnose e i denti affilati come spilli.
«Pulisci il fiume».
«Pulisci il fiume».
«Il fiume, il fiume, il fiume».
«Amaia, Amaia, svegliati!» La voce autoritaria dell’ostetrica la riportò alla realtà. «Su, Amaia, ci siamo, adesso tocca a te».
Ma lei non l’ascoltava, perché la voce dell’ostetrica era coperta ancora dalle urla delle donne sul fiume.
«Non posso», gridò.
Era inutile, perché loro non la stavano a sentire, davano ordini e basta.
«Pulisci il fiume, pulisci la valle, lava l’offesa…» E le loro voci si fusero al grido che le uscì dalla gola quando sentì il morso feroce di un’altra contrazione.
«Amaia, mi servi qui», disse l’ostetrica, «alla prossima devi spingere, e a seconda di come lo fai il parto può durare due contrazioni, oppure dieci. Decidi tu, due o dieci».
Annuì sollevandosi per afferrarsi alle sbarre del letto mentre James si sistemava alle sue spalle per sostenerla, ammutolito e stravolto ma senza la minima esitazione.
«Molto bene, Amaia», la incitò l’ostetrica, «sei pronta?»
Lei annuì ancora.
«Adesso ne arriva un’altra», annunciò guardando il monitor. «Spingi, tesoro».
Si sforzò con tutta se stessa trattenendo il respiro e stringendo i denti mentre sentiva qualcosa squassarla da dentro.
«È passata. Va bene, Amaia, sei stata brava, ma devi respirare per te e per la bambina. Alla prossima devi respirare, credimi, andrà meglio».
Lei annuì ubbidiente mentre James le asciugava il sudore che le imperlava la fronte.
«Va bene, eccone un’altra. Su, Amaia, facciamola finita, aiuta la tua bimba, falla uscire!»
«Due o dieci, due o dieci», ripeteva una voce nella sua testa.
«Dieci nooo», sussurrò.
E mentre si concentrava sulla respirazione, spinse, spinse e spinse finché fu come se le si rovesciasse fuori l’anima e una sconvolgente sensazione di abbandono si impossessasse del suo corpo.
Forse sto morendo dissanguata, pensò. E pensò anche che non gliene importava niente, perché dissanguarsi era dolce e placido. Lei non aveva mai sanguinato così, ma l’agente Dupree, che era stato colpito al petto e aveva rischiato di morire, le aveva detto che lo sparo aveva fatto un gran male, ma sanguinare era placido e dolce, come essere fatti d’olio e lasciarsi scorrere. E più sangue esce, meno t’importa.
Fu allora che sentì il pianto. Era forte, potente, una vera dichiarazione d’intenti.
«Oddio, che bel bambino!» esclamò l’infermiera.
«Ed è biondo, proprio come te», aggiunse l’ostetrica.
Si girò per incrociare lo sguardo di James, e lo trovò confuso proprio come lei.
«Bambino?» chiese.
Da un angolo della sala le giunse la voce dell’infermiera.
«Un maschietto, sissignore, tre chili e due, ed è bellissimo!»
«Ma… ci avevano detto che era una bimba», spiegò Amaia.
«Vuol dire che chi ve l’ha detto si è sbagliato. A volte capita, anche se di solito succede il contrario: bimbe che sembrano maschi per la posizione del cordone ombelicale».
«Ne è sicura?» insistette James, che continuava a sorreggere la schiena di Amaia.
Amaia sentì il peso caldo del corpicino stretto nelle fasce che l’infermiera le aveva appena adagiato sulla pancia.
«Un maschietto senza ombra di dubbio», ripeté mentre abbassava la copertina per scoprirlo.
Amaia era sconcertata.
Il visino del figlio si contraeva in smorfie esagerate e si agitava come se cercasse qualcosa. Si portò il pugnetto roseo alla bocca e lo succhiò con forza mentre socchiudeva gli occhi per guardarla.
«Oddio, è un maschio, James!» riuscì a balbettare.
Il marito allungò la mano per sfiorare la guancia morbida del figlio.
«È meraviglioso, Amaia…» E la sua voce si spezzò mentre lo diceva e si chinava per darle un bacio. Le lacrime gli rigavano le guance lasciandole sulle labbra un sapore salato.
«Auguri, amore mio».
«Auguri anche a te, aita», disse guardando il bimbo, che sembrava interessatissimo alla luce sul soffitto e teneva gli occhietti sgranati.
«Sul serio non sapevate che era un maschietto?» si sorprese l’ostetrica. «Ero convinta di sì, visto che non ha smesso un attimo di ripetere il suo nome durante il parto: Ibai, Ibai. È così che volete chiamarlo?»
«Ibai… fiume in basco…» sussurrò Amaia.
Guardò James, che sorrideva, e poi guardò il figlio.
«Sì, sì», esclamò. «Ibai, è così che si chiama». E un attimo dopo scoppiò a ridere forte.
James la guardò divertito, sorridendo per la sua improvvisa allegria.
«Perché ridi?»
Ma Amaia non riusciva a trattenere le risate.
«Per… per la faccia che farà tua madre quando saprà che deve restituire tutto!»