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Amaia riconobbe il tenente Padua appena entrò nel bar Iruña di plaza del Castillo, accanto a casa sua. Era l’unico uomo seduto da solo, e per quanto fosse di spalle, notò all’istante le macchie d’acqua sul suo impermeabile.
«Piove nel Baztán, tenente?» disse a mo’ di saluto.
«Come sempre, ispettrice, come sempre».
Si sedette di fronte a lui e ordinò un decaffeinato e una bottiglietta di minerale. Attese che il cameriere portasse la sua ordinazione, quindi proseguì: «Si decide a dirmi di che cosa voleva parlarmi?»
«Volevo parlarle del caso Johana Márquez», rispose lui senza tanti giri di parole. «O meglio, del caso Jasón Medina, perché siamo d’accordo sul fatto che sia stato lui l’unico responsabile della morte della ragazza. Più o meno quattro mesi fa, il primo giorno del processo, Jasón Medina si è suicidato nei bagni del tribunale, come lei sa bene». Amaia annuì. «A quel punto sono iniziate le indagini di routine, normalissime in casi del genere, che non hanno evidenziato nulla di particolare. Senonché, qualche giorno dopo, ho ricevuto la visita della guardia penitenziaria che aveva accompagnato Medina dalla prigione e che forse lei ricorderà in tribunale: era dentro il bagno, più bianco di un lenzuolo».
«Sì, ricordo che accanto all’agente c’era una guardia penitenziaria».
«Proprio lui, Luis Rodríguez. Mi è venuto a trovare tutto preoccupato e mi ha pregato di essere ben chiaro nelle conclusioni della mia indagine, soprattutto per quanto riguardava il cutter utilizzato da Medina per suicidarsi. Non dovevano esserci dubbi sul fatto che a introdurlo nei locali del tribunale fosse stata una terza persona, in maniera da sollevarlo da ogni responsabilità. La questione lo preoccupava molto perché era la seconda volta che un detenuto sotto la sua custodia riusciva a suicidarsi. La prima risaliva a tre anni addietro: un detenuto si era impiccato in cella durante la notte. In quel caso, la direzione della prigione aveva ammesso che avrebbero dovuto attivare il protocollo di prevenzione del suicidio affiancandogli un compagno di cella. E adesso, ritrovandosi nuovamente implicato in un caso simile, era spaventatissimo e temeva qualche tipo di sanzione o di sospensione. Io l’ho rassicurato al riguardo, e tanto per scambiare due parole gli ho chiesto chi fosse l’altro detenuto. Era un tizio che aveva ucciso la moglie e mutilato il cadavere tagliandogli un braccio. Rodríguez non aveva la minima idea se l’arto amputato fosse stato ritrovato, perciò potrà immaginare la mia sorpresa quando chiamo la Policia Nacional di Logroño – che si era occupata del caso – e mi dicono che in effetti aveva ucciso la moglie, da cui si stava separando e da cui aveva un ordine di restrizione per una precedente aggressione. Un crimine come tanti, niente di diverso da quelli che sentiamo tutti i giorni al telegiornale. Aveva bussato alla porta e quando lei era andata ad aprire l’aveva spinta contro la parete stordendola, e poi le aveva dato due coltellate nello stomaco. La moglie era morta dissanguata mentre lui saccheggiava l’appartamento: si era persino riscaldato un piatto di fagioli e se li era mangiati seduto in cucina, mentre la guardava morire. Dopo se n’era andato senza neppure chiudere la porta. L’aveva trovata una vicina di casa. L’avevano arrestato due ore dopo in un bar nelle vicinanze, ubriaco e ancora sporco del sangue della moglie. Aveva confessato il crimine all’istante, ma quando gli avevano chiesto dove avesse nascosto il braccio, aveva risposto che non ne sapeva niente».
Padua sospirò.
«Amputazione dal gomito con un oggetto seghettato e affilato come un coltello elettrico o una sega da traforo. Che gliene pare, ispettrice?»
Amaia giunse le mani appoggiandosi gli indici alle labbra e rimase in questa posizione qualche secondo prima di rispondere.
«Mi pare che, per il momento, si tratta solo di una coincidenza. Forse le ha tagliato la mano per toglierle un gioiello, la fede, per impedire l’identificazione, per quanto trovandosi in casa sua non avrebbe avuto molto senso… Non sarebbe la prima volta che vedo cose del genere. A meno che non ci sia dell’altro…»
«Sì, in effetti c’è dell’altro», confermò lui. «Sono andato a Logroño e ho parlato con gli agenti che hanno seguito il caso. Mi hanno detto una cosa che mi ha ricordato ulteriormente il caso di Johana Márquez: il delitto era stato efferato e a commetterlo non era stato un professionista. Il tizio aveva lasciato la casa un disastro, e perfino il coltello usato per l’omicidio l’aveva preso dalla cucina della moglie e l’aveva lasciato insanguinato accanto al corpo. Al momento di pugnalare la vittima, l’assassino si era fatto un taglio nella mano e non si era neppure preso il disturbo di curarselo, lasciando tracce di sangue per tutta la casa. Aveva persino fatto la pipì nel water senza tirare lo sciacquone. Tutto il suo modus operandi era stato brutale e disattento, proprio come lui. Invece, l’amputazione era stata eseguita post mortem, quasi senza spargimento di sangue, con un taglio netto dell’articolazione. Non si sono mai più trovati né il membro amputato, né lo strumento impiegato per eseguire il taglio». Amaia annuì, interessata. «Ho parlato con il direttore del carcere, e lui mi ha detto che al momento del suicidio il detenuto era arrivato da pochi giorni e non mostrava segni di pentimento né di depressione: normalissimo, in casi come questo. Era tranquillo e rilassato, aveva appetito e dormiva come un sasso. Siccome era nella fase di adattamento, aveva passato qualche giorno da solo in una cella e non aveva ricevuto visite di parenti o amici. E poi all’improvviso, una notte, senza dare alcun preavviso, si era impiccato nella sua cella, e mi creda, dev’essere stata una faticaccia, perché lì dentro non c’è modo di salire in alto. Deve averlo fatto seduto a terra, e ci vuole una gran forza di volontà. Il secondino l’ha sentito ansimare e ha dato l’allarme. Quando sono entrati in cella era ancora vivo, ma è morto prima che arrivasse l’ambulanza».
«Ha lasciato un biglietto?»
«L’ho chiesto anch’io, e il direttore mi ha risposto che aveva lasciato “qualcosa di simile”».
«Qualcosa di simile?»
«Mi ha detto che aveva lasciato una scritta senza senso sulla parete della cella raschiando l’intonaco con il manico dello spazzolino», spiegò estraendo una fotografia da una busta che posò sul tavolo rivolta verso di lei.
Avevano ridipinto la parete, senza prendersi la briga di rasarla. Nella foto scattata appositamente di traverso, la luce del flash evidenziava le lettere incise con mano ferma nell’intonaco della parete. Una sola parola perfettamente leggibile.
TARTTALO
Amaia sollevò lo sguardo sorpresa, cercando in Padua una risposta. Lui sorrise, soddisfatto, appoggiandosi allo schienale della sedia.
«Vedo che sono riuscito a catturare la sua attenzione, ispettrice. «Tarttalo», esattamente con la stessa grafia del biglietto che Medina ha lasciato a suo nome», disse posando sullo scrittoio una busta plastificata indirizzata all’ispettrice Salazar.
Amaia rimase in silenzio, soppesando tutto ciò che il tenente Padua le aveva raccontato nel corso dell’ultima ora. Per quanto si sforzasse, non riusciva in nessun modo a trovare una spiegazione plausibile e soddisfacente del motivo per cui due assassini qualsiasi, approssimativi e disorganizzati, avessero eseguito lo stesso tipo di mutilazione nelle loro vittime senza lasciare tracce del loro modus operandi, soprattutto quando il resto della scena del crimine rimaneva piena di indizi. E in più, perché mai avevano scelto la stessa parola, una parola per niente comune, per firmare il loro crimine?
«Bene, tenente, capisco cosa intende. Quello che non capisco è perché stia raccontando tutto questo a me: in fondo il caso di Johana Márquez appartiene alla Guardia Civil, così come il trasporto dei detenuti. Perciò il caso è suo, sempre che di caso si possa parlare», disse spingendo le buste verso Padua.
Lui le riprese e trasse un sospiro profondo.
«Il problema, ispettrice Salazar, è che non ci sarà nessun caso. Queste scoperte le ho fatte per conto mio a partire dal resoconto della guardia penitenziaria. Il caso del detenuto di Logroño è della Policia Nacional ed è ufficialmente chiuso, esattamente come quello di Johana Márquez, ora che il suo assassino confesso è morto. Tutto quello che ho raccontato a lei, l’ho fatto presente anche ai miei superiori, che però non ravvedono indizi sufficienti per aprire un’indagine».
Amaia ascoltava attenta mordendosi il labbro inferiore, con la testa appoggiata su una mano.
«Cosa vuole da me, Padua?»
«Quello che voglio, ispettrice, è essere sicuro che non ci sia un nesso tra i casi, ma io ho le mani legate; in fin dei conti lei è coinvolta… e questo è suo», insistette spingendo di nuovo la busta con il biglietto verso di lei.
Amaia passò un dito sul bordo plastificato della busta e sulla grafia elegante e precisa con cui era scritto il suo nome.
«Ha controllato la cella di Medina in prigione?»
«Lei è davvero incredibile!» rise Padua scrollando la testa. «Ci sono andato proprio stamattina, prima di chiamarla». Si chinò di lato ed estrasse qualcosa dalla borsa. «Pagina otto», disse lasciando una cartelletta sul tavolo.
Amaia riconobbe le copertine all’istante. Una relazione autoptica, ne aveva viste a centinaia, il nome e il numero erano scritti sul frontespizio.
«L’autopsia di Medina, ma sappiamo già come è morto».
«Pagina otto», insistette Padua.
Amaia cominciò a leggere mentre lui recitava il testo a voce alta, come se lo conoscesse a memoria.
«Jasón Medina presentava un’importante erosione nell’indice destro, tanto da perdere l’unghia e mostrare la carne viva. Il direttore del carcere mi ha consentito di esaminare gli oggetti personali di Medina. Li tiene lì, la moglie non li vuole e non li ha reclamati nessuno. A quanto ho potuto vedere, Medina era una persona abbastanza semplice. Niente libri, niente foto, niente oggetti rilevanti, un paio di numeri vecchi di una rivista di gossip e un giornale sportivo. Non aveva abitudini igieniche impeccabili: per esempio, manca lo spazzolino. Ho chiesto di perquisire la sua cella e a prima vista non ho notato nulla di particolare. In questi mesi è stata occupata da altri detenuti, ma chissà perché mi è venuto in mente di passare la parete con il Luminol e guarda un po’, si è illuminata come un albero di Natale. Ispettrice, la notte prima del processo Jasón Medina ha usato il suo sangue, ferendosi il dito, per scrivere sulla parete della cella la stessa parola del detenuto del carcere di Logroño e, come il suo predecessore, dopo si è tolto la vita. L’unica differenza è che Medina ha agito fuori dal carcere, ma la ragione era semplice: doveva recapitarle questa», disse indicando la busta.
Amaia la prese e senza neanche guardarla la infilò in borsa prima di uscire dal bar. Mentre camminava verso casa, sentiva la sua presenza minacciosa che le aderiva al fianco come un impacco caldo. Prese il cellulare e digitò il numero del viceispettore Etxaide.
«Buongiorno, capo», rispose lui.
«Buonasera, Jonan, scusa se ti disturbo a casa…»
«Che succede, capo?»
«Vedi se riesci a trovarmi qualcosa sul tarttalo, la creatura mitologica, e qualsiasi altro riferimento esistente con la grafia t-a-r-t-t-a-l-o».
«Non c’è problema, glielo faccio avere per domani. Le serve altro?»
«No, nient’altro. Grazie mille, Jonan».
«Di niente, capo. A domani».
Riagganciando, si rese conto di quanto fosse tardi: mancavano solo tre quarti d’ora alla poppata di Ibai. Angosciatissima, si mise a correre verso casa schivando i pochi passanti che si azzardavano a uscire con il freddo pamplonese. Mentre correva, non faceva che pensare a quanto fosse puntuale Ibai con le sue poppate, alla precisione con cui si svegliava piangendo per la fame nell’istante in cui erano passate quattro ore dall’ultimo pasto. Vide casa sua da lontano e senza smettere di correre estrasse le chiavi dalla tasca del giaccone e, quasi assestando una stoccata perfetta, introdusse la chiave nella serratura e aprì la porta. Il pianto del bimbo le pervase le orecchie come un’ondata di disperazione dal piano di sopra. Salì le scale a due a due senza spogliarsi, mentre nella sua testa sfilavano assurde immagini del bimbo in lacrime, abbandonato nella sua culla, con James addormentato o incapace di consolarlo.
Invece James non dormiva. Quando entrò in cucina, vide che teneva Ibai in braccio e lo cullava con la testina appoggiata su una spalla canticchiando una canzoncina per calmarlo.
«Accidenti, James, non gli hai dato il biberon?» chiese consapevole di quanto fosse contraddittoria su questo punto.
«Ciao, Amaia, ci ho provato», rispose James indicando il tavolo su cui era posato un biberon di latte, «ma non vuole sentirne parlare», aggiunse con un sorriso rassegnato.
«Sicuro di averlo preparato come si deve?» chiese lei agitando il biberon con aria critica.
«Sì, Amaia», rispose lui dimostrando una pazienza fuori dal comune e senza smettere di cullare il bambino. «Cinquanta di acqua e due cucchiaini rasi di polvere».
Amaia si tolse il giaccone e lo lanciò su una sedia.
«Dammelo», gli chiese.
«Tranquilla, Amaia», ribatté lui, cercando di calmarla, «il bimbo sta bene, è solo un po’ arrabbiato. Ha iniziato a piangere da poco e l’ho tenuto sempre in braccio».
Amaia glielo tolse dalle braccia senza tanti riguardi e andò in sala, dove si sedette in poltrona mentre il bambino piangeva ancora più forte.
«Dimmi un po’, cos’è per te “poco”?» chiese furiosa. «Mezz’ora? Un’ora? Se glielo avessi dato prima, adesso non sarebbe in questo stato».
James smise di sorridere.
«Neanche dieci minuti, Amaia. Visto che non arrivavi, mi ero preparato in anticipo e avevo il biberon già pronto prima che scoccasse l’ora. Non gli è piaciuto, è normalissimo, preferisce il seno, e il latte artificiale deve avere un sapore strano. Sono sicuro che se avessi tardato ancora avrebbe finito per berselo tutto».
«Non ho fatto tardi per divertimento», lo assalì lei, «stavo lavorando».
James la guardò perplesso.
«E chi ha detto il contrario?»
Il bimbo non la smetteva di piangere, agitando disperato la testa in cerca del seno, adesso vicinissimo. Lo sentì attaccarsi in maniera violenta, a momenti dolorosa, e il pianto smise di botto, lasciando nell’aria un vuoto di decibel quasi altrettanto assordante.
Amaia chiuse gli occhi afflitta. Era tutta colpa sua. Si era trattenuta troppo nel bar e aveva lasciato passare il tempo mentre il figlio piangeva dalla fame. Posò una mano tremante sulla sua testolina e accarezzò la morbida peluria che la copriva. Una lacrima le rigò la guancia e cadde sul faccino del figlio, che ormai ciucciava tranquillo, mezzo addormentato, ignaro delle ansie materne.
«Amaia», le sussurrò James avvicinandosi e asciugandole il viso con un dito. «Non è niente, tesoro. Ti giuro che il bimbo non ha sofferto, ha pianto forte solo un paio di minuti, proprio quando sei arrivata tu. Non succede niente, Amaia, altri bambini sono dovuti passare al latte artificiale prima di Ibai e ti assicuro che non ne ha mai risentito nessuno».
Ibai dormiva placido. Lei si abbottonò la camicetta, gli porse il bimbo e uscì di corsa dalla sala. Un attimo dopo James la sentì vomitare.
Aveva preso sonno senza accorgersene, di solito le capitava solo quando era molto stanca. Si era risvegliata di soprassalto, sicura di aver sentito uno di quei sospiri profondi che faceva sempre il figlio dopo un grande pianto, ma la stanza era immersa nel silenzio e alzandosi a sedere intravide nell’oscurità che Ibai dormiva tranquillo. Allora si girò verso James, che dormiva a pancia in giù, con il braccio destro sul suo cuscino. Istintivamente si chinò per dargli un bacio sulla testa. Lui allungò il braccio e con la mano cercò la sua in un gesto tipico tra loro che ripetevano di continuo durante la notte, senza pensarci. Sentendosi rassicurata, chiuse gli occhi e si riaddormentò.
Finché non la svegliò il sibilo assordante del vento che le soffiava nelle orecchie. Aprì gli occhi e la vide. Lucía Aguirre la guardava fisso dalla riva del fiume, indossava il suo golf bianco e rosso dall’aria assurdamente festiva e si cingeva la vita con il braccio sinistro. Il suo sguardo triste la raggiungeva come un ponte mistico teso sulle acque increspate del fiume Baztán, e attraverso gli occhi riusciva a sentire tutta la sua paura, tutto il suo dolore, ma soprattutto l’infinita tristezza con cui la guardava senza più speranze, accettando un’eternità di vento e solitudine. Vincendo la paura, Amaia si alzò e senza smettere di guardarla annuì incoraggiandola a parlare. E Lucía parlò, ma le sue parole trascinate dal vento si perdevano inascoltate. Gridava disperata come per farsi sentire, finché le sue forze non vennero meno e cadde a terra in ginocchio, nascondendo il viso per un istante. E quando tornò a sollevarlo, le sue labbra si muovevano lente e a ritmo, ripetendo di continuo: «Affrontalo… tastalo… agguantalo… agguantalo…».
«Lo farò», sussurrò lei, «lo agguanterò».
Ma Lucía Aguirre non la guardava già più, scrollava solo la testa mentre il suo viso sprofondava nel fiume.