30
Salutati gli zii, montò in macchina e fece guidare Jonan.
«Non è tutto perduto, capo».
Lei sospirò.
«Sì che lo è».
«In realtà, il fatto che il corpo non si trovi potrebbe anche significare che è ancora viva».
«No, Jonan, è morta».
«Non può saperlo con certezza». Lei rimase in silenzio. «Potrebbe essere uno di quei bambini rapiti di cui parlano i giornali: pare fossero in tanti».
«A mia madre non hanno rapito la figlia».
«Mi perdoni, ma potrebbe anche essere frutto di una relazione extraconiugale, oppure potrebbe averlo fatto per soldi: la gente è disposta a sborsare una fortuna per un neonato».
«Un neonato senza un braccio?»
«Potrebbe averla data in adozione proprio per questo, perché aveva un difetto fisico».
Amaia ci pensò su. Rosario avrebbe mai accettato una bambina con una tara, oppure le sarebbe sembrato vergognoso che sua figlia avesse una menomazione? Non le pareva poi così assurdo.
«Cosa suggerisci?»
«La cosa più rapida mi pare cominciare da quello che sappiamo già, ossia che le manca un braccio, perciò dovrebbe portare una protesi. Esiste un registro nazionale alla Previdenza sociale con i nomi di tutti i portatori di protesi e i relativi numeri di serie: in più, abbiamo l’età e persino la data di nascita».
«Ma se avessero deciso di darla in adozione, non ci sarebbe un certificato di decesso, non ti pare?»
«Potrebbe essere falso, se era d’accordo con il medico che l’ha firmato».
Amaia ripensò al viso di Fina Hidalgo mentre le diceva: «E così lei è una di quelle…?»
«Sì, potrebbe anche essere», ammise.
Se le cose stavano davvero come diceva Jonan, l’unico scopo di tutta quella manovra sarebbe stato semplicemente ingannare suo padre.
Ah, aita, come hai fatto a essere così cieco! pensò Amaia.
Faceva buio in fretta mentre percorrevano l’autostrada nella valle di Leitzaran. La luce si tingeva di nero con un ultimo bagliore argentato che sembrava galleggiare tra le chiome degli alberi per poi allungarsi fino all’orizzonte, come se la sera non volesse cedere il passo all’oscurità, ribellandosi con quell’estremo atto di luce e bellezza che contribuì solo a rendere Amaia ancora più triste.
Il telefono la riportò alla realtà.
«Buonasera, ispettrice», la salutò tutto allegro il dottor San Martín.
E dal suo tono capì che aveva buone notizie.
«Abbiamo i risultati delle analisi dei metalli… e…» disse centellinando le informazioni. Amaia odiava quel modo di fare. «… il bisturi inviato dalla clinica di Estella in effetti è antico, più precisamente del XVII secolo, come le avevo anticipato. La datazione si basa sulle leghe di metalli che si utilizzavano all’epoca e sul modo di fondere e forgiare i metalli, tutti elementi che forniscono all’oggetto un’identità inconfondibile. Ed ecco la vera sorpresa».
Dal suo tono, Amaia sentiva che stava sorridendo mentre parlava.
«Il dente di metallo conficcato nell’osso di Lucía Aguirre e il metallo del bisturi presentano la stessa lega e forgiatura».
Amaia si raddrizzò, interessata. San Martín era riuscito a catturare tutta la sua attenzione.
«Per conto mio esiste una sola spiegazione, ed è che sono stati forgiati insieme. Staremmo parlando di un lavoro del tutto artigianale, probabilmente su incarico, il che mi porta a pensare a uno stesso set di strumenti medici da chirurgo».
«Mi sta dicendo che il bisturi e il dente di metallo appartengono allo stesso set?»
«Sissignora, e adesso che so questo, posso supporre che il dente appartenesse a un’antica sega da amputazione, di quelle molto usate dai chirurghi. Tenga conto che in presenza di una diffusa infezione, senza l’ausilio degli antibiotici l’amputazione era la soluzione più praticata».
«È quella che hanno usato per tagliare il braccio a Lucía?»
«Probabilmente. Come le ho già spiegato, dovremmo prendere il calco del dente per esserne certi, ma ne sono quasi sicuro; in più, è l’unica ragione che spiegherebbe come mai era conficcato dentro l’osso».
«E potrebbe essere la stessa sega usata per amputare il braccio di Johana?»
«Dovrei confrontare i calchi…»
«Ma potrebbe essere?»
«Vedendo la precisione con cui è stato realizzato il taglio nell’osso di Lucía… Sì, potrebbe essere, le ho già detto che la somiglianza era visibile a occhio nudo».
Riagganciò e rimase a fissare Jonan, che guidava stringendo il volante così forte da sbiancare le nocche.
«Bene, questo prova che avevamo ragione: l’ospite sconosciuto di sua madre era il Tarttalo, e lui e il profanatore di Arizkun potrebbero essere la stessa persona, visto che ci ha tenuto tanto a usare le ossa dei mairu della sua famiglia. Questo stringe il cerchio attorno a qualcuno di Elizondo che fosse a conoscenza dei neonati sepolti attorno alla casa di sua nonna. Secondo me, il fatto che le abbia lasciato le ossa del braccio di sua sorella stabilisce al di là di ogni ragionevole dubbio la relazione con l’unica persona che poteva sapere dove si trovavano… Non dimentichi che in questo caso non erano sottoterra come le altre. Per recuperarle ha dovuto avere accesso a questa informazione, un’informazione che possedeva solo sua madre. Il che ci porta alla conclusione che il profanatore e il Tarttalo sono la stessa persona».
Amaia sbuffò frastornata, come se non riuscisse ad assimilare tutte quelle informazioni. Dopo qualche secondo sussurrò: «Allora le profanazioni avrebbero avuto l’unico scopo di attirare la mia attenzione su… su che cosa? I delitti del Tarttalo? Cosa vuole dirci? Cosa c’entra mia sorella con tutta questa storia? È stata anche lei una vittima del Tarttalo?»
Si fermò un istante prima di scoppiare a ridere. «Il Tarttalo è mia madre?» disse in tono stanco.
Jonan sorrise divertito all’idea.
«Capo, sua madre non è il Tarttalo. Non può esserlo. Alcune delle ossa ritrovate nella grotta risalgono a più di dieci anni fa e, se non sbaglio, sua madre dieci anni fa era già molto malata, forse addirittura ricoverata in casa di cura. Quanti anni sono passati? In ogni caso, ci sono altre ossa che sono state abbandonate quando lei era già in clinica».
«No, a quei tempi non era ancora ricoverata, ma di sicuro non sarebbe stata in grado di partecipare a un’operazione del genere… Però lo conosce, questo è chiaro».
«Sì, ha ragione», ammise Jonan, «anche se quasi certamente non ha idea di chi sia o di cosa faccia».
Amaia si mise a riflettere.
«Magari è il marito di Nuria, il tizio con le dita tagliate, che ne dice?»
«Sì, potrebbe essere, ma era in prigione quando è stata uccisa Johana», rispose lei.
«Però corrisponde alla descrizione del profanatore fornita dal ragazzo di Arizkun».
«Cazzo, mi scoppia la testa!» esclamò Amaia. «Ho bisogno di pensarci con calma. Ne ho proprio bisogno…»
Era notte fonda quando arrivarono a Elizondo.
«Lasciami qui», disse Amaia all’inizio di calle Santiago. «Una boccata d’aria fresca mi farà bene».
Jonan accostò a un lato della strada.
Amaia smontò dall’auto e lasciò lo sportello aperto mentre indossava i guanti e si abbottonava il cappotto. La pioggia caduta quel pomeriggio aveva lasciato un’impronta umida a terra, ma adesso il cielo limpido lasciava trapelare qualche timida stella. Persi di vista i fari della macchina di Jonan, calle Santiago rimase vuota e silenziosa. Amaia camminò a passo lento pensando alla forza del silenzio che regnava sulla notte baztanese, un silenzio possibile solo in quel luogo, placido e assordante insieme, con il suo messaggio di solitudine e vuoto che le fece rimpiangere Pamplona e la loro casa in calle de Mercaderes, una strada raramente silenziosa, affollata e vivace, che non ingannava nessuno.
Quel silenzio di Elizondo proclamava una pace che non esisteva, una calma che ribolliva sotto la superficie, come se un fiume sotterraneo di lava incandescente scorresse parallelo al fiume Baztán, trasmettendo alla gente del posto un’energia tellurica originata dalle profondità stesse dell’averno.
Sentì una musica e si voltò a guardare. Un paio di coppie di fedelissimi del Saioa entravano nel bar. La strada tornò al suo stato originario non appena si richiuse la porta. Faceva freddo, ma l’assenza di vento rendeva la notte quasi gradevole. Scese verso Muniartea lasciando che il frastuono assordante della chiusa infrangesse il silenzio, e togliendosi un guanto appoggiò la mano nuda sulla pietra gelida, dove era inciso il nome del ponte.
«Muniartea».
Lo pronunciò come aveva fatto mille volte da bambina. La voce, appena un sussurro, fu attutita dal rumore dell’acqua e dalla brezza che in quel punto soffiava cavalcando il fiume. Rimpianse all’improvviso le sere d’estate in cui le luci della chiusa venivano lasciate accese, donandole l’aspetto quasi idilliaco da cartolina. Ma nelle sere d’inverno il buio calava sul Baztán con tutto il suo potere, e gli abitanti della valle non osavano togliergli spazio oltre gli stretti limiti occupati dalle proprie case. Fece un passo indietro fissando l’acqua scura che le scivolava sotto i piedi, in direzione di un mare furioso che attendeva molti chilometri più in basso. Indossò di nuovo il guanto ed entrando nel quartiere di Txokoto le spesse pareti delle case attutirono lo scroscio della chiusa, che giungeva quasi come un ricordo, insinuandosi negli orti della signora Nati.
La luce aranciata dei lampioni rischiarava appena, diffondendosi in piccoli cerchi che quasi non si toccavano e dando a Txokoto un aspetto molto simile a quello che doveva avere in epoca medievale, quando quelle case con le travi a vista erano sorte a formare uno dei primi quartieri di Elizondo. Oltrepassò le imposte di legno che di notte coprivano le vetrine della Mantecadas Salazar e girò a sinistra. Il parcheggio era buio e vuoto, e si pentì di non avere a portata di mano una torcia per poter ammirare il candore immacolato della facciata che, nonostante la penombra, si intuiva finalmente ripulita dalle scritte. La luce non le serviva ad altro, tanto la serratura l’avrebbe trovata comunque, come mille altre volte nella sua infanzia. Si tolse i guanti e strinse forte la chiave che teneva nella tasca del cappotto e da cui pendeva ancora la corda che il padre aveva legato perché potesse appenderla al collo. Cercò con il dito la fessura e introdusse la chiave, che girò dolcemente. Spinse la porta e schiacciò l’interruttore sulla destra prima di richiudersela alle spalle. Il laboratorio sapeva di sciroppo, un aroma fresco e dolce che le portava il ricordo dei giorni felici. Le piaceva quell’odore che riusciva a mitigare l’aroma vegetale e crudo della farina. Chiuse gli occhi un istante mentre cancellava le immagini che, richiamate dalla potente memoria olfattiva, accorrevano come invitate in un incubo. Si girò verso il pannello elettrico e accese tutte le luci. La forte illuminazione riuscì ad allontanare i fantasmi del passato, che si rintanarono negli angoli bui. L’ultima infornata della sera aveva contribuito a riscaldare il laboratorio e la temperatura era ancora molto gradevole. Amaia si tolse il cappotto e lo piegò, sedendosi su un tavolo d’acciaio e posandolo con delicatezza accanto a sé.
Sapeva che il caos era esploso lì dentro, che la sera in cui la madre l’aveva seguita in pasticceria e l’aveva colpita col mattarello per poi seppellirla nella vasca della farina dandola per morta, l’inferno si era spalancato sotto i suoi piedi, ma quella non era ancora stata la vera origine. Guardò con ansia la vasca piena di farina e chiusa con uno sportello di metacrilato che permetteva di vedere il suo contenuto, morbido e bianco, come dentro una bara, e si costrinse a scacciare quel pensiero. Si guardò attorno cercando quelle caraffe di essenze che adesso erano disposte in bell’ordine su uno scaffale metallico. Era andata lì a cercare i suoi soldi, i soldi che il padre le aveva regalato per il compleanno e che doveva nascondere perché l’amá non lo sapesse… Ma lei sapeva sempre tutto. Sentiva la presenza di Amaia anche se non era nella stessa stanza, e allora lanciava verso di lei una corda invisibile con cui la teneva ferma anche se mai soggiogata. Una corda come quella che aveva lanciato nell’ospedale, una tela che potevano vedere solo loro due e che era il legame che univa il ragno alla sua vittima. Da quando aveva l’uso della ragione, ricordava quella presenza come un segmento invisibile che univa l’una all’altra ma le teneva lontane, un segmento rigido che impediva alla madre di toccarla, di accarezzarla o di prendersi cura di lei. Era la ragione per cui ad aiutarla a vestirsi e pettinarsi erano sempre il padre o le sorelle; la ragione per cui era suo padre a portarla dal dottore o a misurarle la febbre quando si ammalava; la ragione per cui Rosario non l’aveva mai toccata o presa per mano. Un segmento invisibile che le teneva separate e unite come fossero le estremità di un cavo, un segmento di perfetta distanza invalicabile, che invece la madre ogni tanto decideva di varcare, sempre di notte, quando tutti dormivano, per chinarsi sul suo letto e ricordarle… che cosa? Amaia ci pensò mentre i suoi occhi tornavano a posarsi sulla vasca della farina… Ricordarle che sulla sua testa pendeva una sentenza di morte, che lei non avrebbe mai smesso di rammentarglielo, come ai condannati si ricorda che non solo devono morire, ma che ogni nuovo giorno è semplicemente uno in meno nel conto alla rovescia verso la morte. «Dormi, troietta. Per oggi l’amá non ti mangia». «Ma prima o poi lo farà», diceva un’altra voce senza padrone, «prima o poi lo farà». Amaia l’aveva sempre saputo. Ecco perché non dormiva, perché vegliava finché non era certa che il suo boia avesse ceduto al sonno, perché si infilava con preghiere e promesse di servitù nei letti delle sorelle, e quella notte era semplicemente stata la notte in cui alla fine si sarebbe dovuta eseguire la sentenza.
«Ma qual è stata l’origine, ispettrice?» sentiva ancora la voce di Dupree. «Reset, ispettrice».
Se questa era la sentenza, prima avrebbe dovuto esserci una condanna. Quando mi ha condannato? E perché?, si chiese Amaia.
Lei sapeva di essere condannata da sempre, e adesso cominciava a pensare di esserlo forse dal primo istante in cui era stata concepita accanto a quell’altra bambina identica a lei che piangeva nei suoi sogni sin da quando aveva memoria. Jonan si sbagliava. Riusciva a capire la sua fiducia, la sua speranza e il suo ottimismo, la sua incapacità di accettare l’orrore e di pensare al peggio. Non ci sarebbe stata luce su quel caso, non avrebbe trovato negli archivi una donna portatrice di protesi della sua stessa età: c’erano cose che Iriarte e Jonan non sapevano, e tuttavia cominciavano a percepire. Non sapevano che la minaccia di Rosario si faceva più pressante quando arrivava il compleanno della figlia. Ricordava che ogni anno il suo atteggiamento solitamente distante diventava addirittura ostile con l’avvicinarsi di quella data. Si sentiva alle spalle gli sguardi con cui calcolava la resistenza della sua vittima e la distanza che le separava, sguardi che, anche senza vederla, le facevano rizzare i peli sulla nuca e le trasmettevano la perentoria minaccia che nei giorni successivi l’avrebbero tenuta sveglia tutte le notti. Ricordava ancora come l’imminenza della sentenza che pendeva sul suo capo prendesse forza, trasformandosi in qualcosa di scuro e palpabile che incombeva su di lei, togliendole il fiato con il suo senso di inevitabilità. Poi la data del compleanno passava e il rapporto tra madre e figlia tornava a quella strana alternanza tra l’evitarsi e il tenersi d’occhio, in una calma tesa che era stata la cosa più simile alla normalità durante la sua infanzia. Quella data. Quel compleanno che avrebbe dovuto essere di festa come per qualsiasi altro bambino, come lo era per le sue sorelle, era per lei il periodo più difficile dell’anno, una data segnata come fatidica nel suo calendario interiore. È vero, si poteva ipotizzare che la madre avesse sofferto talmente per la morte dell’altra bambina da rimanere traumatizzata, e che il compleanno di Amaia le facesse rivivere quel ricordo orribile. Ma lei sapeva che non c’era niente di vero: non era il dolore di una madre e neppure il lutto ciò che vedeva negli occhi di Rosario, ma la determinazione continuamente rimandata di portare a termine una missione che raggiungeva il suo apice intorno alla data del compleanno delle due bimbe identiche. «Un mairu appartiene sempre a un bambino morto», è questa la sua natura.
«La scelta della vittima non è mai casuale».
No, non credeva affatto che la bambina dei suoi sogni fosse diventata una donna adulta, magari finita a vivere chissà dove, con un’altra famiglia, con un altro cognome; e malgrado la bara vuota e il certificato di decesso falso, non credeva affatto che la madre avesse dato la bimba in adozione. Nessuno sembrava sapere che il parto fosse stato gemellare, e se era riuscita a tenerlo nascosto fino all’ultimo, avrebbe potuto facilmente darla in adozione senza inscenare la sua morte: in fin dei conti, aveva sempre un’altra bambina da mostrare a tutti, no? Nessuno, tranne il padre, poteva ignorare il fatto che ci fossero due cullette gemelle. Di sicuro aspettavano due figli che erano nati in casa, il certificato medico del parto lo dimostrava; ma allora, se la morte era stata naturale e disponevano di un certificato autentico firmato da un medico, che bisogno c’era di inventare tutta quella storia? Se aveva inscenato tutta quella pantomima di certificati falsi e di false sepolture, era stato perché c’era un cadavere, un cadavere reale che bisognava togliere di mezzo, un cadavere senza un braccio che non risultava in nessun registro ospedaliero dell’epoca, e che perlomeno a livello osseo non presentava malformazioni tali da giustificare un’amputazione. E se non era stata operata, allora le avevano praticato l’amputazione dopo il decesso, oppure l’osso era stato sottratto da una tomba, come quella dei mairu che proteggevano Juanitaenea. All’improvviso il ricordo di qualcosa che aveva sognato divenne presente come un’immagine reale.
Una bambina che era lei stessa, rannicchiata in un angolo, alzava un braccio che era un moncherino e le sussurrava una frase. Amaia si precipitava giù dalle scale, stringendo non si sa cosa al petto mentre mezza dozzina di bambini piccoli e sporchi di fango alzavano le braccia amputate verso di lei. Che cosa dicevano? Non riusciva a ricordarlo, ma la certezza che fosse importante la convinse a fare uno sforzo, socchiudendo gli occhi mentre cercava di afferrare il ricordo di quel sogno. Come la nebbia, si sfilacciava in brandelli se cercava di trattenerlo, e un forte mal di testa cominciava a martellarle le tempie. Senza smettere di fissare la vasca che sembrava esercitare un potere ipnotico su di lei, cercò a tentoni il cappotto e prese il telefonino. Con lo sguardo ancora fisso sul candore della farina, era incerta se chiamare oppure no. Alla fine chiuse gli occhi e biascicò: «’Fanculo!»
Guardò l’ora, tre minuti dopo la mezzanotte, le sei di sera in Louisiana. Un’ora sbagliata come un’altra. Cercò il numero e premette il tasto. All’inizio non successe nulla, silenzio perfetto come prima di inviare la chiamata, tanto che controllò lo schermo del cellulare. Il messaggio era inconfondibile: «Agente speciale Dupree, composizione». Riappoggiò il telefono all’orecchio, ma la linea non prendeva, finché non sentì uno schiocco, come un ramo secco che si rompe.
«Agente Dupree?» chiese incerta.
«È già notte nel Baztán, ispettrice Salazar?»
«Aloisius…» bisbigliò.
«Rispondimi, è già notte?»
«Sì».
«Mi chiami sempre di notte».
Rimase in silenzio: l’osservazione le sembrò insieme strana e del tutto giustificata. È curiosa la sensazione di sapere che si parla con qualcuno, qualcuno che si conosce, sapere con certezza chi è e al tempo stesso non saperlo.
«Cosa posso fare per te, Salazar?»
«Aloisius…» ripeté con il tono di una persona che cerca di convincersi, di stabilire un contatto con la realtà evanescente, «c’è una cosa che devo sapere», sussurrò. «Ho cercato la soluzione e sono solo riuscita a confondermi le idee. Ho seguito il tuo consiglio, sono risalita all’origine, ma la risposta continua a sfuggirmi».
Il silenzio nella linea sembrava alterato solo da un brusio costante come di acqua corrente. Amaia strinse le labbra cercando di non pensare, cercando di evitare l’immagine mentale che le suggeriva quel suono.
«Aloisius, ho scoperto di aver avuto una sorella, una bambina nata insieme a me».
All’altro capo del telefono, l’agente Dupree parve prendere fiato, e suonò come un canale di scolo ingorgato.
«Secondo certe piste, potrebbe persino essere ancora viva…»
La reazione fu un accesso di tosse gutturale.
«Oh, Aloisius!» esclamò, mentre si portava la mano alla bocca per trattenere la domanda che le affiorava spontanea alle labbra: «Stai bene?»
I rantoli cessarono, lasciando spazio a quel silenzio funesto che era segno di linea vuota, o forse l’esatto opposto.
Attese ancora.
«Non mi stai facendo la domanda giusta», la rimproverò Dupree, recuperando il suo solito tono di voce.
Amaia quasi sorrise riconoscendo il suo amico.
«Non è così facile», protestò lei.
«Sì che lo è, mi hai chiamato per questo».
Amaia deglutì mentre i suoi occhi tornavano a posarsi sulla vasca della farina.
«Quello che voglio sapere è se mia sorella…»
«No!» la interruppe lui. La sua voce adesso sembrò provenire dal fondo di una grotta umida.
Lei scoppiò a piangere e proseguì: «… Se mia sorella è viva», terminò con la voce rotta di pianto.
Passò qualche secondo prima che lui replicasse: «È morta».
Lei pianse ancora più forte.
«Come fai a saperlo?»
«Piuttosto chiediti come fai a saperlo tu. Perché la sogni, perché sogni i morti, ispettrice Salazar, e il motivo te l’ho già detto».
«Ma tu come lo sai?»
«Il perché lo sai già, Salazar».
Allontanò il cellulare dall’orecchio e si accorse con sorpresa che era spento. Premette il tasto di accensione e sentì sulla mano la vibrazione di avvio, vide il messaggio di benvenuto e la foto di Ibai sul display. Cercò tra le chiamate effettuate, ma non ne trovò nessuna diretta a Dupree: l’ultima era quella che aveva fatto a Iriarte dalla macchina. Neanche nel registro generale di tutte le chiamate effettuate, ricevute e perse c’era traccia del suo amico. Il telefono squillò all’improvviso, per la sorpresa le sfuggì di mano e finì sotto il tavolo, smontandosi in tre pezzi. La chiamata si spense all’istante. Scese dal tavolo, si inginocchiò per recuperare il coperchio, lo schermo e la batteria, e con le dita tremanti lo rimise insieme, accendendolo nel momento preciso in cui ricominciava a squillare. Guardò il video senza riconoscere il numero e rispose.
«Dupree?»
«Ispettrice Salazar», rispose una voce cauta all’altro capo. «Sono l’agente Johnson dell’Fbi. Mi ha chiamato l’altro giorno, si ricorda?»
«Ma certo, agente Johnson», rispose cercando di ricomporsi. «Non ho riconosciuto il numero».
«Sì, perché la chiamo dal mio cellulare privato. Abbiamo i risultati dell’immagine che mi ha mandato, sembrava molto urgente».
«Sì, agente Johnson, grazie mille».
«Le ho appena inviato una mail con i dati del rapporto dell’esperto in allegato. L’immagine è parzialmente danneggiata, ma sono riusciti comunque a ottenere un risultato interessante. Ci dia un’occhiata e se posso fare altro per lei, non esiti a contattarmi, ma mi chiami preferibilmente a questo numero. Stimo personalmente l’agente Dupree, ma da quando è scomparso le cose sono piuttosto cambiate da queste parti. All’inizio è stata seguita la procedura usuale in caso di sparizione di un agente, ma qualche giorno fa le informazioni hanno ceduto il posto al silenzio. Qui le cose vanno così, cara ispettrice: bastano un paio di insinuazioni per passare da eroi a bastardi. Sono amico di Aloisius Dupree; in più è uno dei migliori agenti che abbia mai conosciuto, e ci sarà di sicuro una buona ragione per agire così. Spero solo che si rifaccia vivo e chiarisca tutta questa faccenda, perché il silenzio equivale a una condanna. Nel frattempo, per qualsiasi cosa si rivolga pure a me, sono a sua completa disposizione».