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Tre mesi dopo
Amaia riconobbe la canzoncina che arrivava dal salotto, sussurrata appena. Finì di sparecchiare e, mentre si asciugava le mani con lo strofinaccio, si avvicinò alla porta per ascoltare meglio la ninna nanna che la zia canticchiava al bimbo con voce dolce e rassicurante. Sì, era la stessa. Anche se erano anni che non la sentiva, riconobbe il motivetto che la sua amatxi Juanita le sussurrava quando era piccola. Il ricordo le riportò la cara presenza della sua adorata Juanita, vestita tutta di nero, con i capelli raccolti in uno chignon e quei pettinini d’argento che riuscivano a stento a tenere fermi i suoi ricci bianchi; sua nonna, che quando era piccola era stata l’unica ad abbracciarla.
Txikitxo politori
zu nere laztana,
katiatu ninduzun,
libria nintzana.
Libriak libre dira,
zu ta ni katigu,
librerik oba dana,
biok dakigu.1
Seduta in poltrona accanto al camino acceso, Engrasi cullava tra le braccia il piccolo Ibai guardandolo fisso mentre recitava i versi antichi di quella triste canzone. Lei sorrideva, ma Amaia ricordava che la nonna piangeva ogni volta che gliela cantava. Si chiese il perché, forse conosceva già il dolore racchiuso nel cuore della sua nipotina, ed era quella stessa paura che provava anche lei per la piccola.
Nire laztana laztango
kalian negarrez dago,
aren negarra gozoago da
askoren barrea baiño.2
Alla fine della ninna nanna, si asciugava le lacrime con il fazzoletto candido su cui erano ricamate le iniziali sue e del marito, un nonno che Amaia non aveva mai conosciuto che la guardava con aria severa dal ritratto in sala da pranzo.
«Perché piangi, amatxi? Ti mette tristezza la canzone?»
«Non farci caso, tesoro mio, la nonna è una sciocca».
Ma poi sospirava e l’abbracciava forte, tenendola stretta perché non se ne andasse, anche se lei non aveva nessuna intenzione di muoversi.
Amaia ascoltò le ultime note della canzone assaporando la sensazione privilegiata di poter ricordare le parole un attimo prima che la zia le pronunciasse. Engrasi tornò in silenzio e Amaia inspirò in profondità l’atmosfera di pace che regnava in quella casa. L’aria era ancora impregnata dell’aroma di stufato, legna bruciata e cera per mobili di Engrasi. James si era addormentato sul divano e, per quanto non facesse freddo, lo coprì con un plaid rosso. Lui socchiuse gli occhi un istante, le soffiò un bacio e riprese a dormire. Amaia accostò una poltrona a quella della zia e la fissò: non cantava più, ma continuava a guardare come ipnotizzata il viso addormentato del bimbo. Poi guardò la nipote e sorrise porgendole il figlio perché lo prendesse. Amaia lo baciò sulla testa con grande delicatezza e lo adagiò nella carrozzina.
«James dorme?» le chiese la zia.
«Sì, stanotte non abbiamo quasi chiuso occhio. Ibai ha le colichette, soprattutto con le poppate notturne, e James ha passeggiato per casa tutta la notte con il bimbo in braccio».
Engrasi si girò verso James e commentò: «È proprio un bravo papà…»
«Il migliore».
«E tu, non sei stanca?»
«No, lo sai che io non ho bisogno di dormire tanto, qualche ora mi basta».
Engrasi ci pensò su e per un attimo si scurì in viso, ma tornò subito a sorridere indicando la carrozzina.
«È bellissimo, Amaia, il bimbo più bello che abbia mai visto, e non solo perché è nostro: Ibai ha qualcosa di speciale».
«Proprio speciale!» esclamò Amaia. «Il bimbo che doveva essere bimba e ha cambiato idea all’ultimo momento».
Engrasi la guardò con aria seria.
«Secondo me è andata esattamente così».
Amaia fece un’aria perplessa.
«Quando sei rimasta incinta, all’inizio, ti ho letto le carte, solo per accertarmi che andasse tutto bene, e in quel momento era una bambina senza alcun dubbio. Nel corso dei mesi, ho letto i tarocchi qualche altra volta, ma non ho più badato al sesso, perché ormai si sapeva. E quando alla fine mi hai detto che ti sentivi strana e non riuscivi a scegliere un nome e a comprare i vestitini, io ti ho dato una spiegazione psicologicamente plausibile», disse sorridendo, «ma a quel punto sono tornata a consultare le carte e devo confessarti che per un attimo ho temuto il peggio. Avevo paura che la tua esitazione, la tua incapacità di scegliere potesse significare che la piccola non sarebbe nata. A volte le madri hanno dei presentimenti di questo genere e corrispondono sempre a un segno reale. E la cosa più sorprendente è che non sono più riuscita a vedere nelle carte il sesso del nascituro, non volevano dirmelo, e lo sai cosa dico sempre su quello che le carte non dicono: se non lo dicono, è perché non dobbiamo saperlo. A volte sono cose che non ci saranno mai rivelate perché conoscerle non è nella natura dei fatti; altre volte si riveleranno al momento opportuno. Quando James mi ha chiamato al telefono quel mattino, le carte si sono mostrate limpide e trasparenti come un bicchiere d’acqua. Un maschio».
«Cioè, secondo te dovevo avere una bambina, ma nell’ultimo mese ha deciso di diventare un bambino? Mi sa che non ci sono grandi basi scientifiche…»
«Secondo me dovevi avere una bambina, è probabile che un giorno o l’altro ne avrai una, ma secondo me qualcuno ha anche deciso che non era ancora arrivato il momento giusto, e ha lasciato la decisione in sospeso finché alla fine non ha deciso che dovesse nascere Ibai».
«E secondo te chi potrebbe aver preso una decisione simile?»
«Forse la stessa persona che ti ha concesso di averlo».
Amaia si alzò con aria contrariata.
«Vado a fare il caffè. Ti va?» La zia non rispose alla domanda.
«Fai male a rifiutarti di ammettere che la circostanza sia stata speciale».
«Non mi rifiuto di ammettere niente, zia», si difese lei, «è solo che…»
«“Non devi credere che esistano, non devi mai dire che non esistono”», ricordò Engrasi citando l’antica difesa contro le streghe che era popolarissima solo un secolo prima.
«… tantomeno io», sussurrò Amaia al ricordo di quegli occhi ambrati, il sibilo forte e corto che l’aveva guidata attraverso il bosco in piena notte mentre si dibatteva tra la sensazione di irrealtà dei sogni e la certezza di star vivendo un’esperienza reale.
Mantenne il silenzio, finché non fu la zia a romperlo.
«Quando torni al lavoro?»
«Lunedì prossimo».
«E cosa ne pensi?»
«Dai, zia, lo sai che il mio lavoro mi piace, però devo riconoscere che non mi era mai costato tanto dover tornare in servizio, neanche dopo le vacanze, neanche dopo la luna di miele, mai in tutta la mia vita. Adesso è tutto diverso, adesso c’è Ibai», disse guardando la culletta, «e mi pare troppo presto per separarmi da lui».
Engrasi annuì con un sorriso.
«Lo sai che un tempo nel Baztán le donne non potevano uscire di casa prima che fosse trascorso un mese dalla nascita del figlio? Era il tempo che la Chiesa stimava sufficiente per garantire che il neonato fosse sano e non sarebbe morto. Dopo un mese potevano battezzarlo e solo allora la madre poteva uscire di casa per portarlo in chiesa. Però, fatta la legge, trovato l’inganno! Le donne del Baztán si sono sempre distinte per la capacità di fare quello che va fatto. Quasi tutte dovevano lavorare, avevano altri figli, il bestiame, le mucche da mungere, il lavoro nei campi, e un mese era davvero troppo tempo. E così, quando dovevano uscire, spedivano il marito sul tetto a prendere una tegola e se la annodavano stretta sulla testa con un fazzoletto in maniera che non cadesse. In questo modo, anche se dovevano uscire di casa, restavano comunque sotto il loro tetto: e lo sai che nel Baztán fin dove arriva il tetto arriva la casa, perciò potevano sbrigare le loro faccende senza per questo venir meno alla tradizione».
Amaia sorrise.
«Non mi vedo con una tegola in testa, ma la indosserei molto volentieri se questo mi permettesse di portare con me la mia casa».
«Raccontami la faccia di tua suocera quando ha saputo di Ibai».
«Te la puoi immaginare! All’inizio si è messa a inveire contro i medici e i loro metodi di diagnosi prenatale, ripetendo che queste cose negli Stati Uniti non succedono. Con il bambino ha reagito bene, anche se si vedeva benissimo che era un po’ delusa, secondo me soprattutto perché non potrà riempirlo di pizzi e merletti. Tutto l’entusiasmo per lo shopping si è spento all’improvviso, ha cambiato la cameretta rosa con una bianca e gli abitini con dei buoni acquisto che posso utilizzare piano piano, quando ne avrò bisogno, ma ti assicuro che al momento potrei vestire Ibai almeno fino ai quattro anni».
«Che donna!» rise la zia.
«Invece mio suocero era entusiasta che fosse un maschietto, lo teneva tutto il giorno in braccio, se lo mangiava di baci e non faceva altro che scattargli foto. Gli ha aperto persino un conto in banca per l’università! Mia suocera ha cominciato ad annoiarsi appena lo shopping è finito, e si è messa a dire che doveva tornare a casa perché aveva non so quanti impegni: è presidentessa di un paio di associazioni di signore dell’alta società e le mancava il golf, perciò ha cominciato a farci fretta sulla data del battesimo. James si è opposto perché lui ha sempre voluto battezzarlo nella cappella di San Fermín e lo sai quant’è lunga la lista di attesa in quella chiesa, non ci sono date libere prima di un anno. Ma Clarice si è presentata in cappella, ha parlato con il cappellano e dopo una generosa donazione è riuscita a prenotare il battesimo per la settimana dopo», raccontò ridendo.
«Poderoso caballero es don Dinero», citò Engrasi.
«Peccato che tu non sia potuta venire, zia».
Engrasi schioccò la lingua. «Lo sai, Amaia…»
«Lo so che non esci dalla valle…»
«Qui sto bene», disse Engrasi, e le sue parole suonarono come un dogma.
«Tutti stiamo bene qui», confermò Amaia, come assorta nei suoi pensieri.
«Da piccola riuscivo a riposare bene solo qui, in questa casa», ricordò all’improvviso Amaia. Guardava il fuoco, ipnotizzata; la voce le uscì dolce e un po’ stridula, come quando era bambina.
«A casa mia dormivo appena, non riuscivo a chiudere occhio perché dovevo rimanere sveglia e quando non ne potevo più e il sonno aveva la meglio, non era profondo né ristoratore, era il sonno dei condannati a morte, in attesa che il volto del boia si chinasse su di me perché era giunta la mia ora».
«Amaia…» sussurrò con dolcezza la zia.
«Invece, se rimani sveglia non può prenderti alla sprovvista: puoi gridare e svegliare gli altri e non potrà…»
«Amaia…» Lei distolse gli occhi dal fuoco, guardò la zia e sorrise.
«Questa casa è sempre stata un rifugio per tutti, anche per Ros, vero? Non è ancora tornata a casa sua dopo quello che è successo con Freddy».
«No, ci va spesso, ma torna sempre a dormire qui».
Si sentì un colpo leggero alla porta e Ros comparve sulla soglia togliendosi un berretto di lana tutto colorato.
«Kaixo», salutò, «fa freddo, che bello trovarvi qui!» disse togliendosi un paio di strati di vestiti. Amaia osservò la sorella, la conosceva troppo bene per non notare che era dimagrita molto e aveva perso il sorriso. Povera Ros, la preoccupazione e la tristezza malcelate erano diventate parte integrante della sua vita da così tanto tempo che quasi non ricordava più l’ultima volta che l’aveva vista davvero felice, nonostante il suo successo come direttrice della pasticceria. La sofferenza degli ultimi mesi, la separazione da Freddy, la morte di Víctor… E soprattutto il suo carattere, come se la vita a lei pesasse più che agli altri, come se fosse sempre candidata a prendere la strada più difficile.
«Siediti qui, stavo per fare il caffè», le disse Amaia facendola accomodare al suo posto, prendendola per mano e notando le unghie macchiate di bianco. «Hai pitturato?»
«Solo un paio di cosette al laboratorio».
Amaia l’abbracciò e sentì ancor di più quanto fosse magra.
«Siediti accanto al fuoco, sei tutta gelata», le raccomandò.
«Adesso vado, ma prima voglio vedere il principino».
«Non lo svegliare», sussurrò Amaia avvicinandosi. Ros la guardò con aria rammaricata.
«Ma com’è possibile? Questo bimbo dorme sempre? Quando si deciderà a rimanere sveglio per farsi coccolare dalla zia?»
«Prova a venire a casa mia tra le undici di sera e le cinque del mattino, e vedrai che non solo è sveglio, ma che la natura lo ha anche dotato di due sanissimi polmoni e di un pianto così acuto da farti saltare i timpani. Vieni pure a coccolarlo quanto vuoi».
«Certo che vengo, cosa credi, di mettermi paura?»
«Verresti una sera, e la sera dopo mi diresti di arrangiarmi».
«Donna di poca fede», la rimproverò Ros fingendosi arrabbiata. «Se viveste qui, te lo dimostrerei!»
«Allora comprati dei tappi per le orecchie, perché stanotte sei di guardia: oggi dormiamo qui».
«Accidenti», esclamò Ros facendo la faccia delusa, «proprio stasera che avevo un impegno…»
E scoppiarono a ridere.