22

L’orologio segnava le quattro e mezzo quando James la svegliò con tanti piccoli baci sulla testa. Lei sorrise riconoscendo l’aroma del caffè che le portava sempre a letto.

«Sveglia, bella addormentata, non hai più la febbre. Come stai?»

Amaia ci pensò su. Si sentiva le labbra secche e i capelli incollati alla testa come se fossero ancora bagnati, le gambe le formicolavano ancora un po’, ma per il resto si sentiva bene. Ringraziò il cielo di non aver sognato niente e sorrise.

«Sto bene, te l’avevo detto che era solo stanchezza».

James la guardò perplesso e non ribatté: sapeva per esperienza che non doveva dire niente, lei odiava le raccomandazioni eccessive. Sospirò con pazienza e le porse il caffè.

«Ha chiamato Jonan».

«Cosa? E perché non mi hai svegliato?»

«L’ho appena fatto! Ha detto che richiama tra dieci minuti».

Si sedette sul letto appoggiando la schiena alla testata di legno, che le si conficcò tra le scapole nonostante i cuscini. Prese la tazzina e bevve un sorso mentre cercava sul cellulare il numero del suo vice.

«Capo, le passo la dottoressa», rispose subito Jonan.

«Ispettrice Salazar, i capelli e la saliva combaciano con i campioni sei e undici della Guardia Civil. Nel numero sei, la corrispondenza è del cento per cento, perciò posso affermare che i capelli e l’osso appartengono alla stessa persona. Nel numero undici, la corrispondenza indica che l’osso e la saliva appartengono a due fratelli, per la quantità di alleli in comune. Speriamo di esserle stati di aiuto», concluse senza darle il tempo di rispondere e ripassando il telefono a Jonan.

«Capo, ha sentito? C’è corrispondenza! Il giudice sta già chiamando il commissario generale per informarlo. Adesso torno a Pamplona con lui e il commissario la chiamerà a momenti».

«Ottimo lavoro, Jonan. Allora ci vediamo a Pamplona», rispose sentendo il segnale di chiamata in arrivo.

«Signore».

«Ispettrice, il giudice mi ha appena informato delle sue scoperte. Abbiamo preso appuntamento quando arriva a Pamplona, più o meno tra due ore e mezzo».

«Ci sarò».

«Ispettrice, c’è una questione di cui vorrei parlarle, potrebbe venire un po’ prima?»

«Certo, sono lì tra un’ora».

Ripassò mentalmente i dati in suo possesso, immaginando che il commissario generale volesse essere messo al corrente dei fatti prima che il giudice Markina gli comunicasse la sua intenzione di aprire ufficialmente il caso. Il risultato delle analisi gettava una nuova luce sulla vicenda: altre due donne uccise dai mariti, in femminicidi apparentemente senza correlazione; entrambe avevano subito un’amputazione identica e le ossa di tutte e due erano riapparse perfettamente ripulite nella grotta di Arri Zahar. Entrambi gli aggressori erano morti, anzi per la precisione si erano suicidati dopo averle assassinate, come accadeva di frequente. Qualcuno aveva sottratto dalla scena del crimine quegli arti amputati, qualcuno che aveva lasciato impronte di denti sulle ossa come nel caso di Johana Márquez; qualcuno che si prendeva anche la briga di ammucchiare i resti delle sue vittime all’imboccatura di una grotta, come un mostro mitologico, e non aveva problemi a firmare con il suo nome e con il sangue delle vittime che i suoi servitori sacrificavano per lui. «Tarttalo», urlava dalle pareti, sfacciato e arrogante. La sua audacia era arrivata all’estremo di spedire messaggi alla polizia con un emissario come Medina, o di costringere Quiralte ad attendere il suo ritorno in servizio per confessare dove si trovava il corpo di Lucía Aguirre. E per ultimo, con un passo ancora più arrischiato e provocatorio, aveva deciso di avvicinare persino sua madre. Immaginare quei due insieme le mise i brividi.

Parlavano? Non era certa che Rosario potesse comunicare in maniera fluida, anche se di sicuro era riuscita a stilare una lista di ospiti graditi e a richiedere quell’ospite in particolare. Ci pensò su e si rese conto che quell’uomo doveva conoscerla da prima che fosse ricoverata alla Santa María de las Nieves, perché da quando era entrata in quel centro per ordine del tribunale sette anni prima, non aveva più avuto rapporti con nessuno salvo l’équipe medica e gli altri pazienti.

Un impiegato o ex impiegato della clinica non poteva essere: era impossibile che un altro collega non lo riconoscesse sotto un travestimento che non trasformava l’identità, ma voleva solo rendere più difficile una eventuale identificazione. No, doveva essere qualcuno di estraneo alla clinica o non si sarebbe arrischiato tanto, qualcuno che conosceva Rosario da prima. Ma da quanto tempo prima? Da quando Rosario si era ammalata e aveva cominciato le sue peregrinazioni per i vari ospedali? Da prima ancora? Dai tempi del Baztán? La scelta della grotta tradiva una profonda conoscenza della zona, ma c’erano centinaia di escursionisti che frequentavano quei boschi ogni anno; chiunque avrebbe potuto imbattersi nella grotta per puro caso, o magari seguendo le dozzine di percorsi segnalati che si trovavano in rete e anche sulle pagine del Comune del Baztán.

Eppure c’era qualcosa nella sua messa in scena, nella firma dei suoi delitti, nella scelta del suo nome, che parlava di una morbosa vicinanza alla valle. All’inizio aveva dato ragione a Padua, secondo cui «Tarttalo» era solo un modo per attirare l’attenzione su di sé, battezzandosi come un’altra creatura mitologica sulla scia del basajaun. Si disse che non avrebbe mai capito che gusto ci provavano i giornalisti a battezzare gli assassini con quei nomi assurdi, che in più nel caso del basajaun non poteva essere meno azzeccato. Ma si disse anche che la gente doveva pensare lo stesso dei poliziotti e del loro modo di battezzare i casi giudiziari. Però basajaun non era solo un nome poco adatto, era un errore bello e buono. Il bosco le tornò in mente con una nitidezza e una forza che le permettevano quasi di risentire la presenza serena e maestosa del suo guardiano. Sorrise. Le capitava sempre quando rievocava quell’immagine; riusciva sempre a ridarle la pace.

 

Salutò un paio di conoscenti all’ingresso e salì direttamente all’ufficio del commissario generale. Attese un istante mentre un agente in uniforme la annunciava e la faceva accomodare. Come l’ultima volta, trovò in compagnia del suo capo anche il dottor San Martín, e in questo caso la sua presenza inaspettata la mise in allarme. Salutò il suo superiore, strinse la mano al dottore e si sedette dove le indicava il commissario.

«Ispettrice, stiamo aspettando il giudice Markina per poter discutere quello che già sappiamo, ossia il fatto che secondo le analisi le ossa trovate in quella grotta del Baztán appartengono a due delle vittime di delitti di genere in cui è comparsa la stessa firma». Il com-missario indossò gli occhiali e lesse: «Tarttalo. Il giudice mi ha comunicato per telefono che intende aprire il caso. Le faccio i miei complimenti, è stato un lavoro brillante, soprattutto tenendo conto di quanto possa essere problematico riaprire casi chiusi senza creare dissapori».

Fece una pausa e Amaia pensò: «Ma…» Era la pausa tipica che precedeva un «ma», ne era certa, anche se proprio non riusciva a immaginare cosa potesse venire dopo quel fatidico «ma». Come aveva detto il commissario, il giudice avrebbe riaperto il caso, lei era il capo della Omicidi, perciò nessuno poteva avere qualcosa da eccepire, in più le prove non lasciavano dubbi in merito, anzi erano addirittura lampanti. Le famiglie di sicuro avrebbero preteso giustizia, «ma…»

«Ispettrice…» il commissario esitò, «c’è un’altra cosa, un altro aspetto estraneo al caso».

«Estraneo?» ripeté con una certa impazienza.

San Martín si schiarì la voce e lei capì al volo.

«Si tratta delle ossa trovate nelle profanazioni di Arizkun?»

«Sì», rispose il dottore.

«Appartengono anche le ultime alla mia famiglia?» chiese, mentre le tornava in mente l’immagine delle piccole fosse con la terra rivoltata.

«Ispettrice, prima di tutto ci tengo a sottolineare che date le circostanze del precedente gruppo di ossa, le analisi di queste ultime le ho eseguite personalmente; sono stato rigoroso e assolutamente rispettoso del processo sin nei minimi dettagli».

Amaia annuì riconoscente.

«Appartengono alla mia famiglia?»

San Martín guardò il commissario prima di proseguire.

«Ispettrice, conosce le percentuali di Dna che stabiliscono, per esempio, la nostra appartenenza a una famiglia? E anche in che grado la stabiliscono, intendo dire, se il parente è di primo, secondo o terzo grado?»

Lei si strinse nelle spalle.

«Sì, insomma, credo di sì: gli alleli comuni sono al 50 per cento con i genitori, al venticinque con i nonni e così via…»

San Martín annuì.

«Esatto, e ogni essere umano è unico nel suo Dna. Anche se i Dna consanguinei sono geneticamente molto simili, ci sono numerosi aspetti che ci definiscono come individui».

Amaia sospirò. Dove voleva andare a parare?

«Salazar, il Dna realizzato sulle ossa trovate ieri ad Arizkun coincide al cento per cento con il suo».

Lei rimase a guardarlo sorpresa.

«Ma non è possibile», rispose di getto, «non posso aver contaminato i campioni, non li ho neanche toccati!»

«Non sto parlando di Dna trasferito, Salazar, sto parlando dell’essenza stessa delle ossa».

«Dev’esserci un errore, qualcuno si sarà sbagliato».

«Le ho già detto che ho eseguito personalmente i test e li ho ripetuti una seconda volta con identico risultato. È il suo Dna».

«Ma…» Amaia sorrise incredula. «È evidente che quel braccio non è mio, no?» disse quasi divertita.

«Sa se ha avuto una sorella?»

«Ho due sorelle, e a nessuna delle due manca un braccio. Ma non mi ha appena detto che ogni individuo è unico? Una sorella potrebbe somigliarmi, ma non sarebbe mai identica a me, no?»

«A meno che non sia una sorella gemella».

Amaia stava per reagire d’istinto, ma si trattenne in tempo e rispose scandendo le parole con lentezza: «Non ho nessuna sorella gemella».

Ma mentre lo diceva, notò che tutto attorno a sé si scioglieva fino a diventare un denso olio nero che scivolò sulle pareti, ingoiò la luce e coprendo tutto colò dagli occhi giù sulle mani, aperte sul grembo. Una bambina che piangeva.

Una bambina che piangeva lacrime dense di paura e alzava un braccio amputato dalla spalla dicendo: «Non farti mangiare dalla mamma!» La culla identica a Juanitaenea, la bambina senza braccio che la cullava, la bambina che non smetteva mai di piangere.

La sua mente si affollò di mille ricordi notturni, in cui la bambina rimaneva silenziosa al suo fianco, identica come un riflesso nello specchio scuro del sogno. Una versione di se stessa più triste di quella reale, perché in Amaia, sotto lo strato grigio del dolore, resistevano lo spirito di sopravvivenza e una ribellione al destino che brillava come una luna d’inverno in fondo ai suoi occhi blu. Nell’altra bambina, no. Nei suoi occhi, l’unico luccichio proveniva dal suo pianto continuo, così scuro che le si riversava attorno come un’affascinante pozzanghera di giaietto. La sua vista era quasi sempre avvilente per via della rassegnazione alla condanna che trasmetteva la sua muta passività, ma a volte il pianto era talmente forte che diventava quasi intollerabile. Una notte la bambina aveva pianto con singulti che le sorgevano dal più profondo del corpicino, e in grembo teneva la Glock di Amaia, la sua pistola regolamentare, la sua àncora di salvezza. L’aveva sollevata puntandosela alla testa, come se morire fosse una sorta di liberazione. «Non farlo!» aveva gridato alla bambina in cui rivedeva se stessa, e il fantasma che portava nelle ossa aveva sollevato il braccino amputato, mostrandoglielo: «Non posso farmi mangiare dalla mamma».

 

Prese coscienza dell’ufficio, della presenza dei due uomini che la fissavano, e per un secondo ebbe il timore di essersi mostrata troppo coinvolta, come se i pensieri che le ronzavano in testa si fossero manifestati anche sul suo viso. Riprese subito il filo della conversazione con il dottor San Martín, che indicava con una penna la curva di un grafico.

«Non c’è possibilità di errore. Come vede, tutti i punti sono stati analizzati due volte, e su richiesta del commissario i campioni sono stati spediti anche al Nasertic. I risultati arriveranno domani, ma è semplicemente una formalità: le risposte saranno identiche, glielo garantisco».

«Ispettrice, il fatto che lei non sapesse di aver avuto una gemella morta alla nascita non significa niente: forse si è trattato di un evento così doloroso che i suoi genitori hanno preferito non farne parola, o forse non volevano turbarla con l’idea che la sua gemella fosse morta. Del resto, fino al 1979 non c’era l’obbligo di registrare le morti dei neonati e di solito al cimitero compariva semplicemente la scritta “Creatura abortiva”, senza specificare né il sesso né l’età stimata del feto. Pensi che a volte per le parrocchie la mancanza di battesimo era un impedimento a cui di solito si rimediava con una sepoltura privata e una bella mancia al becchino. È ovvio che l’autore di questi delitti conosce lei e la sua famiglia, e che possiede informazioni di prima mano. Come le ha detto il dottore, lo stato delle ossa indica che non sono rimaste a contatto diretto con la terra ed è probabile che provengano da un luogo stagno e secco. Dovrebbe indicarci in quale cimitero o cimiteri sono sepolti i membri della sua famiglia, per poter fare qualche passo avanti nelle indagini».

Amaia lo ascoltava sconcertata. Ci pensò su un paio di secondi, quindi annuì lentamente.

Un agente in uniforme annunciò l’arrivo del giudice e, come per una tacita decisione, il commissario e il dottore richiusero i rapporti sparsi sullo scrittoio e lo fecero accomodare.

La riunione durò un quarto d’ora scarso. Markina espose i risultati dei test, che ovviamente bisognava ripetere seguendo il canale ufficiale, e manifestò la sua intenzione di riaprire il caso. Fece i complimenti al commissario capo per la discrezione con cui era stata gestita l’indagine, e anche a una taciturna Amaia, che annuì per tutta risposta. Quando si diede per conclusa la riunione, Amaia uscì in fretta ringraziando il cielo che Markina non le avesse rivolto una delle sue solite occhiate. Jonan la aspettava in corridoio e attaccò subito a parlare tutto infervorato appena la vide.

«Capo, è fantastico, ce l’abbiamo fatta, vogliono riaprire il caso…»

Lei annuì un paio di volte, distratta, e Jonan intuì la sua preoccupazione.

«È andato tutto bene lì dentro?»

«Sì, non ti preoccupare, è un’altra cosa».

Lui attese qualche secondo, poi replicò: «Le va di parlarne?»

Arrivati alla macchina, lei si girò a guardarlo. Jonan era davvero una delle persone migliori che conoscesse: la sua preoccupazione per lei era autentica e andava al di là del puro interesse professionale. Cercò di sorridergli, ma la smorfia le restò impigliata alla bocca e non riuscì a salire fino agli occhi.

«Prima ci devo pensare, Jonan, poi te ne parlo».

Lui annuì.

«Vuole che la porti a casa? Non dobbiamo parlare se non ne ha voglia, e io potrei fermarmi all’hotel Trinkete. Non mi pare prudente lasciarla sola: ha nevicato molto e la strada non è in buono stato all’altezza del porto di Belate».

«Grazie, Jonan, ma sarà meglio che torni a casa anche tu, visto che non dormi da un bel po’. Farò attenzione e non avrò problemi a guidare, tranquillo».

Quando uscì dal parcheggio, vide Jonan ancora fermo dov’era.

La neve si ammassava ai bordi della strada, fino all’ingresso del tunnel di Belate. All’uscita, solo l’oscurità e lo scricchiolio del sale sotto le ruote dell’auto. Nella sua mente incombeva ancora la presenza dei mucchi di terra rivoltata intorno alla casa, i resti di una copertina imputridita, la culla identica a quella di Ibai nella soffitta di Juanitaenea, il candore di quelle ossa che contenevano il suo stesso Dna e non erano state a contatto con la terra. Come potevano cancellarsi le tracce di una persona? Possibile che non l’avesse mai sentita nominare? Il dottore parlava di una bambina nata a termine. Era morta alla nascita? Il braccio dimostrava che era morta? L’avevano amputato subito dopo la nascita per colpa di una malattia? Poteva essere ancora viva? Si accorse di imboccare calle Santiago e capì di aver guidato come un automa, in maniera quasi inconsapevole. Ridusse la velocità e scese verso il ponte lungo le strade deserte. Arrivata a Muniartea frenò e sentì lo scroscio assordante della chiusa. La pioggia era caduta incessante per tutto il giorno, e una presenza umida, come una tomba del Baztán, si introdusse nell’auto facendole provare all’improvviso una rabbia incontenibile per quel luogo maledetto. L’acqua, il fiume, il selciato medievale, e tutto il dolore su cui era costruito. Parcheggiò, ma per la prima volta non sentì il calore di benvenuto che la casa della zia sembrava offrirle ogni volta che entrava, accogliendola nel suo ventre amoroso.

 

Erano già tutti a letto. Prese il portatile e digitò la password. Passò alcuni minuti a consultare diversi database, e alla fine richiuse la schermata con un senso di frustrazione, spense il computer e andò al piano di sopra. Sentendo il rumore degli stivali sui gradini di legno, se li sfilò e ricominciò a salire. Esitò un istante davanti alla porta della zia, ma poi si decise a bussare. La dolce voce di Engrasi non si fece attendere.

«Zia, puoi scendere? Devo parlarti».

«Certo, tesoro», rispose preoccupata, «adesso vengo».

Esitò anche davanti alla porta di Ros, ma alla fine pensò che la sorella non poteva saperne molto più di lei.

Mentre aspettava la zia, Amaia rimase in piedi, in mezzo alla sala, con lo sguardo perduto dentro al camino, come se vi bruciasse un fuoco che solo lei poteva vedere, incapace per una volta di perdersi nella cerimonia di accenderlo.

Aspettò che la zia si sedesse alle sue spalle prima di girarsi e cominciare a parlare.

«Zia, cosa ti ricordi di quando sono nata io?»

«Io ho un’ottima memoria, ma di Elizondo non so granché. A quei tempi vivevo a Parigi e avevo perso quasi ogni contatto. Quando sono tornata, tu avevi già quattro anni».

«Ma magari l’amatxi Juanita ti ha raccontato cos’era successo mentre eri fuori, no?»

«Sì, certo, mi ha raccontato tante cose, quasi tutti i pettegolezzi, per aggiornarmi su chi si era sposato, chi aveva avuto figli o chi era morto».

«Quante sorelle ho, zia?»

Engrasi scrollò le spalle, con aria sorpresa.

«Flora e Ros…»

«L’amatxi Juanita ti ha mai detto se ero nata insieme a un’altra bambina?»

«Una gemella?»

«Esatto».

«No, non mi ha mai detto niente di simile. Perché ti viene in mente?»

Amaia non rispose e continuò a fare domande.

«E ti ha mai detto se per caso mia madre aveva avuto un aborto, una creaturina nata morta?»

«Non lo so, Amaia, ma del resto non me ne stupirei. A quei tempi, l’aborto era quasi una vergogna e le donne lo nascondevano o non ne parlavano, come se non fosse mai successo».

«Ricordi la culla identica a quella di Ibai che abbiamo visto a Juanitaenea? Quella bimba è esistita davvero, zia, e dev’essere morta appena nata, oppure è nata morta».

«Amaia, non so chi te l’abbia detto…»

«Zia, ho delle prove inconfutabili. Non posso spiegarti tutto perché appartiene a “quello che non posso raccontare”, ma so che quella bambina è esistita davvero, che è nata quando sono nata io, che era la mia gemella e che le dev’essere successo qualcosa».

Gli occhi della zia tradivano la sua perplessità.

«Non lo so, Amaia… Secondo me, se tu avessi avuto una gemella, anche se fosse nata morta, io lo avrei saputo, tua nonna lo avrebbe saputo, perché non stiamo parlando di un aborto, ma di un neonato morto, e in questo caso ci sarebbe voluto un certificato di morte e un funerale».

«È la prima cosa che ho controllato, ma non risulta nessun certificato di morte».

«A pensarci bene, tu sei nata in casa, come le tue sorelle. Era normale a quei tempi, quasi nessuna donna andava in ospedale, e dei parti si occupava il medico del paese. Sono sicura che te lo ricordi, il povero don Manuel Hidalgo, è morto già da un po’. Di solito lo assisteva la sorella, che faceva l’infermiera ed era parecchio più giovane di lui. Che io sappia, vive ancora qui nella valle. Un paio di mesi fa l’ho vista in chiesa quando si è celebrato l’anniversario del coro. Sai, da giovane cantava piuttosto bene».

«Ti ricordi per caso come si chiama?»

«Sì, Fina. Fina Hidalgo».

Amaia sospirò e fu come se con quel semplice gesto si sgretolassero le fondamenta che la sostenevano: cadde a sedere accanto alla zia, sfinita.

«È tutta la vita che la sogno, zia, fin da quando ero piccola, e mi capita ancora. Sono sempre stata convinta che quella bambina fossi io, ma adesso so che era mia sorella, la bambina con cui sono nata. Dicono che i gemelli sono quasi la stessa persona, che sono uniti da un legame speciale che permette addirittura di vedere e sentire le stesse cose. Zia, io sento il suo dolore da sempre».

«Oh, Amaia», esclamò Engrasi, coprendosi la bocca con le sue mani sottili e rugose. Un attimo dopo le allungò verso di lei e Amaia si chinò in avanti, posandole la testa sulle ginocchia.

«Lei mi parla, zia, parla nei miei sogni, e mi dice cose terribili».

Engrasi le accarezzò la testa passandole la mano tra i capelli morbidi, come aveva fatto tante volte quando era piccola. Un minuto dopo, si accorse che Amaia dormiva, ma non smise di accarezzarla; continuò a far scivolare la mano tra i suoi capelli sentendo sotto le dita il segno della cicatrice nascosta che sarebbe riuscita a trovare anche a occhi chiusi.

«Che ti hanno fatto? Che ti hanno fatto, piccola mia?»

E la sua voce si spezzò una volta ancora per il dolore e per la rabbia, mentre le mani le tremavano e la vista le si annebbiava sempre di più.