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Alle sette e mezzo aveva appena fatto giorno e, per quanto non piovesse, dense nubi si riversavano giù dai monti attorno alla valle come schiuma che trabocca da una vasca gigantesca. La vide calare dai fianchi, così densa e bianca che nel giro di mezz’ora guidare sarebbe stato una vera impresa.

Guidò in seconda lungo le stradine strette del quartiere di Txokoto, con l’idea di bere un caffè insieme a Ros prima di andare in commissariato. Passò di fronte alle vetrine oscurate e girò a sinistra per parcheggiare sul retro. Schiacciò il freno, sorpresa: sul muro principale campeggiava una grande scritta in spray nero. Ros, armata di pennello, si affannava a coprire i segni scuri in cui, nonostante il primo strato di vernice, si riusciva ancora a leggere «PUTTANA ASSASSINA».

Amaia scese dall’auto e la guardò da lontano.

«A quanto pare, Flora non è un’eroina proprio per tutti», disse, avvicinandosi senza togliere gli occhi dal muro.

«Già, pare di no», sorrise afflitta Ros. «Buongiorno, sorellina». Lasciò il pennello appoggiato sul secchio di pittura e si avvicinò per darle un bacio.

«Ti va di offrirmi uno di quei meravigliosi caffè della tua macchinetta italiana?»

«Ma certo», rispose Ros entrando nel magazzino dopo di lei.

Come faceva da quando aveva memoria, inspirò profondamente mentre entrava nel laboratorio, che quel mattino la accolse con un delicato aroma di anice.

«Oggi facciamo le ciambelle», le spiegò Ros.

Amaia non rispose nulla, l’aroma che per sempre avrebbe ricondotto alla madre le aveva momentaneamente alterato la memoria, riportandola indietro nel tempo.

«Sa di…»

Ros azionò la macchina con la polvere di caffè appena macinato e rimasero in silenzio finché non la spense.

«Scusa se non ti ho aspettato sveglia ieri sera, ma ero distrutta…»

«Non ti preoccupare. Alla fine l’unica che ha resistito è stata la zia: James e Ibai dormivano come sassi quando sono arrivata».

Amaia se ne accorse subito. Ros sollevava appena la testa dalla tazza, che teneva stretta con tutt’e due le mani di fronte al viso come un paravento dietro a cui nascondersi, mentre beveva a piccoli sorsi.

«Ros, stai bene?» le chiese guardandola fisso.

«Sì, certo, benissimo», rispose un po’ troppo in fretta.

«Sicura?» insistette.

«Non farlo».

«Non devo fare cosa?»

«Questo, Amaia, interrogarmi».

La sua reazione ravvivò ancora di più l’interesse di Amaia. Conosceva Ros, la sua sorella maggiore, quella di mezzo delle tre, quella dal cuore più tenero, quella che pareva sempre portare sulle spalle il peso del mondo e che gestiva peggio le preoccupazioni, quella che preferiva tacere e seppellire i suoi problemi sotto strati di silenzio e di trucco per cercare di camuffare le tracce della sua ansia.

I dipendenti cominciavano ad arrivare ed Ernesto, il responsabile, si affacciò alla porta dell’ufficio per dare il buongiorno. Amaia si accorse che la sorella lo fece accomodare quasi con un senso di sollievo, approfittandone al volo per mettersi a discutere di questioni esclusivamente lavorative. Così lasciò la tazza nel lavello e uscì dal laboratorio, soffermandosi comunque un istante di fronte alle passate di vernice sul muro che non riuscivano ancora a nascondere la scritta di sotto.

 

Il commissariato di Elizondo non poteva essere più incoerente con l’architettura della valle. Con le sue modernissime linee squadrate, più che stonare, sembrava un bizzarro marchingegno dimenticato sulla Terra da un alieno. Eppure Amaia doveva riconoscere l’efficacia di quell’edificio dalle grandi vetrate, che come una lente d’ingrandimento pretendevano di catturare i modesti raggi di sole dell’inverno baztanese. Salì in ascensore pianificando mentalmente la giornata e, quando le porte si aprirono al secondo piano, rimase sorpresa dall’atmosfera goliardica di cameratismo maschile con cui un gruppo di poliziotti chiacchierava accanto alla macchinetta del caffè. Il viceispettore Zabalza e l’ispettore Iriarte sembravano divertirsi un mondo insieme a Fermín Montes, che evidentemente stava raccontando una storiella molto gustosa. Passò accanto a loro senza fermarsi.

«Buongiorno, signori».

La conversazione si spense all’istante.

«Buongiorno», risposero all’unisono, e Montes la seguì fino alla porta dell’ufficio.

«Salazar». Lei si fermò. «Ha un momento?»

«Per la verità, no, Montes: tra un minuto devo uscire per indagare su un caso che stiamo seguendo», rispose, rivolgendo lo sguardo agli altri due poliziotti, che raddrizzarono la schiena sentendosi osservati. «Forse, se mi avesse avvisato prima…»

Entrò in ufficio e chiuse la porta lasciando Montes di fuori con aria offesa. All’interno, il viceispettore Jonan Etxaide stava lavorando al computer. Lei lo salutò con aria allegra.

«Che ti succede? Non ti unisci ai vichinghi alla macchinetta del caffè?»

«Non bevo mai il caffè, capo, almeno non con loro…»

Amaia lo guardò sorpresa.

«Non andate d’accordo?»

«No, non è questo, ma immagino che non si sentano del tutto a loro agio in mia presenza».

«E per quale ragione?» si incuriosì Amaia. «Non sarà per…?»

Lui sorrise.

«Certo, il fatto che io sia gay non facilita le cose, ma non credo sia per questo. In ogni caso faccia come me, non si preoccupi».

«La fedeltà ha un cuore tranquillo», citò.

«Legge Shakespeare, capo?»

Lei sospirò, fingendo sconforto.

«Negli ultimi tempi leggo solo libri di prestigiosi pediatri, educatori e psicologi infantili».

Si sentì bussare alla porta ed entrarono Iriarte e Zabalza.

«Buongiorno, signori», esordì Amaia senza tanti preamboli. «Per la giornata di oggi, solo due cose: l’ispettore e io andremo a trovare il cappellano e il parroco di Arizkun, mentre Jonan continuerà a cercare in rete chat anticattoliche e movimenti vicini agli agotes nella valle. Zabalza, lei lo aiuterà».

Si misero in piedi.

«Ah, vi ricordo che l’ispettore Fermín Montes è sospeso, perciò la sua presenza in commissariato può essere intesa solo in qualità di visitatore; allo stesso modo, vi ricordo che è strettamente proibito consentirgli l’accesso ad aree di uso professionale come archivi, armerie e via dicendo, così come fornirgli qualsiasi informazione sul caso che stiamo seguendo. Tutto chiaro?»

«Sì», annuì convinto Iriarte, mentre Zabalza arrossì fino alla punta delle orecchie e borbottò una risposta affermativa.

«Al lavoro, signori».

Il cappellano non si rivelò di grande aiuto. Affetto da una forte sordità, si fece il segno della croce almeno una dozzina di volte mentre percorreva la chiesa a passetti corti e traballanti, ma sempre rapidissimi. Iriarte si girò verso Amaia sorridendo mentre seguivano con una certa difficoltà le corsette dell’uomo, che si prodigò in smorfie di preoccupazione mostrando la sacrestia con i resti del fonte battesimale e una vecchia panca fatta a pezzi che trasudava odore di muffa. Ad Amaia vennero subito in mente i mobili della nonna Juanita.

«Guardate che orrore!» esclamò l’uomo, fissando desolato i due pezzi in un cui era stato spaccato il fonte battesimale.

Il suo viso si raggrinzì in una smorfia assurda, quasi comica, che gli rimase addosso finché non gli si riempirono gli occhi di lacrime. Sollevò la tonaca nera che gli arrivava ai piedi e frugò nelle tasche dei pantaloni alla ricerca di un fazzoletto bianco inamidato con cui asciugarsi il pianto.

«Perdonatemi», esclamò a voce troppo alta, «però non venitemi a dire che chi ha commesso un gesto simile non è un individuo senza cuore!»

Amaia guardò Iriarte e gli segnalò l’uscita con un cenno.

«Grazie», lo salutò l’ispettore, «ci è stato di grande aiuto».

«Come?» chiese l’uomo, indicandosi l’orecchio.

«Dicevo che ci è stato di grande aiuto, grazie!» urlò Iriarte; la sua voce rimbombò nella chiesa vuota.

Il cappellano annuì con gesti esagerati e Amaia si girò a guardare l’ispettore, sorridendo e scrollando le spalle per tutto quel gran chiasso.

Il vento forte aveva spazzato ogni traccia di nubi da Arizkun, uno di quei posti senza tempo che dall’alto di una collina si apre al cielo con la luce straordinaria che manca nelle altre cittadine della valle. I prati color smeraldo brillano con lo splendore idilliaco della perfezione, e le sue strade conservano sotto ogni pietra messaggi di un passato che è ancora presente. Andarono a piedi dalla chiesa alla casa del parroco, in una stradina lì accanto, e suonarono alla porta. Sentirono l’eco di un carillon attraverso il portone.

Amaia notò che accanto ai gradini del portone era rimasto il corpo secco e spiaccicato di un uccellino quasi irriconoscibile, e si chiese se fosse stata una macchina o la forza del vento a farlo schiantare a terra.

«Questo posto è bellissimo», commentò Iriarte guardando le grondaie scolpite delle case vicine, che erano il simbolo di Arizkun.

«E crudele», biascicò lei.

Una donna sui sessant’anni venne ad aprire e fece strada lungo un corridoio lucido che sapeva di cera. Padre Lokin li ricevette nel suo studio e Amaia si accorse che il colore e l’aspetto del suo viso non erano migliorati dalla riunione con il vescovo. Tese una mano tremula e fredda su cui era visibile un brutto livido sul polso infiammato.

«Oh, è emartrosi: sono emofiliaco e questo è solo uno dei miei tanti fastidi», spiegò ignorando lo scrittoio e facendoli accomodare su delle scomode poltrone in skai in una saletta attigua.

Offrì loro un caffè, che rifiutarono entrambi, e si accomodò.

Iriarte si mise accanto a lui e Amaia attese che si fossero sistemati per sedersi di fronte.

«Ditemi pure», li incoraggiò il parroco alzando le mani.

«Padre Lokin, lei ha dichiarato», disse Iriarte fingendo di consultare i suoi appunti, «che la prima aggressione, quella in cui è stato distrutto il fonte battesimale, è avvenuta diciassette giorni fa…»

Il sacerdote annuì.

«Vorrei che ritornasse a un paio di settimane prima, forse un mese, e mi dicesse se le era capitato di vedere persone estranee, sconosciute o in qualche modo sospette… che si aggiravano per la chiesa».

«Come certo già saprete, in questa città arrivano molti turisti, e ovviamente quasi tutti vengono a visitare la chiesa, che è davvero bellissima», rispose in tono orgoglioso.

«Avete eseguito ristrutturazioni negli ultimi tempi?»

«No, l’ultima riparazione l’abbiamo fatta su un cornicione dell’ala sud, ma ormai sono passati un paio d’anni».

«Ha avuto una discussione, oppure uno scambio di opinioni con qualcuno dei fedeli?»

«No».

«E con i vicini?»

«Nemmeno. State forse pensando a una vendetta personale?»

«È un’ipotesi che non possiamo scartare».

«No, siete fuori strada», ribatté guardando gelido Amaia, per quanto lei fosse rimasta in silenzio.

«Chi aiuta nelle faccende della chiesa?»

«Il cappellano, due chierichetti a turno ogni domenica, di solito i bambini del corso di catechismo, un gruppo di catechiste…» Si portò una mano alla tempia con aria assorta. «Carmen, la donna che vi ha aperto, pulisce la chiesa, si occupa dei fiori e a volte aiuta le catechiste».

«Una di queste persone è venuta a sostituire qualcun altro, che magari ha lasciato l’incarico per una ragione qualsiasi?»

«A parte il cappellano e i bambini della prima comunione, temo che tutte le altre siano donne di Arizkun che svolgono questo compito da anni. Quel che è certo», aggiunse sorridendo per la prima volta, «è che la chiesa deve molto alle donne in generale. Se non fosse per loro», concesse rivolgendosi ad Amaia in tono più conciliante, «le parrocchie non ce la farebbero a portare avanti i programmi. In effetti, qui ad Ariz…»

Amaia lo interruppe e buttò lì una domanda: «Quanti abitanti ha Arizkun?»

«Non lo so di preciso, seicento, seicentoventi all’incirca».

«E lei di sicuro conosce tutti i fedeli, giusto?»

«Esatto, in un posto così piccolo ci si conosce un po’ tutti», sorrise soddisfatto.

«Allora l’avrebbe notato se negli ultimi tempi avesse avuto dei fedeli nuovi, immagino».

Il sorriso gli si gelò in viso.

«Sì», rispose sorpreso, «ma certo».

«Ragazzi giovani, magari?» precisò Amaia.

«Uno, un giovane del posto, Beñat Zaldúa. Conosco la sua famiglia, il padre non viene a messa, è un uomo un po’ difficile, ma non lo giudico, ognuno ha il suo modo di superare il dolore. La madre invece veniva sempre a messa, ma è morta sei mesi fa, di cancro, una storia molto triste».

«E da quanto tempo viene a messa questo ragazzo?»

«Saranno un paio di mesi, ma è un bravo ragazzo, molto educato, non si mette nei guai e non si mescola con i… mi capisce, no? Altri ragazzini più… Anche se in passato non veniva a messa, dopo la prima comunione, lo vedevo sempre in biblioteca. Prende bei voti, una volta mi ha detto che vuole studiare Storia…»

«Scommetto che si siede sempre in fondo, da solo e un po’ appartato dagli altri».

Il viso di padre Lokin era più pallido del solito.

«Esatto. Come fa a saperlo?»

«E non fa mai la comunione», aggiunse Amaia.

 

Quando uscirono dalla canonica il vento infuriava per le strade frustando le facciate dei palazzi, mentre i residenti li spiavano da dietro i portoncini socchiusi. Quando furono saliti in macchina, Iriarte si decise a chiedere: «Che importanza ha che il ragazzo si sieda in fondo alla chiesa? Anch’io faccio sempre così. E magari non fa la comunione perché non si sente ancora pronto, oppure perché si vergogna. Quando si passa un po’ di tempo senza andare a messa, a volte ci si sente un po’ inibiti, no?»

Amaia lo ascoltò con occhi attenti.

«Sì, può essere come dici tu. Oppure può essere che stia ricreando un preciso momento storico, un tempo in cui gli agotes non potevano avvicinarsi all’altare, non facevano la comunione, o comunque mai insieme agli altri fedeli. Dovevano rimanere in fondo alla chiesa dietro una grata che li separava dagli altri, una grata simbolica che forse questo ragazzo sta proiettando nella sua mente».

«Pensavo che questa teoria della vendetta agote del viceispettore Etxaide non la convincesse».

«Non mi convince affatto, ma non voglio scartarla finché non ne avremo una migliore; e lei avrebbe fatto meglio a leggersi il suo rapporto al riguardo, così adesso saprebbe di cosa parlo».

Iriarte rimase qualche secondo in silenzio mentre incassava il rimprovero.

«In altre parole, il ragazzo si starebbe comportando come se fosse un agote?»

«Il ragazzo crede di essere un agote. Corrisponde perfettamente al profilo. Non va d’accordo con il padre, che Lokin ha definito una persona “difficile”, che si rifiuta di accompagnare il figlio a messa. È un ragazzo intelligente, colto e irrequieto: perfino l’interesse per la storia si inserisce alla perfezione nel quadro generale, e la morte della madre potrebbe essere stata la causa scatenante. Una città piccola come questa può essere troppo “piccola” per i sogni di un ragazzo del genere. Lo so per esperienza. La solitudine e il dolore in un adolescente sono come tamburo e percussore in una pistola».

Iriarte sembrò pensarci su.

«In ogni caso, non credo che possa aver agito da solo. È una messa in scena troppo elaborata per un ragazzino».

«Sono d’accordo: Beñat Zaldúa deve avere qualcuno da impressionare».

«E chi può voler impressionare un adolescente?»

«Una ragazza, il padre, oppure tutta la città, dimostrando quanto è furbo, ma in questo caso parleremmo di un comportamento psicopatico…» esitò Amaia.

«Vuole andarci a parlare adesso?» suggerì l’ispettore, inserendo la chiave e mettendo in moto.

«Così? Senza avere niente in mano? Se è furbo la metà di quel che credo, riusciremmo solo a farlo chiudere a riccio. Vediamo un po’ se Etxaide trova qualche informazione in rete».

Passando di fronte alla chiesa, Iriarte salutò con un cenno gli agenti di guardia dentro l’autopattuglia.

 

Cominciò a piovere forte verso mezzogiorno, e continuò per una buona mezz’ora, prima di diventare un semplice txirimiri freddo che cadeva piano, sospeso nell’aria come pulviscolo brillante. Una pioggerellina leggera che rimaneva sui cappotti come gocce di rugiada ed entrava nelle ossa portando il freddo umido dalle montagne e abbassando la temperatura di qualche grado. La casa della zia Engrasi sapeva di zuppa e pane caldo, e sebbene per la strada avesse pensato di non avere fame, il suo stomaco le diede torto cominciando a brontolare, stimolato dall’aroma che arrivava dalla cucina. Dopo aver allattato Ibai, si accomodarono al tavolo sotto la finestra e mangiarono commentando le notizie di politica del giorno.

Amaia notò la stanchezza di James.

«Perché non ti riposi un po’? Un pisolino ti farà bene, vedrai».

«Se Ibai me lo permette…»

«Vai a riposarti e non pensare al bambino, oggi pomeriggio non vado in commissariato. Me lo porto a fare una passeggiata, tanto ormai ha quasi smesso di piovere», disse guardando l’aria grigia fuori dalla finestra. «E poi, ti voglio in forma per stasera».

James sorrise senza opporre resistenza e si diresse a passi strascicati verso la scala.

«Portati l’ombrello», disse senza perdere il sorriso mentre saliva. «Mi sa che tra un po’ torna a piovere forte».

Amaia infilò Ibai in una tutina imbottita e lo mise nel passeggino, coprendolo con il parapioggia, quindi prese il cappotto e uscì di casa in compagnia di Ros, che era diretta al laboratorio. Non c’era niente da fare, Amaia continuava a vederla preoccupata: per tutto il pranzo aveva evitato il suo sguardo, cercando di mantenere un sorriso che si spegneva alla prima distrazione. Si salutarono sul ponte e Amaia rimase ferma lì finché non perse di vista la sorella.

Attraversò il ponte e salì per calle Jaime Urrutia, deserta per la pioggia e leggermente più animata solo sotto i gorapes, i portici con un paio di bar da cui uscivano calore e musica ogni volta che si aprivano le porte. Rallentò il passo osservando il visino di Ibai, inizialmente sorpreso dallo scalpiccio delle ruote sul selciato, ma adesso più rilassato e pronto a lasciarsi andare mentre la guardava con gli occhietti socchiusi per il sonno. Amaia gli toccò la guancia morbida con il dorso della mano per sentire se aveva freddo e lo coprì meglio. Camminava senza fretta, a un passo che non le era familiare, stupita di quanto fosse piacevole muoversi così, ascoltando il rumore dei tacchi sul selciato e lasciandosi cullare dall’andatura oscillante che senza volere assumeva il suo corpo.

All’altezza della piazza, si fermò un minuto di fronte al palazzo Arizkunenea, osservando i resti di antiche lapidi funerarie discoidali esposte nel cortile, che adesso, infradiciate dalla pioggia recente, sembravano più reali, come se sotto l’acqua assumessero la loro vera dimensione.

Continuò fino al Comune, e dopo essersi accertata che non la stesse guardando nessuno, passò una mano sulla botil harri, la pietra che simboleggiava il passato di Elizondo e che dotava di forza chiunque la toccasse, un gesto che aveva il potere di confortare persino lei, da sempre ostile a qualsiasi forma di superstizione. Tornò in piazza, passò di fronte alla fontana delle lamiak e si affacciò a guardare il Baztán nel punto in cui il retro delle case si riflette sulla sua superficie a specchio, come un altro mondo umido e parallelo intrappolato sotto le acque, che in quella insenatura avevano un’aria ingannevolmente tranquilla. Un gruppo di clienti usciti per ultimi dal ristorante Santxotena si appoggiarono alla ringhiera per scattarsi una foto. Attraversò la strada ed entrò nel locale. La proprietaria la riconobbe all’istante e la salutò. Era il ristorante preferito di James, e ci andavano spesso. Prenotò per due e sorrise segretamente compiaciuta quando la donna si chinò sul passeggino e ammirò quanto fosse bello Ibai. Sapeva che erano tutte frasi fatte, certo, eppure non poteva fare a meno di provare orgoglio materno e adorazione per i tratti perfetti del suo piccolo re del fiume, il suo bimbo dell’acqua.

Uscì dal ristorante e continuò a passeggiare lungo il marciapiedi verso destra, ma prima di arrivare all’agenzia di pompe funebri si fermò. Le metteva ansia passare di fronte a quel posto con Ibai, così come non l’avrebbe mai portato nella sala d’attesa di un ospedale o nella casa di un malato; passando lì di fronte, le sembrava quasi di esporre il figlio al pericolo, perché sebbene lei fosse costretta quotidianamente a trattare con le forme più orribili di fine vita, sapeva dentro di sé che doveva evitare al suo bimbo ogni minimo contatto con la morte, per banale che fosse. Scese dal marciapiedi con il passeggino e attraversò la strada per proseguire accanto al fiume, e all’altezza dell’agenzia non poté fare a meno di guardare la bacheca con gli annunci mortuari esposta ogni giorno sulla porta d’ingresso. Ricordava che da piccola chiedeva sempre alla zia, quando si fermavano lì davanti: «Perché ti fermi a leggere?»

«Per sapere chi è morto».

«E perché vuoi sapere chi è morto?»

Adesso, dal marciapiedi di fronte, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla bacheca, che da quella distanza era del tutto illeggibile. Il telefono le squillò nella tasca del cappotto, facendola sussultare.

«Jonan».

«Buongiorno, capo, ho una pista. Stamattina abbiamo trovato diversi blog in cui si parla di agotes. Perlopiù non sono molto originali, si limitano a ripetere gli stessi dati, un po’ tutti copia e incolla. Per quanto il tono generale sia di indignazione verso l’ingiustizia di cui sono stati vittima, hanno un carattere meramente storico, nulla che riveli un odio o un fanatismo attualizzato… Tranne uno. Si chiama L’ora dei cani e riporta esattamente le stesse ingiustizie degli altri, ma la differenza è che ne estende le conseguenze ai nostri giorni. È scritto sotto forma di diario e il protagonista è un giovane agote che riferisce le vessazioni di cui il suo popolo è oggetto, come se vivesse nel XVII secolo. Certi dettagli sono davvero incredibili, e qui viene il bello: ho rintracciato l’indirizzo del provider dell’autore, che si firma Juan Agote, ed è venuto fuori che è di Arizkun e il titolare è…»

«Beñat Zaldúa», lo anticipò Amaia, «lo sapevo!»

«È curioso, perché oggi come oggi non si può affermare che un cognome sia esclusivamente agote, tranne forse lo stesso “Agote”, ma Zaldúa era uno dei cognomi più comuni tra gli agotes un paio di secoli fa. Vuole che lo porti in commissariato?»

«No. Convocalo in commissariato domani mattina a un’ora ragionevole. Ah, il ragazzino è minorenne, perciò digli di venire accompagnato dal padre».

Quando spense guardò l’ora sul cellulare e digitò il numero di James, sperando che si fosse svegliato.

«Ciao, ti stavo per chiamare», rispose lui al primo squillo. «Dove siete?»

«Ibai e io siamo andati al Santxotena a prenotare un tavolo».

«Tu e Ibai avete proprio buon gusto in fatto di ristoranti».

«Ho già chiesto a Ros di badare al bimbo stasera, e mi chiedevo se ti andrebbe di uscire a cena con me».

James scoppiò a ridere.

«Sarà un piacere, e poi c’è una cosa di cui ti devo parlare, e il Santxotena sarà la cornice ideale».

«Oddio, così mi tieni sulle spine», scherzò lei.

«Pazienza, dovrai aspettare stasera».

 

Ibai aveva fatto fatica a prendere sonno, infastidito come al solito dalla poppata serale, che evidentemente digeriva molto peggio. Era buio e aveva ricominciato a piovere quando uscirono di casa, ma decisero di andare a piedi comunque. Aprirono l’ombrello e James le mise un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé e sentendola tremare sotto la stoffa del cappotto sottile che aveva scelto per quella sera.

«Non mi sorprenderei se non portassi niente sotto il cappotto».

«È una cosa che dovrai scoprire da te», rispose lei con aria maliziosa.

Il Santxotena era un locale molto accogliente, con le pareti color lampone e uno stile rurale accurato ed elegante. Si notava già dall’esterno, dalle finestre, con le imposte dipinte e i vasi fioriti tutto l’anno, come in una casetta delle favole. Gli diedero un tavolo da dove si riusciva a intravedere un angolo della cucina, da cui provenivano attutiti i brusii e gli aromi propri della buona tavola.

Sotto il cappotto, Amaia portava un vestito nero che risaliva a prima di Ibai. Sapeva che le stava a pennello e che James lo adorava, e indossarlo di nuovo la fece sentire bene. Cos’avrebbe detto il giudice Markina a vederla vestita così? Scacciò quel pensiero, rimproverandosi di averlo concepito.

James sorrise non appena la vide.

«Sei bellissima, Amaia».

Lei si sedette sentendosi addosso non solo gli occhi di James. La cameriera prese le ordinazioni: asparagi caldi con crema di spinaci per entrambi e, come sempre, merluzzo in salsa di aragosta per James, mentre lei scelse una rana pescatrice alla piastra con le vongole. James sollevò il calice di vino, guardando con disgusto il bicchiere d’acqua della moglie.

«È un peccato che tu non possa bere neanche un goccio di vino per via delle poppate».

Lei ignorò il commento e bevve un sorso.

«Bene, si può sapere cosa mi dovevi dire? Mi fai preoccupare».

«Oh, sì», disse lasciando affiorare il suo entusiasmo. «Volevo parlarti di una cosa che mi frulla in testa da un po’. Da quando sei rimasta incinta siamo venuti a Elizondo sempre più spesso e adesso, con Ibai, credo che capiterà ancora più di frequente. Lo sai quanto mi piace il Baztán, e quanto mi piace stare con la tua famiglia, perciò mi sono detto che forse dovremmo comprare casa qui, a Elizondo».

Amaia sgranò gli occhi sconcertata.

«Hai proprio ragione, questa sì che non me l’aspettavo… Vuoi trasferirti a vivere qui?»

«No, certo che no, Amaia, mi piace vivere a Pamplona, adoro la nostra casa, e Pamplona è perfetta sia per il tuo lavoro che per il mio laboratorio di scultura. E in più, lo sai quanto ci tengo alla nostra casa di Mercaderes».

Lei annuì sollevata.

«No, parlo di avere una seconda casa qui, una casa tutta nostra».

«Possiamo stare a casa della zia ogni volta che vogliamo, lo sai che per me è come una madre e da lei mi sento a casa».

«Lo so, Amaia, lo so cosa significa e significherà sempre per te quella casa, ma una cosa non esclude l’altra. Se avessimo una casa qui, potremmo adattarla alle necessità di Ibai, fare una cameretta tutta per lui, avere le sue cose a portata di mano e non dover portare sempre avanti e indietro mille cianfrusaglie. E poi, appena sarà più grandicello, avrà bisogno di spazio per i suoi giochi…»

«Non lo so, James, non so se mi va».

«Ne ho parlato con tua zia e lei mi è sembrata d’accordo».

«Questa sì che è bella», disse lei posando la forchetta sul tavolo.

«In realtà», proseguì lui sorridendo, «è stata lei a convincermi quando mi ha parlato di Juanitaenea».

«La casa della nonna», sussurrò Amaia sinceramente stupita.

«Sì».

«Ma, James, sono anni che è chiusa, da quando la nonna è morta, e io a quei tempi avevo solo cinque anni: come minimo sarà in rovina», ribatté lei.

«No, non è così. Tua zia mi ha detto che avrà bisogno di una bella ristrutturazione, certo, ma i muri, il soffitto e i camini sono in perfetto stato; in questi anni tua zia ha sempre provveduto alla manutenzione di base».

Amaia ripercorse mentalmente le stanze, che ricordava enormi, il camino in cui riusciva a stare in piedi da bambina, e quasi sentì sulla punta delle dita la superficie liscia dei robusti mobili lucidati con gommalacca e della sovracoperta in satin di seta granata sul letto della nonna.

«Secondo me, sarebbe bello per Ibai trascorrere una parte dell’infanzia qui e sarebbe molto speciale se potesse farlo nella casa appartenuta alla sua famiglia».

Amaia non sapeva cosa rispondere. In casa della zia si era sempre sentita in salvo, ma con Elizondo aveva ancora dei conti in sospeso. Era vero che da qualche mese fare ritorno nel Baztán aveva perduto gran parte della pesantezza di un tempo, e sapeva che non era solo perché aveva confessato a James cosa le era capitato quando aveva nove anni. Sapeva che soprattutto tornava ad alimentare in qualche modo il vincolo che l’aveva legata al signore del bosco, qualcosa che palpitava nel dvd dentro la cassaforte e che non aveva più rivisto da quella prima volta insieme agli esperti di orsi in una stanza dell’hotel Baztán. A volte, quando apriva la cassaforte per mettere via la pistola, accarezzava quel disco con la punta delle dita, e l’immagine degli occhi ambrati di quella creatura tornavano a materializzarsi di fronte a lei quasi fossero reali. E bastava rievocare quel ricordo perché qualsiasi dubbio o timore scomparisse come per magia. Sorrise sovrappensiero.

«Amaia, sono cose a cui non si pensa finché non nasce un bambino. Lo sai che sono felice a Pamplona e che non tornerei mai a vivere negli Stati Uniti, ma adesso che c’è Ibai, so che se vivessi lì vorrei che conoscesse le sue radici, il posto da cui proviene la sua famiglia, e se potessi legarlo il più possibile alla sua essenza, non esiterei a farlo».

Amaia lo guardò estasiata.

«Non sapevo che la pensassi così, James, non mi avevi mai detto niente di simile, ma se è questo che vuoi, possiamo visitare l’America quando il bimbo sarà un po’ più grande».

«Ci andremo, Amaia, ma io non voglio vivere lì, te l’ho già detto che voglio vivere qui dove sto, ma abbiamo l’immensa fortuna che le tue radici siano a cinquanta chilometri da Pamplona, eppure chiunque direbbe che si tratta di un altro mondo… E poi, Amaia», aggiunse sorridendo, «un casolare… Lo sai che adoro l’architettura del Baztán. Mi piacerebbe avere una casa qui: ristrutturarla e arredarla potrebbe essere un’avventura meravigliosa. Dimmi di sì», la pregò.

Lei lo guardò commossa e deliziata dal suo entusiasmo.

«Dimmi almeno che andremo a vederla, la zia ha promesso di accompagnarci domani».

«Domani? Sei un delinquente, lo siete tutti e due, tu e mia zia!» esclamò fingendosi arrabbiata.

«Ci andiamo?» ripeté lui.

Lei annuì sorridendo.

«Delinquente!»

Lui si sporse sul tavolo e la baciò sulla bocca.

 

Quando uscirono dal ristorante, la pioggerellina sottile che cadeva senza sosta sin da mezzogiorno sembrava essersi insediata definitivamente su Elizondo, senza alcuna voglia di smettere. Amaia inspirò l’aria umida e pensò a quanto avesse odiato quella pioggia nella sua infanzia, a quanto le fossero mancati i cieli azzurri e limpidi dell’estate, che sembrava sempre così breve e lontana nel Baztán. Era arrivata a detestare tanto quella pioggia che poteva ricordare pomeriggi interi passati a fissarla dietro i vetri che si appannavano con il fiato e che lei ripuliva coprendosi il pugno con la manica del golf, mentre sognava di fuggire via di lì, di scappare per sempre da quel posto.

«Che freddo!» esclamò James. «Su, torniamo a casa!»

Amaia tremò dentro il cappottino, ma anziché dirigersi verso le strade interne si soffermò un istante come ipnotizzata da un richiamo e cambiò direzione.

«Aspetta un attimo», disse.

«Ma si può sapere dove stai andando?» le chiese James inseguendola, mentre cercava inutilmente di coprirla con l’ombrello.

«Ci metto un minuto, voglio solo vedere una cosa», rispose, fermandosi davanti alla bacheca dei necrologi dell’impresa funebre Baztán, ormai chiusa e a luci spente.

Si allontanò quel tanto che consentiva alla luce del lampione alle sue spalle di illuminare il necrologio che aveva attirato la sua attenzione da lontano quel pomeriggio. Adesso capiva la ragione. Le figlie avevano scelto la stessa fotografia che ricordava di aver visto nell’ingresso di casa, quella in cui Lucía Aguirre appariva sicura e sorridente con lo stesso golf a righe che indossava al momento della morte. Senza dubbio uno dei suoi indumenti preferiti, uno di quelli con cui ti senti bene, che scegli per posare in foto, che indossi per farti bella con un uomo. Un indumento allegro e vistoso che non era pensato per morire, né per diventare il sudario con cui si sarebbe mostrato il proprio fantasma. La fotografia era inconfondibile, eppure lesse i dati due volte: Lucía Aguirre, cinquantadue anni, le sue figlie Marta e María, i suoi nipoti e il resto della famiglia, persino la parrocchia di Pamplona a cui apparteneva. Ma che ci faceva laggiù un necrologio di Lucía Aguirre?

Toccò il cellulare nella tasca del cappotto, dove aveva memorizzato il telefono di una delle figlie, chissà chi delle due. Guardò l’ora e pensò che era tardi, ma non si trattenne e chiamò comunque.

«Ispettrice Salazar?» rispose una donna giovane, che evidentemente aveva il suo numero memorizzato.

«Buonasera, Marta», azzardò. «Scusami se ti chiamo così tardi, ma ho una domanda da farti».

«Non si preoccupi, stavo guardando la tele. Mi dica pure».

«Mi trovo a Elizondo, e ho visto che nella bacheca dell’impresa funebre Baztán c’è il necrologio di vostra madre. Mi puoi spiegare come mai?»

«Sa, anche se mia madre ha vissuto a Pamplona sin da piccola, in realtà è nata nel Baztán, ma se non sbaglio è venuta a vivere in città con i nonni verso i due anni. Mio nonno è morto quando lei era giovane, mentre mia nonna è molto anziana ed è ricoverata in una casa di riposo, e aveva una sorella che ha vissuto anche lei qui ed è morta ormai da otto anni. Non abbiamo altri parenti, ma ci è sembrata la cosa più giusta da fare. Ricordo che quando era morta sua zia, mia madre si era occupata di tutte le pratiche del funerale e aveva ordinato un necrologio anche nel Baztán, sa com’è, abitudini di paese, nel caso qualcuno si ricordi ancora della famiglia…»

«Grazie, Marta, fai le mie condoglianze anche a tua sorella e scusami per il disturbo».

«Ma si figuri, siamo in debito con lei».