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Inmaculada Herranz era una di quelle donne che si guadagnano la fiducia degli altri mostrandosi sempre affabili e servizievoli. Di fisico insignificante e modi così trattenuti da sembrare una geisha brutta, la voce dolce e gli occhi socchiusi camuffavano occhiate torve quando qualcosa la infastidiva. Ad Amaia non riusciva a piacere a dispetto, o forse proprio a causa, della sua compostezza innaturale. Per sei anni era stata la zelante e ossequiosa assistente personale della giudice Estébanez, che tuttavia non aveva esitato a disfarsene quando le avevano offerto la promozione alla Corte Suprema, sebbene Inmaculada non fosse sposata e non avesse famiglia.
L’iniziale delusione di Inmaculada si era trasformata in entusiasmo quando il giudice Markina aveva occupato il posto libero e richiesto i suoi servigi in qualità di segretaria personale grazie alla sua precedente esperienza come assistente di un giudice. Certo, era stata costretta a spendere una parte del suo stipendio in vestiti e profumo al semplice scopo di attirare l’attenzione del nuovo giudice, ma in fondo non era l’unica. Anzi, scherzavano tutti sull’abuso di rossetti e parrucchiere da quando si aggirava per le aule del tribunale il giudice Markina.
Amaia aveva digitato il numero del tribunale mentre si dirigeva alla macchina e cercava nelle tasche della giacca un paio di occhiali da sole con cui ripararsi dai riflessi di luce dentro le pozzanghere.
«Buonasera, Inmaculada», rispose all’istante quando sentì la voce melliflua della segretaria, «sono l’ispettrice Salazar della Omicidi. Vorrei parlare con il giudice Markina, per favore».
La freddezza del suo tono di disapprovazione suonò strana.
«Sono le due e mezza, e come potrà immaginare il giudice Markina non è in ufficio».
«Lo so benissimo che ora è, sono appena uscita da un’autopsia di cui il giudice Markina sta aspettando i risultati: è stato lui a chiedermi di chiamarlo…»
«Capisco…» rispose la donna.
«Mi stupisce che se ne sia dimenticato. Sa per caso a che ora torna?»
«No, oggi non torna, ma non se ne è dimenticato affatto». Fece passare un paio di secondi prima di aggiungere: «Le ha lasciato un numero di telefono a cui può trovarlo».
Amaia attese in silenzio, sorridendo divertita della goffa ostilità della segretaria. Sospirò sonoramente per far notare che stava perdendo la pazienza, e chiese: «Allora, Inmaculada, intende darmelo o devo richiedere un’ordinanza del tribunale? Ah, no, aspetti, ho già l’ordine di un giudice».
La donna non commentò, ma anche attraverso il telefono riuscì a immaginarsela mentre stringeva le labbra e socchiudeva gli occhi in quel gesto da suora tipico delle donne pavide come lei. Recitò il numero una volta sola e riagganciò senza salutare.
Amaia guardò il telefono stupita. «Alla faccia della santarellina!» pensò. Compose il numero di corsa e aspettò.
Il giudice Markina rispose all’istante.
«Immaginavo che fosse lei, Salazar, vedo che la mia segretaria le ha lasciato il mio messaggio».
«Mi dispiace disturbarla fuori dall’orario di ufficio, vostro onore, sono appena uscita dall’autopsia di Lucía Aguirre, ed esistono indizi, a mio avviso sufficienti, per aprire un’indagine. Il rapporto del medico legale non lascia dubbi e possiamo contare su una nuova pista».
«Mi sta chiedendo di riaprire il caso?» esitò il giudice.
Amaia si costrinse ad agire con prudenza.
«Non pretendo certo di dirle come deve fare il suo lavoro, ci mancherebbe, ma gli indizi suggeriscono una nuova linea d’indagine pur nel rispetto della precedente. Né noi né il medico legale abbiamo alcun dubbio circa la colpevolezza di Quiralte, ma…»
«Va bene», la interruppe il giudice, con un tono che tradiva interesse. «Venga a spiegarmelo di persona, e non si dimentichi di portare il rapporto dell’autopsia».
Amaia guardò l’ora e chiese: «Oggi pomeriggio torna in ufficio?»
«No, sono fuori città, ma stasera alle nove sono a cena al Rodero: se passa di lì, ne parliamo».
Chiuse la telefonata e guardò di nuovo l’ora. Per le nove avrebbe già avuto il rapporto del medico legale, ma James avrebbe dovuto partire un po’ prima con Ibai se volevano arrivare a Elizondo a un’ora ragionevole per il bimbo. Lei li avrebbe raggiunti dopo la riunione con il giudice. Sospirò salendo in macchina con un unico pensiero: se si sbrigava, faceva in tempo per la poppata delle tre.
Ibai piagnucolava alternando lacrime ad ansimi e gridolini per esprimere il suo disappunto, ma tra una protesta e l’altra succhiava con violenza il biberon che James lottava per infilargli in bocca mentre lo teneva in braccio. Sorrise con aria desolata non appena la vide.
«Sono venti minuti che gli do il latte, ma sono riuscito a fargli bere solo venti millilitri…»
«Vieni con l’amá, maitia», disse lei aprendo le braccia mentre James le porgeva il bimbo. «Ti sono mancata, amore mio?» aggiunse baciandogli il visino, mentre sorrideva sentendo che Ibai le succhiava il mento. «Oh, tesoro, mi dispiace, l’amá ha fatto tardi, ma adesso sono qui».
Si accomodò su una poltrona avvolgendolo tra le braccia, e durante la successiva mezz’ora non ebbe occhi che per lui. Placata l’agitazione iniziale, Ibai era tornato tranquillo, mentre Amaia gli accarezzava la testolina e gli sfiorava i lineamenti perfetti con l’indice, osservando ipnotizzata gli occhi così limpidi e brillanti che la scrutavano a loro volta con un attaccamento e una passione riservati solo agli amanti più audaci.
Quando ebbe finito di allattarlo lo portò nella cameretta che Clarice aveva arredato per lui, gli cambiò il pannolino riconoscendo a malincuore che i mobili erano comodi e funzionali, anche se il bimbo continuava a dormire nella stanza matrimoniale insieme a loro, e dopo lo tenne un po’ in braccio cantandogli una ninna nanna finché il piccolo non si addormentò.
«Non va bene che si abitui ad addormentarsi così», le sussurrò alle spalle James. «La cosa migliore sarebbe lasciarlo nella sua culletta perché si rilassi e impari ad addormentarsi da solo».
«Avrà tutta la vita per farlo», rispose lei, un po’ brusca. Poi ci pensò su e addolcì il tono. «Lascia che lo vizi, James, lo so che hai ragione, ma il fatto è che mi manca tanto… e forse spero che anche lui senta la mia mancanza».
«Ma certo che gli manchi, che sciocchezze», la rassicurò prendendo il bambino addormentato dalle sue braccia per depositarlo nel lettino. «Manchi anche a me, Amaia».
I loro sguardi si incrociarono, e per un paio di secondi fu sul punto di avvicinarsi a lui, di stringersi in quell’abbraccio che con il tempo era diventato il simbolo indiscutibile della loro unione, del loro amore reciproco. Un abbraccio in cui aveva sempre trovato rifugio e comprensione. Ma fu solo questione di un paio di secondi. Un sentimento di frustrazione si impossessò di lei. Era stanca, non aveva mangiato, veniva da un’autopsia… Per l’amor di Dio, doveva correre da un punto all’altro della città, le restava a malapena il tempo di stare con il figlio, e tutto quello che aveva da dirle James era che gli mancava. Lei si mancava a se stessa, figuriamoci! Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva avuto cinque minuti tutti per sé. Lo odiò per quel suo atteggiamento da cane bastonato. Questo modo di fare non era di nessun aiuto, no di certo. Uscì dalla stanza sentendosi irritata e ingiusta insieme. James era un tesoro, un buon padre e l’uomo più comprensivo che una donna potesse desiderare, ma era un uomo, ed era lontano un milione di anni luce dalla possibilità di comprendere come si sentisse lei, e questo la mandava su tutte le furie.
Entrò in cucina, sentendoselo alle spalle ed evitando di guardarlo mentre si preparava un caffè macchiato.
«Hai mangiato? Vuoi che ti prepari qualcosa?» propose lui, dirigendosi verso il frigorifero.
«No, James, non serve», rispose sedendosi con la sua tazza di caffè a capotavola e indicandogli di fare altrettanto. «Senti, James, il giudice che si occupa del caso su cui sto lavorando mi ha fissato una riunione improrogabile stasera tardi, quando avrò il rapporto dell’autopsia. È davvero importante…»
Lui annuì.
«Possiamo anche andare domani a Elizondo».
«No, voglio essere lì di mattina, e saremmo costretti a partire all’alba, così ho pensato che potresti iniziare a salire con Ibai e vi sistemate a casa della zia con tutta tranquillità. Io gli do una poppata prima che partiate e faccio in modo di arrivare per quella successiva».
James si morse il labbro superiore con un’espressione familiare che assumeva quando si sentiva contrariato.
«Amaia, vorrei parlarti proprio di questo…»
Lei lo fissò in silenzio.
«Secondo me la schiavitù di orari imposti dall’allattamento naturale…» si vedeva che stava cercando le parole più adatte, «non è molto compatibile con il tuo lavoro. Forse è arrivato il momento di smettere l’allattamento al seno e passare al biberon».
Amaia guardò il marito e avrebbe tanto voluto poter dare forma a tutto quello che le ribolliva dentro. Ci provava, ci provava con tutte le sue forze, voleva farlo e voleva farlo bene, per Ibai, ma soprattutto per se stessa, per la bambina che era stata, per la figlia di una madre cattiva. Voleva essere una buona madre, aveva bisogno di essere una buona madre, doveva esserlo, perché altrimenti sarebbe stata cattiva, una madre cattiva come la sua stessa madre. E all’improvviso si ritrovò a chiedersi quanto di sua madre ci fosse dentro di lei. Quella frustrazione non era per caso il segno che qualcosa non andava bene? Dov’era la felicità promessa nei libri sulla maternità? Dov’era l’ideale di realizzazione che doveva provare una madre? Perché sentiva solo stanchezza e un senso di fallimento?
Ma anziché tutto questo, riuscì solo a dire: «Facevo già questo mestiere quando mi hai conosciuto, James, sapevi che ero poliziotta e che lo sarei stata sempre, e ti è andato bene. Se credevi che per colpa del mio lavoro non sarei riuscita a essere una brava moglie o una brava madre, avresti dovuto pensarci prima». Si alzò, lasciò la tazza nel lavello e passandogli accanto aggiunse: «Comunque lo sai benissimo: questo è un matrimonio, non una condanna all’ergastolo, perciò se non ti sta più bene…» E uscì dalla cucina.
Sul viso di James si dipinse una smorfia di incredulità. «Santo cielo, Amaia, non essere così drammatica!» esclamò alzandosi e inseguendola lungo il corridoio.
Lei si girò con un dito sulle labbra.
«Così svegli Ibai!» E si chiuse in bagno lasciando James che scrollava incredulo la testa in mezzo al corridoio.
Non riuscì a prendere sonno e trascorse le due ore seguenti a rigirarsi nel letto, cercando invano di rilassarsi mentre sentiva il rumore del televisore che James guardava in sala.
Si stava comportando da arpia, lo sapeva benissimo, sapeva che era ingiusta con lui, ma non poteva evitare di pensare che in un certo senso se lo meritava, perché non riusciva a essere più… più cosa? Comprensivo? Affettuoso? Non sapeva di preciso che cosa poteva chiedergli, però si sentiva male dentro, e in qualche modo sperava che lui non semplificasse tanto le cose, che fosse capace di sollevarla, di confortarla, ma soprattutto di capirla. Avrebbe dato l’anima perché lui la comprendesse, perché intuiva che doveva essere così. Allungò la mano fino a toccare la parte vuota del letto e tirò verso di sé il cuscino, affondandoci la testa per ritrovare l’odore di James. Perché sbagliava sempre tutto? Avrebbe voluto andare da lui… dirgli… dirgli… non sapeva bene che cosa, forse che le dispiaceva.
Uscì dal letto e camminò a piedi nudi sui listoni di quercia, che scricchiolarono sotto il suo peso. Si affacciò alla porta della sala e vide che James dormiva su un fianco, illuminato dal bagliore dello schermo televisivo, mentre la luce naturale si era spenta già da tempo. Osservò il suo viso rilassato, riflesso sullo schermo. Si mosse verso di lui, ma si fermò all’improvviso. Aveva sempre invidiato la sua capacità di addormentarsi in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, ma adesso chissà perché il semplice fatto che gli fosse capitato quando in teoria avrebbe dovuto essere preoccupato almeno quanto lei… che diavolo, avevano avuto una discussione, forse la più grave da quando si conoscevano, e lui si addormentava beato neanche fosse appena uscito da un centro benessere. A due milioni di anni luci di distanza. Guardò l’ora: c’erano ancora tantissime cose da preparare per Ibai prima di andare a Elizondo. Uscì dalla sala e mentre si allontanava lungo il corridoio chiamò: «James».
Dopo aver caricato la macchina come se dovessero scalare l’Everest anziché trascorrere un paio di giorni a cinquanta chilometri da casa, e aver ripetuto a James una decina di indicazioni su Ibai, i suoi vestitini, quello che doveva mettergli per evitare che avesse freddo o che sudasse, baciò il bimbo, che la guardò tutto tranquillo dal suo seggiolone, dopo la poppata. Aveva dormito tutto il pomeriggio e di sicuro sarebbe rimasto sveglio durante il viaggio, ma non avrebbe pianto. Gli piaceva andare in macchina: il brusio leggero del motore e la musica che gli metteva James, forse un po’ troppo alta, gli andavano a genio, e non avrebbe fatto storie.
«Arrivo prima della prossima poppata».
«Va bene, altrimenti gli do il biberon», rispose James, al volante.
Lei fu tentata di ribattere ancora, ma non aveva voglia di rimettersi a discutere, non voleva che si lasciassero di cattivo umore, cercava di evitarlo anche per superstizione. Era una poliziotta, aveva visto troppe volte le reazioni dei parenti di fronte alla perdita di una persona cara. Il dolore era molto più forte se per caso al momento della morte ci si era allontanati per colpa di una discussione, il più delle volte una sciocchezza, che tuttavia da quel momento in poi si trasformava in una sentenza. Si chinò sul finestrino aperto e baciò timidamente James sulle labbra.
«Ti amo, Amaia», disse lui, e lo disse come un avvertimento, mentre la guardava negli occhi e metteva in moto la macchina.
«Lo so», si disse lei facendo un passo indietro, «e faccio la pace solo perché non sopporterei che morissi in un incidente quando sei arrabbiato con me». Alzò la mano in un saluto che lui non vide e, pentita, incrociò le braccia sul petto, cercando di mitigare la desolazione. Rimase sul marciapiedi finché non perse di vista i fari rossi dell’auto, che procedeva lentamente lungo la strada, a quell’ora ancora pedonale salvo per i residenti.
Gelata dal freddo di Pamplona, entrò in casa lanciando uno sguardo alla busta che aspettava in ingresso, portata un’ora prima da un agente, e desiderando più di ogni altra cosa un bel bagno caldo. Davanti allo specchio notò le occhiaie scure sotto gli occhi e i capelli biondi che sembravano paglia secca. Non ricordava neppure l’ultima volta che era andata dal parrucchiere. Guardò l’ora e sentì crescere la rabbia mentre rimandava a tempi migliori l’anelato bagno ed entrava in doccia. Lasciò scorrere l’acqua calda mentre il cristallo del box si appannava per il vapore e lei non vide più nulla. Allora scoppiò a piangere e fu come se una diga si fosse rotta dentro di lei e una marea minacciasse di affogarla da dentro. Le lacrime si mescolarono all’acqua, che le scivolava quasi bollente sul viso, e si sentì allo stesso tempo sfortunata e incapace.
Il ristorante Rodero era abbastanza vicino casa. Quando cenava lì con James, di solito andavano a piedi per non doversi preoccupare dell’auto se bevevano un po’ di vino, ma questa volta preferì usare la macchina per poter partire per Elizondo non appena avesse finito di parlare con il giudice. Parcheggiò a spina di pesce di fronte al parco della Media Luna e attraversò la strada per imboccare i portici in cui si trovava il ristorante. Le grandi vetrine illuminate e la decorazione sobria della facciata facevano da corredo all’eccellente cucina che era valsa al Rodero una stella sulla guida Michelin. Il pavimento di legno scuro, come le sedie di ciliegio dallo schienale imbottito, contrastavano con i pannelli color beige che arrivavano fino al soffitto, mentre le tovaglie e le stoviglie candide aggiungevano assieme agli specchi una nota di luce accentuata dalle decorazioni floreali che galleggiavano dentro coppe di cristallo adagiate sui tavoli.
Una cameriera venne a riceverla non appena ebbe varcato la soglia e si offrì di prenderle il cappotto, ma Amaia rifiutò.
«Buonasera, ho appuntamento con una persona. Posso avvisarla?»
«Sì, certo».
Esitò un istante, non sapeva se il giudice usasse il suo titolo al di fuori dell’ambito lavorativo.
«Il signor Markina».
La ragazza sorrise.
«Il giudice Markina la sta aspettando, mi segua, prego», ribatté guidandola verso il fondo del locale.
Oltrepassarono la saletta in cui Amaia aveva immaginato che avrebbero parlato e le indicò uno dei tavoli migliori del ristorante, accanto alla libreria dello chef, con cinque sedie attorno ma apparecchiato solo per due. Il giudice Markina si alzò per salutarla, porgendole la mano.
«Buonasera, Salazar», disse, sorvolando sul titolo.
Ad Amaia non sfuggì lo sguardo di apprezzamento che la cameriera rivolse al bel giudice.
«Si accomodi, la prego», la invitò lui.
Amaia guardò incerta la sedia che lui le indicava. Non le piaceva sedersi di spalle alla porta (una mania da poliziotta), ma alla fine si rassegnò ad accomodarsi di fronte a Markina.
«Vostro onore », esordì, «mi dispiace disturbarla…»
«Nessun disturbo, purché accetti di farmi compagnia. Io ho già ordinato, e mi sentirei a disagio a cenare mentre lei mi guarda».
Il suo tono non ammetteva replica, e Amaia si sentì sconcertata.
«Ma…» replicò indicando l’altro piatto apparecchiato sul tavolo.
«Sì, è per lei. Le ho già detto che detesto mangiare mentre qualcuno mi guarda, no? Mi sono preso questa libertà. Spero che non le dia fastidio», disse, anche se dal suo tono era evidente che per lui faceva esattamente lo stesso. Studiò i suoi gesti mentre apriva il tovagliolo per metterlo sulle gambe.
Ecco da dove proveniva l’ostilità della segretaria, riusciva quasi a vederla mentre prenotava per due quel mattino con la sua voce melliflua e le labbra tese come il taglio di un’ascia. Ripensando alle parole di Inmaculada, si rese conto che il giudice le aveva chiesto di prenotare per due ancora prima che lei lo chiamasse con il referto del medico legale. Sapeva che doveva telefonargli subito dopo l’autopsia, e aveva predisposto quella cena in anticipo. Si chiese da quanto fosse prenotato quel tavolo e se il giudice si trovasse davvero fuori città a mezzogiorno. Non c’era modo di scoprirlo. Magari invece il giudice aveva prenotato il tavolo solo per uno, e al suo arrivo aveva semplicemente chiesto di aggiungere un coperto.
«Non ci metto molto, vostro onore, così potrà cenare in santa pace. Se per lei va bene, comincio subito».
Estrasse dalla borsa una cartellina marrone e la posò sul tavolo, nello stesso istante in cui un cameriere si avvicinava con una bottiglia di Chardonnay navarro.
«Chi assaggia il vino?»
«La signorina», rispose il giudice.
«Signora», lo corresse lei, «e non prendo vino, devo guidare».
Il giudice sorrise.
«Acqua per la signora e il vino solo per me, temo».
Quando il cameriere si fu allontanato, Amaia aprì la cartellina.
«Metta via», protestò il giudice, infastidito. «La prego», aggiunse in tono più conciliante, «non potrei toccare cibo dopo aver visto quella roba». Sorrise con aria di circostanza. «Ci sono cose a cui è impossibile abituarsi».
«Vostro onore…» protestò lei.
Il cameriere servì due piatti con un pacchetto color oro decorato con germogli e foglioline sui toni del verde e del rossiccio.
«Tartufi e funghi in crosta d’oro. Buon appetito, signori», disse ritirandosi.
«Vostro onore…» protestò di nuovo Amaia.
«Mi chiami Javier, la prego».
La rabbia di Amaia cresceva sempre più, mentre si sentiva vittima di un agguato, un appuntamento al buio pianificato nel dettaglio in cui quel cretino si era persino permesso di ordinare per lei, e adesso voleva che lo chiamasse per nome, figurarsi!
Amaia fece per alzarsi dalla sedia.
«Vostro onore, sarà meglio parlare più tardi, quando lei avrà finito di cenare. Nel frattempo, la aspetto fuori».
Lui sorrise, e il suo sorriso sembrava sincero e colpevole insieme.
«Salazar, non si senta a disagio, la prego, non conosco ancora molta gente a Pamplona, adoro la buona cucina e vengo qui spesso. Non chiedo mai il menu, lascio che Luis Rodero decida cosa propormi, ma se il suo piatto non le piace, posso chiedere di portarle il menu. Siamo due professionisti in riunione, ma questo non deve impedirci di goderci una buona cena, no? Si sarebbe sentita più a suo agio se ci fossimo incontrati in un McDonald’s davanti a un hamburger? Io no di certo».
Amaia lo guardava indecisa.
«Mangi, per favore, e intanto mi riferisca le ultime novità sul caso. La prego solo di tenere le foto per dopo».
Amaia era affamata: non aveva mandato giù niente di solido dall’ora di colazione – come del resto faceva ogni volta che doveva assistere a un’autopsia – e l’aroma dei funghi e del tartufo racchiusi sotto la crosticina croccante strappava lamentosi brontolii al suo stomaco.
«Va bene», accettò. Se voleva mangiare, d’accordo, avrebbero mangiato, ma a tempo di record. Consumarono in silenzio la prima portata mentre Amaia si accorgeva di quanta fame avesse.
Il cameriere ritirò i piatti e li sostituì con altri due.
«Zuppa perlata con molluschi, crostacei e alghe», annunciò prima di ritirarsi.
«Una delle mie passioni», esclamò Markina.
«Sono d’accordo», commentò lei.
«Viene spesso in questo ristorante?» chiese il giudice, cercando di nascondere la sorpresa.
Cretino e presuntuoso, pensò lei.
«Sì, ma di solito scegliamo un tavolo più discreto».
«A me piace questo, guardare…»
Ed essere guardato, concluse tra sé Amaia.
«… guardare la biblioteca», precisò il giudice. «Luis Rodero possiede alcuni dei migliori titoli di cucina mondiale».
Amaia lanciò uno sguardo alle coste dei volumi, tra cui riconobbe La sfida della cucina spagnola, il grosso tomo scuro del Bulli e il bel libro di cucina spagnola del Cándido.
Il cameriere portò un piatto di pesce.
«Filetto di merluzzo con velouté e gelatina di granchio, bacche di vaniglia, pepe e limetta».
Amaia apprezzò solo a metà il piatto, continuando a guardare l’ora mentre ascoltava le chiacchiere del giudice.
Quando finalmente ritirarono i piatti, Amaia non volle il dolce e chiese un caffè. Il giudice fece altrettanto, per quanto con visibile delusione. Aspettò che il cameriere posasse le tazzine sul tavolo e tirò fuori per la seconda volta i suoi documenti.
Notò la faccia disgustata del giudice, ma decise di non badarci. Si alzò, finalmente sul suo territorio, e provò un immediato senso di sicurezza. Spostò la sedia, per vedere l’entrata, e per la prima volta da quando era arrivata si sentì a suo agio.
«Secondo gli indizi trovati durante l’autopsia, è possibile che il caso Lucía Aguirre sia collegato a un altro avvenuto un anno fa nella località di Lekaroz». Indicò una delle cartelline, che aprì. «Johana Márquez è stata violentata e strangolata dal patrigno, che ha confessato il crimine appena arrestato, ma il corpo della ragazza presentava lo stesso tipo di amputazione di Lucía Aguirre: l’avambraccio sezionato dal gomito. In più, entrambi gli assassini si sono suicidati lasciando messaggi uguali». Gli mostrò le foto della parete della cella di Quiralte e il biglietto lasciatole da Medina.
Il giudice annuì interessato.
«Secondo lei si conoscevano?»
«Ne dubito, ma se autorizza la riapertura del caso è un punto su cui indagheremo».
Il giudice la guardò perplesso.
«Ma non basta», aggiunse Amaia scrollando la testa. «Magari non significa niente, ma un’amputazione simile sarebbe stata eseguita in un altro delitto avvenuto a Logroño quasi tre anni fa. Nonostante l’esecuzione maldestra, anche questo omicidio presenta l’extra dell’amputazione da manuale di chirurgia, oltre che la successiva sparizione dell’arto amputato, come in questi due ultimi casi».
«In tutti i casi, ha detto?» si agitò Markina, sfogliando i documenti.
«Sì, per il momento sono tre, ma ho la sensazione che potrebbero essere anche di più».
«Mi spieghi cosa stiamo cercando, la prego. Uno strano club di assassini casalinghi che decidono di imitare un gesto macabro magari letto sui giornali?»
«Può darsi, ma dubito che la stampa abbia fornito dettagli così precisi da permettere a qualcuno di imitarli alla lettera. Almeno nel caso di Johana Márquez, era un dato riservato. Quello che posso darle per certo, è che il tizio di Logroño si è suicidato nella sua cella lasciando lo stesso messaggio scritto sulla parete, e con identica grafia, dettaglio da non sottovalutare perché solitamente è una parola che si scrive con una sola t. Tutto questo ci porta a pensare che il loro modus operandi possieda una peculiarità che costituisce in sé un marchio di fabbrica inequivocabile, la firma di un solo individuo. È quantomeno improbabile che delle bestie come quelli si distanziassero tanto dal comportamento tipico dei maltrattatori assassini. I casi che ho potuto esaminare riuniscono tutte le caratteristiche del profilo: parentela con la vittima, maltrattamento protratto nel tempo, alcolismo o droga, carattere violento e squilibrato. L’unica cosa che stonava in tutte e tre le scene del delitto era l’amputazione post mortem del braccio, lo stesso braccio, e la successiva sparizione dell’arto».
Il giudice sfogliava uno dei rapporti.
«Il patrigno di Johana Márquez l’ho interrogato di persona», proseguì Amaia, «e quando gli ho chiesto dell’amputazione mi ha risposto che non ne sapeva niente. E badi che aveva appena ammesso l’aggressione, l’omicidio, la violenza carnale, la profanazione del cadavere con lo stupro post mortem… ma dell’amputazione niente».
Amaia osservò il giudice, che soppesava i dati passandosi distrattamente la mano sulla mascella con un’aria assorta che lo rendeva ancora più maturo e attraente. Da lontano, la cameriera che l’aveva accompagnata al tavolo rimaneva in piedi accanto alla porta d’ingresso e non gli toglieva gli occhi di dosso.
«Allora, che cosa suggerisce?»
«Secondo me potremmo trovarci in presenza di un complice, un’altra persona che avrebbe agito e sarebbe il nesso tra – come minimo – i tre delitti e i tre assassini».
Markina rimase in silenzio fissando ora i documenti, ora il viso di Amaia. E finalmente sul suo viso si dipinse un’espressione che lei conosceva bene: l’aveva vista molte volte sui suoi stessi colleghi, l’aveva vista sul commissario mentre gli esponeva la sua opinione, e la vedeva adesso sul giudice Markina. Interesse, l’interesse che suscitava dubbi e una minuziosa analisi dei fatti e delle congetture che avrebbe fatto scattare un’indagine. Lo sguardo di Markina diventava gelido mentre pensava, e il suo viso, bello come al solito, acquisiva una sfumatura di intelligenza che lo rendeva terribilmente affascinante. Si sorprese a fissare la linea perfetta delle sue labbra, pensando che non c’era niente di strano se la metà delle funzionarie del tribunale se lo contendevano. Sorrise al pensiero e la sua espressione riportò il giudice alla realtà.
«Cosa c’è di così divertente?»
«Oh, niente», si scusò tornando a sorridere. «Non è niente… mi sono ricordata una cosa che… No, non importa».
Lui la squadrava con interesse.
«Non l’avevo mai vista sorridere prima».
«Come?» ribatté lei con aria sconcertata.
Markina continuava a fissarla, adesso nuovamente serio. Amaia sostenne il suo sguardo ancora un paio di secondi e alla fine abbassò gli occhi sul rapporto con la copertina marrone e si schiarì la voce.
«Ebbene?» disse, sollevando lo sguardo, di nuovo padrona di sé.
Lui annuì.
«Secondo me c’è qualcosa… Le concedo l’autorizzazione. Sia molto cauta e non faccia troppo rumore al riguardo, mi riferisco alla stampa. In teoria sono casi chiusi e non vogliamo causare sofferenza inutile alle famiglie delle vittime. Mi tenga aggiornato sugli sviluppi. E chieda pure tutto ciò che le serve», aggiunse guardandola di nuovo negli occhi.
Amaia non si lasciò intimorire.
«Va bene, ci andrò piano; con la mia squadra mi sto occupando di un’altra indagine e non credo che nel giro di qualche giorno potrò portarle grosse novità».
«Quando vuole», la rassicurò lui.
Lei si mise a riordinare i documenti sparsi sul tavolo, mentre il giudice stese una mano e sfiorò appena la sua.
«Almeno accetterà un altro caffè…»
Amaia esitò.
«Sì, devo guidare e mi farà bene».
Markina alzò la mano per ordinare i caffè e lei si affrettò a radunare le carte.
«Pensavo che abitasse da queste parti».
È ben informato, vostro onore, pensò lei mentre il cameriere portava i caffè.
«È vero, ma devo passare qualche giorno nel Baztán per l’altra indagine di cui le parlavo».
«Lei è nata lì, giusto?»
«Sì», rispose.
«Mi hanno detto che si mangia benissimo, forse potrebbe consigliarmi un ristorante…»
Le vennero subito in mente almeno quattro o cinque locali.
«Non posso aiutarla, in realtà non ci torno più molto spesso», mentì, «e quando lo faccio, mangio dai parenti».
Lui sorrise incredulo, inarcando un sopracciglio. Amaia ne approfittò per finire il caffè e infilare le cartelline in borsa.
«Adesso, se mi vuole scusare, vostro onore, devo proprio andare», disse spostando la sedia.
Markina si alzò.
«Dove ha lasciato la macchina?»
«Ho trovato posto qui accanto».
«Aspetti, l’accompagno», le disse prendendo il cappotto.
«Non serve».
«Insisto».
Markina si soffermò un minuto mentre il cameriere tornava con la sua carta di credito e porse il cappotto ad Amaia aspettando che lo indossasse.
«Grazie», tagliò corto lei afferrandolo. «Non lo metto mai per guidare, mi dà fastidio».
E dal suo tono non si capì bene se si riferisse al fatto di guidare con un indumento ingombrante o alle eccessive attenzioni che il giudice le stava riservando.
Markina si scurì in viso mentre lei si incamminava verso la porta. Lei la aprì e aspettò che la raggiungesse. Fuori la temperatura era scesa di diversi gradi e l’umidità si concentrava sul parco, nel fitto del bosco, producendo un’atmosfera nebbiosa che espandeva in chiazze sfumate la luce aranciata dei lampioni.
Uscirono da sotto i portici e attraversarono la strada piena di macchine parcheggiate, ma quasi senza traffico. Amaia attivò l’apertura a distanza dell’auto e si girò verso il giudice.
«Grazie, vostro onore, la terrò informata», disse in tono professionale.
Ma lui fece un passo avanti e le aprì lo sportello della macchina.
Lei sospirò, armandosi di pazienza.
«Grazie».
Lanciò il cappotto all’interno dell’auto e salì in fretta. Non era stupida, erano ore che aveva capito le intenzioni di Markina ed era ben decisa ad anticipare tutte le sue mosse.
«Buonanotte, vostro onore», disse afferrando la maniglia per chiudere lo sportello mentre metteva in moto.
«Salazar…» sussurrò lui, «… Amaia».
Oh, oh risuonò una voce nella sua testa. Alzò lo sguardo e incrociò i suoi occhi, in cui ardeva una fiamma a metà tra la supplica e il desiderio.
Markina allungò una mano e le accarezzò la ciocca di capelli che le cadeva sulla spalla. Percepì subito il suo irrigidimento e ritrasse la mano, imbarazzato.
«Ispettrice Salazar», lo corresse lei in tono secco.
«Mi scusi?» ribatté lui, confuso.
«È così che mi deve chiamare: ispettrice Salazar, capo Salazar o semplicemente Salazar».
Lui annuì e ad Amaia parve di vederlo arrossire. La luce era molto fioca.
«Buonanotte, giudice Markina». Chiuse lo sportello e imboccò la strada a marcia indietro. «Che razza di idiota!» esclamò, guardando nello specchietto retrovisore il giudice, che era ancora fermo nello stesso posto.
Non conveniva guadagnarsi l’inimicizia di un giudice e sperava di cuore che il suo avvertimento fosse servito a stabilire i parametri del loro rapporto, limitandolo alla sfera professionale ma senza che il giudice si sentisse ferito nel suo orgoglio maschile. C’era nel suo modo di guardarla un’aria da cane bastonato che aveva già visto in altri uomini e causava sempre problemi, e i problemi potevano complicarle l’indagine. Sperava che non si sentisse offeso. Era chiaro che aveva fatto il possibile per organizzare quella serata, e per un uomo così affascinante non doveva essere normale sentirsi rifiutato.
«Be’, c’è sempre una prima volta!» commentò a voce alta.
Si disse che le attenzioni delle funzionarie, capitanate dalla servile e devota Inmaculada Herranz, l’avrebbero attirato verso un’altra femmina in men che non si dica.
Si guardò un istante nello specchietto retrovisore.
«Però… quant’è bello!» rise, e senza pensarci si toccò i capelli nel punto in cui lui l’aveva sfiorata e sorrise. Accese la radio mentre imboccava la strada per il Baztán e si mise a canticchiare.
Il magnifico bosco del Baztán di notte è un’immensa distesa nera, e la sensazione che produce è paragonabile soltanto alla notte in alto mare, una notte buia e senza stelle. La fioca luce della luna, appena visibile dietro le nuvole, non era di grande aiuto e solo i fari laceravano la notte puntando il loro fascio luminoso verso il fitto del bosco, che si estendeva come un oceano profondo e gelido ai due lati della carreggiata. Ridusse la velocità: se fosse uscita in curva, sarebbe stato impossibile vedere la sua auto dalla strada. Il bosco se la sarebbe ingoiata come una creatura centenaria dalle fauci nere. Anche di giorno sarebbe stato difficile trovare nel folto della vegetazione un fuoristrada nero come il suo. Un brivido la percorse.
«Tanto temuto e amato», sussurrò.
Quando fu all’altezza dell’hotel Baztán, rivolse un’occhiata rapida al parcheggio illuminato a stento da quattro lampioni e dalla luce sbiadita del bar, ancora piuttosto affollato nonostante la tarda ora. Ricordò senza volere Firmín che puntava la sua pistola d’ordinanza prima contro Flora e poi contro se stesso; l’immagine di Montes riverso a terra, immobilizzato dall’ispettore Iriarte mentre le sue lacrime si mescolavano alla polvere del parcheggio. Le parole del commissario le risuonarono in testa: Non pretendo di influire sulla sua decisione, mi sto limitando a informarla.
Entrò nel centro abitato di Elizondo, percorse calle Santiago, girò a sinistra per scendere verso il ponte e sentì il leggero scalpiccio delle ruote sul selciato. Dopo il ponte Muniartea girò a sinistra e parcheggiò di fronte alla casa della zia, la casa in cui aveva vissuto dai nove anni al giorno in cui aveva lasciato Elizondo. Prese la chiave dal mazzo e aprì la porta. La casa l’accolse calda e vibrante, carica dell’energia della sua padrona e con l’eterna cantilena del televisore che risuonava in sottofondo.
«Ciao, Amaia», la salutò la zia dal salotto, seduta di fronte al camino.
Amaia provò un’ondata d’amore non appena la vide, i capelli lunghi e bianchi raccolti in uno chignon morbido che le dava un’aria da eroina romantica inglese, e la schiena dritta come se stesse sorseggiando il tè con la regina.
«Non ti alzare, zia», le disse avvicinandosi per baciarla. «Come stai, bellezza?»
Engrasi scoppiò a ridere.
«Sì, devo essere proprio una bellezza con questa vestaglia!» esclamò sollevando il risvolto di tessuto felpato.
«Per me sarai sempre la più bella».
«Piccola mia…» le sussurrò abbracciandola.
Amaia si guardò attorno riconoscendo ogni oggetto come faceva ogni volta che tornava a casa, e quel gesto era una constatazione e una dichiarazione insieme. Sembrava quasi voler dire: «Sono qui, sono tornata». Non sapeva bene perché succedesse, ma ormai non si chiedeva più come mai in quel posto si sentisse così: si limitava a godere di quella sensazione.
«E il mio piccolo?»
«Fa la nanna. James gli ha dato il biberon una mezz’oretta fa e si è addormentato subito. È salito a metterlo a letto, ma forse si è addormentato anche lui, perché è da un po’ che non sento rumori», rispose indicando il baby monitor, che con i suoi colori vivaci stonava sul tavolo scuro di Engrasi.
Si tolse gli stivali in fondo alla scala e salì sentendo il legno sotto i piedi e reprimendo la voglia di correre, come quando era piccola.
Nella luce azzurrata della lampada lasciata accesa da James sul comodino, Amaia lo trovò addormentato, con un braccio appoggiato sul bordo del lettino da campo in cui riposava Ibai, accanto alla finestra. Si avvicinò alla culletta e vide che il bimbo dormiva placido, sprofondato nel suo soffice pagliaccetto. Spense la radiolina, si tolse il golf, si sfilò i jeans ed entrò nel letto incollandosi alla schiena del marito e sorridendo maliziosa quando lo sentì sobbalzare al contatto con il suo corpo freddo.
«Sei gelata, amore», le sussurrò mezzo addormentato.
«Mi scaldi tu?» chiese in tono dolce, stringendosi a lui.
«Tutto quello che vuoi», rispose lui, un po’ più sveglio.
«Voglio tutto».
James si girò e lei ne approfittò per baciarlo, esplorandogli la bocca come morta di sete.
Lui si fece indietro, sorpreso.
«Sicura?» chiese, indicando la culla.
Da quando c’era Ibai, lei si era dimostrata riluttante ad avere rapporti nella stessa stanza in cui dormiva il bambino.
«Sì, sicurissima», rispose, baciandolo ancora.
Fecero l’amore con lentezza, guardandosi increduli come se si fossero appena conosciuti quella notte e la scoperta si rivelasse prodigiosa, sorridendo con la soddisfazione e il sollievo di chi sa di aver appena recuperato qualcosa di preziosissimo che per qualche tempo aveva temuto di aver perso. Dopo rimasero sdraiati in silenzio finché James non le prese la mano e si girò a guardarla.
«Sono contento che tu sia tornata, ultimamente le cose tra noi non sono andate molto bene».
Una leggera scossa proveniente dal lettino costrinse James ad alzarsi per guardare il bimbo, che si agitava irrequieto emettendo dei versi che indicavano frustrazione e preparavano allo scoppio di pianto.
«Ha fame», disse guardandola.
«Sono arrivata in tempo per dargli la poppata, ma la zia mi ha detto che gli avevi già dato il biberon», disse, cercando di non farlo sembrare un rimprovero.
«Era un po’ agitato. Ho letto che si deve nutrire il neonato su richiesta, e non ci vedo niente di male a dargli un po’ di biberon se tu non ci sei; e poi non ha preso neanche quindici millilitri».
«Secondo me non è neanche giusto passare tutto il giorno a dargli da mangiare. Rispettare gli orari è fondamentale, hai sentito il pediatra, no?»
«Se non si rispettano gli orari, non è certo colpa mia…» rispose lui.
«Intendi dire che la colpa è mia? Ti ho già detto che sono arrivata in tempo».
«Amaia, il bimbo non è un orologio, non serve arrivare in tempo questa volta. E quella prima? E quella dopo? Puoi garantirmi che sarai qui in tempo?»
Lei non rispose. Prese Ibai in braccio e tornò a sdraiarsi sul letto con lui per allattarlo. James le si mise accanto, accarezzando con un dito la nuca del bimbo, e chiuse gli occhi. Appena due minuti dopo, Amaia percepì dal suo respiro cadenzato che aveva preso sonno. A volte le faceva davvero saltare i nervi, si disse mentre cercava di rilassarsi: aveva letto da qualche parte che lo stato nervoso della madre si trasmetteva al neonato provocandogli le coliche.
Finita la poppata, Amaia si appoggiò il bimbo sulla spalla finché non fece il ruttino, quindi tornò a cullarlo tra le sue braccia, sentendo il suo fragile corpicino rilassarsi, sopraffatto dal sonno. Si chinò su di lui per annusare il profumo della sua testolina e sorrise. Prima che nascesse Ibai, anche prima di averlo concepito, lo amava già, lo voleva sin da quando lei stessa era una bambina che giocava a fare la mamma, una mamma buona. Ma adesso ne soffriva, perché chissà dove, nel più profondo del suo cuore, sentiva che tutto il suo amore non era sufficiente, che non era all’altezza, che non era degna di essere sua madre, che forse non era nella natura delle donne della sua famiglia. Forse, insieme ai geni, si riceveva un’eredità più oscura e crudele.
Prese una manina del figlio, aperta come una stella di mare ora che la fame era saziata. Il suo bimbo dell’acqua, il suo bimbo del fiume, che come il fiume veniva a reclamare i suoi domini, inondando le rive, allagando il territorio, come un sovrano di ritorno dalle crociate. Si portò la manina alle labbra e la baciò adorante.
«Io ci provo, Ibai», sussurrò, e il piccolo, nel sonno, le restituì un sospiro profondo che profumò l’aria attorno.