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Quando organizzava una riunione, faceva sempre in modo di arrivare per prima, e spesso passava interi minuti a guardare fuori dalla finestra che si apriva su Pamplona, concentrata a riordinare le idee e cullata dai bisbigli crescenti che si radunavano alle sue spalle. Le si avvicinava solo Jonan, senza aprire bocca, per portarle una tazza di caffè che lei accettava immancabilmente e che molto spesso lasciava intatta dopo essersi scaldata le mani.

Si girò solo quando sentì la voce dell’ispettore Iriarte, che salutava sorridente tutti i presenti. Era con lui il viceispettore Zabalza, che le fece solo un cenno borbottando chissà cosa e accomodandosi accanto al suo superiore. Attese finché non furono tutti seduti e cominciò a parlare nel preciso istante in cui si apriva la porta ed entrava il commissario, che si appoggiò alla parete con le braccia conserte e la invitò a procedere.

«Come se non ci fossi», disse, quasi a scusarsi.

«Buongiorno a tutti. Come sapete, lo scopo di questa riunione è stabilire una strategia d’azione sul caso delle profanazioni nella chiesa di Arizkun. Sono appena arrivati i risultati preliminari delle analisi eseguite sulle ossa, ma le conclusioni non chiariscono granché: si sa solo che sono umane e che appartengono a un bambino di meno di un anno. Il dottor San Martín ci terrà informati se ci saranno novità con il resto delle analisi, ma al momento cominceremo con lo stabilire cosa sia esattamente una profanazione e perché non abbiamo dubbi sul fatto che questa lo sia…» Si spostò fermandosi alle spalle del viceispettore Etxaide e proseguì.

«Profanare significa trattare qualcosa di sacro senza il dovuto rispetto, rovinare, disonorare o fare un uso indegno di cose che vanno rispettate. Partendo da questa premessa, e considerando che il gesto è stato commesso in un luogo di culto, utilizzando perdipiù resti umani, è ovvio che ci troviamo di fronte a una profanazione, ma prima di continuare e di prendere decisioni sul modo di agire, ci sono altri aspetti che vale la pena spiegare. Esistono tanti generi di profanazione, come di comportamenti criminosi, e comprendere la meccanica della profanazione ci darà il profilo del tipo di individuo che stiamo cercando.

«Il genere più frequente è la profanazione vandalica da ricondurre normalmente a bande cittadine e gruppi di emarginati che manifestano il loro rifiuto della società attaccando i suoi simboli sacri e religiosi. Possono assalire un monumento o una biblioteca, bruciare una bandiera o rompere le vetrine di un centro commerciale. Questo genere di profanazione è la più comune e la più facile da identificare per via dei segni evidenti di violenza irrazionale. Al secondo gruppo appartengono i profanatori di chiese e cimiteri, bande e gruppi di delinquenti il cui unico scopo è rubare oggetti di valore. Le cassette delle elemosine, i microfoni, gli impianti audio o luce, pezzi in oro o argento come tabernacoli, candelabri, coppe e perfino gli attrezzi dei becchini. In casi più estremi, rubano gioielli e denti d’oro ai cadaveri. È stata arrestata da poco una banda che rubava le targhe di platino che spesso decorano le fotografie dei morti sulle lapidi. A quanto si apprende dalle loro dichiarazioni, alcuni di questi delinquenti hanno deciso negli ultimi tempi di mettere in scena rappresentazioni che suggeriscono riti satanici in maniera da depistare gli investigatori e sviare l’attenzione verso le sette, creando un grande allarme tra i fedeli. In questi casi, conviene non perdere di vista l’obiettivo e avere ben chiaro che i satanisti di solito non si portano via il cellulare del parroco. Ed è qui che entra in campo un altro genere di profanazione, quella esoterica. Jonan…»

Jonan scattò in piedi e si diresse alla lavagna.

«Si tratta di rituali magici provenienti da diverse culture. La maggior parte di queste presunte profanazioni sono in realtà rituali di santeria, vudù haitiano, candomblé brasiliano o palo mayombe cubano», spiegò.

«Sono tutti riti connessi con la morte e con lo spiritismo che si praticano di preferenza nei cimiteri, ma non nelle chiese. Solo i satanisti scelgono luoghi di culto cristiani, per mettere in chiaro che oltre a adorare Satana, il loro obiettivo è offendere Dio. Le profanazioni sataniche sono poco comuni, anche se ieri alla riunione con il vescovo si è scoperto che questo tipo di azioni viene messo sotto silenzio per evitare l’effetto richiamo. Il più delle volte si trovano simboli sacri imbrattati di feci, vomito, urina, sangue animale, cenere, allo scopo di ottenere una messa in scena decisamente vistosa, decapitando santi, disegnando simboli fallici sulle vergini, capovolgendo crocifissi o cose del genere. Qualche anno fa, in un piccolo eremo della cittadina gallega di A Lanzada, dei satanisti si sono introdotti in una chiesa durante la notte rompendo la porta ad asciate. Hanno preso l’immagine della Vergine, molto venerata in quella zona, le hanno amputato le mani e l’hanno buttata giù da un burrone. Ecco un esempio perfetto di messa in scena: avrebbero potuto accontentarsi di forzare l’ingresso, un portone massiccio con la serratura antica, senza allarmi, e portar via l’immagine intera, mentre il gesto che hanno compiuto era molto più vistoso e offensivo».

Amaia riprese la parola.

«Ci rimane ancora la profanazione come protesta sociale, o almeno così la giustifica chi la compie. Ho avuto modo di studiare da vicino questo genere di comportamento quando ho lavorato per l’Fbi negli Stati Uniti. Si distruggono tombe, si dissotterrano corpi e si mutilano cadaveri al solo scopo di agire fuori dalla norma. Un soggetto di questo tipo nutre sicuramente un considerevole livello di odio verso la società, e in base al suo profilo viene considerato molto, molto pericoloso, dal momento che questo è solo uno stadio della sua condotta e può finire per orientare la sua rabbia anche contro individui vivi. Uno dei casi più noti è stato quello di un poliziotto del GEO, il Grupo Especial de Operaciones, l’unità d’élite della polizia spagnola, morto nell’esplosione di un rifugio di terroristi a Leganes in seguito agli attentati di Madrid dell’11 marzo. Dopo la sepoltura, un gruppo di individui ha dissotterrato il corpo in piena notte, l’ha mutilato e gli ha dato fuoco. Bisogna sapere che secondo la fede musulmana la cremazione implica l’annientamento totale dell’anima del defunto e la conseguente impossibilità di redenzione.

«Negli studi di criminologia, questo comportamento viene considerato in molti casi uno stadio della psicopatia, spesso anticipato da episodi di tortura di animali, incendi dolosi, minzione notturna, grave ritardo scolastico, maltrattamenti e un marcato aspetto psicosessuale, per le difficoltà dimostrate nel relazionarsi con il sesso in maniera sana.

«Devo dire che, in un primo momento, propendevo per la profanazione vandalica, e sinceramente è una teoria che non scarto ancora del tutto; ma ci sono aspetti collegati alla storia di Arizkun (per chi di voi non la dovesse conoscere, Jonan ha preparato un dossier con tutte le motivazioni storiche) che non ci permettono di scartare la possibilità che si tratti di un’aggressione di tipo sociale, forse nella sua fase più embrionale.

«C’è un altro tipo di profanatore che in questo caso mi sento di poter scartare, ed è il ladro di opere d’arte. Entrano in chiese scelte con cura senza causare danni, si portano via solo pezzi di grande valore, di solito lavorano su commissione e non agiscono mai in maniera impulsiva o approssimativa».

«Sono d’accordo», intervenne il commissario. «Quali azioni avete intrapreso?»

Iriarte aprì l’agenda e cominciò a leggere.

«Al momento teniamo un’autopattuglia parcheggiata ventiquattr’ore al giorno davanti alla porta della chiesa, il che sembra aver tranquillizzato un po’ gli abitanti del quartiere. C’è persino chi si è avvicinato per ringraziare, e dall’altra sera non si sono più verificati incidenti».

«Avete interrogato i residenti più vicini alla chiesa?» chiese Amaia.

«Sì, ma nessuno ha visto o sentito niente, e badate che di notte ad Arizkun non si sente volare una mosca. I colpi d’ascia sulla panca avranno fatto un bel chiasso, no?»

«I muri della chiesa sono molto spessi, ammortizzano di sicuro i colpi, e poi ci sono anche i muri delle case, e in una fredda notte invernale le finestre e le imposte saranno state tutte sbarrate».

Iriarte annuì.

«Abbiamo anche individuato un gruppo di giovani più attivi e con tendenze più antisociali, ma non abbiamo ancora ottenuto risultati significativi. I ragazzi di Arizkun sono abbastanza tranquilli, solo qualche fronda indipendentista e poco di più. Per la stragrande maggioranza, praticanti o no, la chiesa è uno dei simboli di Arizkun».

«E la storia degli agotes?» chiese Amaia.

Iriarte sospirò.

«Capo, questo è un punto molto delicato. Per la gente di Arizkun continua a essere una di quelle cose di cui si preferisce non parlare. Posso dirle che fino a poco tempo fa, se un forestiero arrivava ad Arizkun chiedendo informazioni sugli agotes, si trovava di fronte un muro insormontabile di silenzio».

«Ci sono un paio di aneddoti divertenti su questo», intervenne Zabalza. «Dicono che qualche anno fa un noto scrittore si sia presentato ad Arizkun e abbia dovuto rinunciare alla sua idea di scrivere un libro sugli agotes perché la gente rispondeva alle sue domande come se fossero dei deficienti, oppure dicevano che non ne avevano mai sentito parlare, che erano tutte leggende e che non credevano fossero mai esistiti davvero. Si racconta anche che Camilo José Cela in persona si sia interessato all’argomento e abbia ottenuto risultati identici».

«Questi sono i miei compaesani…» commentò con un sorriso Amaia. «Forse le cose saranno cambiate con le nuove generazioni, no? Di solito i giovani amano sentirsi orgogliosi delle loro radici senza sentire il peso che portano i loro avi. Come dicevo ieri a Jonan, la storia degli agotes non è poi molto diversa da quella degli ebrei o dei musulmani; c’erano distinzioni di religione, di sesso, di nascita, di censo, insomma, un po’ come oggi… Neanche le donne di nobili natali riuscivano a evitare matrimoni forzati o monacazioni non propriamente spontanee».

«Forse ha ragione. Di solito i giovani vedono la storia prima della guerra civile come fosse l’era neozoica, però in ogni caso dobbiamo stare molto attenti per non rischiare di urtare la sensibilità della gente».

«Sì, certo, sono d’accordo», confermò Amaia. «Stasera stessa vado a Elizondo e mi fermo lì qualche giorno a dirigere l’indagine».

Mentre Amaia parlava, il commissario continuava ad annuire.

«Jonan si occuperà di cercare in rete gruppi di azione contro gli interessi cattolici, oltre a qualsiasi cosa sugli agotes e sugli oggetti danneggiati durante le profanazioni. Dovreste fissarmi un colloquio con il parroco e con il cappellano di Arizkun, ma separatamente: non possiamo scartare la possibilità che queste azioni siano una specie di vendetta verso uno di loro. Non dimenticate il recente caso della scomparsa del Codice Callistino, che nascondeva una vendetta personale di un ex collaboratore della Chiesa contro il decano della cattedrale di Santiago. Perciò, prima di lanciarci a costruire teorie storiche e mistiche, non sarebbe inutile investigare sulle persone implicate, come in qualsiasi altro caso. Ho un paio di idee su cui mi piacerebbe lavorare. Per il momento, è tutto», disse alzandosi e uscendo dopo il commissario. «Ci vediamo lì domani mattina».

 

Il rapporto, che l’aveva tenuta sveglia fino alle tre del mattino, era posato sulla scrivania del commissario. Concentrò la sua attenzione sulla copertina di cartone, cercando di trovare un indizio che fosse stato letto.

«Signore, ha avuto modo di leggere il mio rapporto?»

Il commissario si girò verso di lei e rimase a fissarla per qualche istante prima di risponderle.

«Sì, Salazar, è molto esaustivo».

Amaia studiò la sua espressione indecifrabile, incerta se «esaustivo» fosse un pregio o un difetto.

Dopo alcuni secondi di silenzio, il commissario aggiunse: «Esaustivo e molto interessante. Capisco perché il caso abbia attirato la sua attenzione. Il tenente Padua aveva riconosciuto degli indizi, è vero, ma approvo l’operato dei suoi superiori. Se lei mi avesse presentato questo rapporto una settimana fa, le avrei risposto esattamente nello stesso modo. Gli indizi, pur esistendo, sono un po’ tirati per i capelli, potrebbero essere semplici coincidenze; anche il fatto che i detenuti mantengano una corrispondenza tra di loro e con gli ammiratori dei loro delitti è molto più comune di quanto la gente non creda».

Fece una pausa e le si sedette di fronte.

«Certo, con i fatti di ieri questa storia prende una piega diversa, quando Quiralte la coinvolge decidendo di confessare a lei dove trovare il cadavere. Ci ho riflettuto a lungo, ispettrice, eppure non riesco ancora a vederci chiaro. Tutti i casi sono ufficialmente chiusi. Tutti gli assassini sono morti suicidi. Casi diversi in province diverse e seguiti da corpi di polizia diversi, e lei mi chiede di aprire un’indagine».

Amaia rimase in silenzio, senza distogliere lo sguardo.

«Ho fiducia in lei, mi fido del suo istinto e so che dev’esserci qualcosa che ha attirato la sua attenzione… però non ravvedo indizi sufficienti ad autorizzare l’apertura di un’indagine, che perdipiù rischierebbe di deteriorare i rapporti con gli altri distretti di polizia».

Fece un’altra pausa e Amaia trattenne il fiato.

«A meno che non mi abbia ancora detto tutto…»

Amaia sorrise. Quell’uomo non era diventato commissario per caso. Tirò fuori la busta plastificata dalla tasca interna della giacca e gliela porse.

«Il giorno che Jasón Medina si è suicidato nei bagni dei tribunale aveva con sé questa busta».

Lui la prese, esaminò il suo aspetto e lesse attraverso la plastica.

«È diretta a lei», esclamò sorpreso. Aprì un cassetto della scrivania cercando un paio di guanti.

«Può toccarla, non si preoccupi, è giù stata esaminata e non hanno trovato neanche un’impronta».

Il commissario lesse il contenuto della busta e guardò Amaia.

«D’accordo», si decise a dire. «La autorizzo ad aprire un’indagine basata sul fatto che due degli assassini si sono rivolti espressamente a lei».

Amaia annuì.

«Dovrà agire con il massimo tatto e ovviamente ottenere il benestare del giudice Markina, per quanto non credo che farà molta fatica, visto che ha molta stima di lei come investigatrice. Proprio stamattina mi ha chiamato per parlare del caso Aguirre e si è profuso in elogi nei suoi confronti. Non voglio storie con gli altri distretti, perciò le chiedo di camminare sulle uova». Poi, dopo una pausa teatrale, aggiunse: «In cambio, spero ci siano progressi sul caso della chiesa di Arizkun».

Amaia fece un’aria infastidita.

«Lo so come la pensa al riguardo, ma dobbiamo assolutamente risolvere il caso al più presto. Stamattina mi ha chiamato il sindaco preoccupatissimo».

«Vedrà che sono solo dei teppistelli».

«Allora li arresti, e mi faccia i loro nomi in modo che il vescovo la smetta di farmi pressione. Sono molto in allarme per questa storia, e per quanto sia vero che sono un po’ esagerati, le ricordo che in altri casi persino più vistosi di profanazione non si sono mai angosciati tanto».

«Va bene, farò il possibile. Una pattuglia è appostata davanti alla porta della chiesa, e già questo dovrebbe contribuire a metterli tranquilli e a lasciarla un po’ in pace, no?»

«Me lo auguro», ammise lui.

Amaia si alzò e si diresse alla porta.

«Grazie, signore».

«Salazar, aspetti, un’ultima cosa».

Amaia si fermò e rimase in attesa.

«È già passato un anno da quando l’ispettore Montes è stato sospeso per i fatti accaduti nel corso dell’indagine sul basajaun. La commissione per gli affari interni ha finalmente approvato il suo reintegro. Come saprà, a questo punto servono valutazioni positive da parte di tutti gli agenti coinvolti, nello specifico l’ispettore Iriarte e lei».

Amaia rimase in silenzio, aspettando di capire dove volesse arrivare il commissario.

«La situazione è cambiata. A quei tempi lei era l’ispettrice assegnata a quel caso e adesso è diventata il capo della Omicidi, perciò l’ispettore Montes sarebbe ai suoi ordini, come tutti gli altri. Se decide per il suo reintegro, può assegnarlo alla sua squadra oppure a un’altra, ma in ogni caso deve prendere una decisione definitiva. La sua squadra è monca: se non vuole Montes, dovrà assegnare un altro agente alla sua unità in pianta stabile».

«Ci penserò», rispose lei con freddezza.

Il commissario percepì la sua ostilità.

«Ispettrice, non pretendo di influire sulla sua decisione, mi sto limitando a informarla».

«Grazie, signore», rispose lei.

«Può andare».

Amaia si richiuse la porta alle spalle e sussurrò: «Sì, certo».

 

L’Istituto Navarro di Medicina Legale era deserto a mezzogiorno. Dietro la spessa coltre di nuvole nere, un sole incerto faceva luccicare le superfici bagnate dalla pioggia caduta solo un’ora prima, e i numerosi posti vuoti nel parcheggio dimostravano che era ora di pranzo. Eppure non rimase sorpresa quando vide due donne buttar via il mozzicone di sigaretta e andarle incontro. Fece un esercizio di mnemotecnica cercando di ricordare i loro nomi: «come le sorelle di Lazzaro».

«Marta, María», le salutò, «non dovreste essere qui», disse sapendo in anticipo che i familiari non avevano altro posto logico dove andare, e che sarebbero rimaste sulla porta o all’uscita finché non gli avessero restituito il corpo della persona cara. «Dovreste rimanere a casa, vi avviseranno quando…» Con tutto il carico sinistro che racchiudeva, non c’era volta che riuscisse a pronunciare la parola «autopsia» davanti ai parenti. In fondo era solo una parola come tante, e loro sapevano benissimo perché si trovavano lì; anzi, qualcuno la pronunciava persino senza badarci tanto, ma lei, che sapeva il vero significato di quella parola, ne rimaneva sempre lacerata come sotto il bisturi con cui aprivano a ipsilon il corpo del defunto. «… Quando avranno finito tutti gli esami», concluse.

«Ispettrice», disse la più grande, chissà se Marta o María. «Sappiamo che bisogna eseguire l’autopsia, visto che nostra madre è stata vittima di una morte violenta, ma oggi ci hanno detto che forse ritarderanno ancora qualche giorno a restituirci… sì insomma… il corpo».

La sorella scoppiò a piangere, e per cercare di trattenersi emetteva un rantolo soffocato, come se le mancasse il respiro.

«Mi vuole dire la ragione, per favore? Sapete già chi l’ha uccisa, sapete già cos’ha fatto quella bestia. Ma adesso lui è morto, e – che Dio mi perdoni – mi fa piacere che sia morto come l’essere immondo che era».

Anche dai suoi occhi sgorgarono delle grosse lacrime che lei si asciugò dal viso con furia, perché a differenza di quelle della sorella, le sue erano lacrime di rabbia.

«… ma allo stesso tempo vorrei che fosse ancora vivo, a marcire in prigione. Riesce a capirmi? Vorrei potergli fare tutto quello che lui ha fatto a nostra madre».

Amaia annuì.

«Non riusciresti a sentirti meglio comunque».

«Non voglio sentirmi meglio, ispettrice, non credo che niente a questo mondo potrebbe farmi sentire bene in questo momento. Vorrei solo potergli fare del male, tutto qui».

«Non parlare così», la supplicò la sorella.

Amaia le posò una mano sulla spalla.

«No, non lo faresti mai. Lo so che adesso la pensi così, che è quello che vorresti fare e in un certo senso è persino normale, ma tu non potresti mai fare niente di simile a nessuno, lo so».

La donna la guardò e Amaia capì che stava per crollare.

«Come fa a esserne così sicura?»

«Perché per fare una cosa simile bisogna essere come lui».

La donna si coprì la bocca con le mani, e dall’espressione di terrore che le si dipinse in viso si rese conto che aveva capito. L’altra ragazza, che all’inizio le era sembrata più fragile e indifesa, circondò la sorella con un braccio, le mise una mano sul collo e senza incontrare resistenza le fece poggiare la testa sulla sua spalla in un gesto di consolazione e tenerezza sicuramente appreso dalla madre.

«Quando ce la restituiranno? Pensavamo dopo l’autopsia. Perché rimandare ancora?»

«Nostra madre è rimasta abbandonata per mesi in una fossa gelida, adesso vogliamo avere il nostro tempo, il tempo per salutarla, il tempo per seppellirla».

Amaia le studiò soppesando un dettaglio non secondario, la loro capacità di sopportazione. Le famiglie delle vittime scomparse mostravano una grande forza nutrita dalla speranza che i loro parenti fossero vivi, contro ogni pronostico e nonostante le prove che indicavano una triste soluzione del caso. Ma nel momento in cui veniva trovato il corpo, tutta l’energia che li aveva sorretti si sgretolava come un castello di sabbia in mezzo alla bufera.

«Va bene, adesso ascoltatemi e tenete presente che quanto sto per dirvi fa parte di un’indagine in corso, perciò confido nella vostra discrezione».

Le due donne la fissarono trepidanti.

«Sono stata sincera con voi sin dal principio, dopo che mi avete chiesto di cercare vostra madre perché eravate certe che lei non se ne sarebbe mai andata volontariamente da casa. Vi ho informato di ogni mio passo. E adesso ho bisogno che continuiate a fidarvi di me. È dimostrato che vostra madre sia stata vittima di Quiralte, ma non sono del tutto convinta che lui sia stato l’unico a essere coinvolto nell’omicidio».

L’espressione di entrambe si trasformò in sorpresa.

«Aveva un complice?»

«Non lo so ancora con certezza, ma questo caso me ne ricorda un altro a cui ho preso parte come consulente e in cui abbiamo sospettato la presenza di un secondo uomo. Il caso era di competenza di un altro corpo di polizia, e per avere modo di confrontare i diversi aspetti e le varie prove il processo sarà inevitabilmente un po’ più lungo e complicato. Le richieste sono già state presentate, ma potrebbero ancora volerci ore, persino giorni, non posso saperlo con assoluta certezza. Lo so che è stata durissima per voi, ma vostra madre non è più in quella fossa gelida, è qui, ed è qui per aiutarci a risolvere il suo assassinio. Starò lì dentro con lei, e vi garantisco che i medici legali sono in assoluto le persone che hanno il maggior rispetto per qualsiasi cosa possa raccontarci sull’accaduto. Credetemi, loro sono la voce delle vittime».

Dalla loro aria rassegnata capì che si erano convinte e, per quanto non le servisse la loro autorizzazione, un manipolo di parenti infuriati che intralciavano le indagini non le sarebbe stato di nessun aiuto.

«Se non altro, potremo celebrare un funerale per la sua anima», bisbigliò Marta.

«Ma certo, vi farà bene, e sapete che a lei avrebbe fatto piacere».

Quindi tese loro la mano, ed entrambe la strinsero senza esitazione.

«Vi prometto che cercherò di velocizzare le procedure, e appena so qualcosa vi chiamo».

Amaia si tolse il cappotto, infilò il camice asettico ed entrò nella sala. Il dottor San Martín, chino su un tavolo d’acciaio, indicava ai suoi due aiutanti qualcosa sullo schermo del computer.

«Buongiorno. O forse devo dire buon pomeriggio?» salutò lei.

«Per noi va benissimo buon pomeriggio, abbiamo già pranzato», rispose uno degli operatori.

Amaia represse la smorfia di incredulità che le si cominciava a dipingere in volto. Lei aveva lo stomaco sufficientemente forte, questo era certo, ma immaginarsi quei tre che mangiavano prima di un’autopsia le sembrava quantomeno… sconveniente.

San Martín iniziò a infilarsi i guanti.

«Bene, ispettrice, da quale dei due vuole cominciare?»

«Come, due?» chiese con aria confusa.

«Lucía Aguirre», rispose il dottore indicandole il corpo coperto da un lenzuolo sopra il tavolo, «oppure Ramón Quiralte», aggiunse segnalando un tavolo più lontano su cui si vedeva un corpo ancora dentro il sacco per il trasporto.

Amaia lo guardò sorpresa.

«Ho in programma entrambe le autopsie per oggi, perciò possiamo cominciare da quella che preferisce».

Amaia si avvicinò al corpo di Quiralte sul tavolo, aprì la chiusura lampo ed esaminò il suo viso. La morte gli aveva cancellato per sempre ogni traccia di fascino. Attorno agli occhi gli si erano formate numerose emorragie petecchiali scure che indicavano altrettanti capillari rotti nello sforzo di vomitare. La bocca socchiusa, paralizzata in uno spasmo, lasciava intravedere i denti e la punta della lingua, che come un terzo labbro si affacciava completamente rivestita da una pellicola biancastra. Le bruciature dell’acido si estendevano sulle labbra tumefatte, sporche del vomito scivolato fino all’orecchio e tra i capelli. Amaia guardò nel punto in cui giaceva la donna e scrollò la testa. Vittima e boia a soli due metri nella stessa sala autoptica, forse aperti dallo stesso bisturi.

«Non dovrebbe essere qui», pensò a voce alta.

«Cos’ha detto?» le rispose San Martín.

«Non dovrebbe essere qui… Con lei». Gli operatori la guardarono stupiti. «Non nello stesso momento», spiegò indicando l’altro corpo.

«Secondo me non importa più niente a nessuno dei due, lei non crede?»

Li guardò e si rese conto che non avrebbero mai capito cosa intendeva.

«Non ne sono poi così sicura», sussurrò.

«Bene, allora, da quale dei due cominciamo?»

«Lui non m’interessa, è un suicidio punto e basta», rispose gelida tirando su la lampo e facendo scomparire il viso di Quiralte.

San Martín si strinse nelle spalle e scoprì il primo corpo. Amaia si fermò davanti al tavolo, chinò la testa per una rapida preghiera e alla fine la guardò. Senza il suo golf bianco e rosso, fece fatica a riconoscere in quel corpo la donna sorridente che dominava l’ingresso della sua casa. Il cadavere era stato lavato, eppure era così pieno di colpi, erosioni e lividi da sembrare ancora sporco.

«Dottore», disse Amaia avvicinandosi a lui, «dovrei chiederle un favore. So bene che lei è molto scrupoloso nel suo lavoro, ma in realtà la cosa che mi interessa di più è l’amputazione. La Guardia Civil mi ha mandato le foto dei resti ossei trovati nella grotta di Elizondo», disse mostrando a San Martín una busta voluminosa. «Per il momento non mi hanno dato altro, e vorrei che confrontasse le sezioni dei tagli nelle ossa. Se potessimo stabilire un legame tra questo e il caso di Johana Márquez, il giudice autorizzerebbe altre azioni che potrebbero farci fare dei bei progressi. Ho una riunione con lui oggi pomeriggio e spero proprio di non dovergli portare solo delle teorie».

San Martín annuì.

«D’accordo, allora cominciamo».

Accese una lampada molto forte sul corpo, centrò una lente d’ingrandimento sulla ferita del braccio e fotografò la lesione. Poi si chinò, avvicinandosi quasi a sfiorare la ferita con il naso.

«Un taglio netto, post mortem, il cuore si era già fermato e il sangue aveva cominciato a coagulare. È stato eseguito con un oggetto seghettato, simile a una sega elettrica per la legna, ma un po’ diversa; mi ricorda molto il caso di Johana Márquez, perché la direzione del taglio anche in questo caso suggerisce un coltello elettrico o una smerigliatrice. Visto che nel caso Márquez si sapeva che era stato il padre, non si è indagato oltre sull’oggetto utilizzato: si è confrontato con alcuni attrezzi che teneva in casa e in macchina, ma senza esiti positivi».

Amaia inserì nel negatoscopio le fotografie che Padua le aveva fornito e accese la luce bianca mentre San Martín sistemava accanto alle altre la foto appena uscita dalla stampante.

Le osservò a lungo scambiandole di posizione e perfino sovrapponendole mentre emetteva dei versi ritmati sottovoce che facevano innervosire Amaia e suscitavano l’ilarità dei suoi aiutanti.

«Se la sentirebbe di dire che tutti i tagli sono stati eseguiti con lo stesso oggetto?» azzardò Amaia, riportando alla realtà il dottore.

«Ah!» esclamò, «questo sarebbe un po’ troppo. Quello che posso dire senza ombra di dubbio è che tutti i tagli sono stati eseguiti con la stessa tecnica, che sono stati tutti effettuati da una persona destrimane, con gran sicurezza e forza comparabile».

Amaia lo guardò, non troppo soddisfatta.

«Anche se», proseguì lui sorridendo di fronte al lampo di speranza che vide balenare negli occhi dell’ispettrice, «con le foto non posso precisare età e sesso delle ossa, sono sicuramente appartenute tutte a persone adulte. Però sono ossa pulite, senza resti di tessuto, e non si può precisare l’età dell’osso così, a occhio, e di sicuro con una foto non posso dirle se provengono da un’amputazione chirurgica o da una profanazione di tombe. È innegabile che a prima vista i tagli sono molto simili e sono tutti avambracci… Ma per dare un giudizio definitivo, avrei bisogno dell’oggetto utilizzato. Potremmo prendere dei calchi delle ossa per poi passarli allo scanner e sovrapporli. Mi dispiace, ispettrice, con le fotografie non posso fare di più: sarebbe diverso se avessimo i campioni».

«La Guardia Civil li tiene nel suo laboratorio, e lo sa quanto siano poco disponibili a condividere le informazioni, no? Sono anni che lo dico: finché non nascerà un dipartimento investigativo indipendente formato da membri di tutti i corpi di polizia che collaborano in uno stesso laboratorio, brancoleremo nel buio», si lamentò Amaia. «Meno male che ci sono poliziotti come Padua a cui interessa davvero risolvere i delitti e non solo riscuotere consensi».

Amaia tornò accanto al corpo e si chinò come poco prima aveva fatto il dottore per esaminare la ferita da vicino.

Il tessuto era incavato e scarnificato, di una secchezza estrema. Era molto chiaro, quasi scolorito in confronto al resto del corpo. Notò i piccoli solchi che la lama aveva disegnato sull’osso e in quel momento le sembrò di notare un frammento aguzzo conficcato nel tessuto.

«Dottore, venga un attimo, per favore. Secondo lei cos’è questo?» gli chiese cedendogli il posto davanti alla lente.

Lui alzò lo sguardo sorpreso.

«Bravissima, Salazar, non l’avevo notato», esclamò soddisfatto. «Sarà un pezzetto di osso che si è staccato durante il taglio», commentò estraendo la scheggia con delle pinzette. Osservò il triangolino alla lente d’ingrandimento e lo posò su un vassoio, dove cadde con un inconfondibile suono metallico. Allora lo portò al microscopio e alzò lo sguardo sorridente mentre cedeva il posto ad Amaia. «Capo Salazar, questo è il dente di una sega metallica, la sega usata per amputare il braccio di questa donna. Se prendiamo il calco di questo dente, riusciremo a stabilire con notevole approssimazione il tipo di sega, e se riuscirà a convincere il giudice Markina, potremo eseguire le analisi per scoprire se è la stessa della grotta di Elizondo. Adesso, se mi permette, vorrei continuare con l’autopsia», disse porgendo il vassoio con il campione all’operatrice della Scientifica, che si mise subito al lavoro.