12

Juanitaenea era dietro l’hotel Trinkete, in uno spiazzo di terra bruna circondato di campi coltivati. Il gruppo di case più vicine si trovava a trecento metri di distanza e stonava con quella casa solitaria di pietra scurita dal tempo, dai licheni e dalla pioggia recente, che sembrava aver impregnato la facciata dandole uno strano color biscotto.

L’ampia grondaia di legno intagliato sporgeva di un metro e mezzo e più, proteggendo dall’umido l’ultima pianta superstite, che per contrasto sembrava più chiara. L’ingresso era al primo piano, a cui si accedeva attraverso una scaletta esterna, striminzita e senza balaustra, che pareva sbucare dal muro e aveva un’aria decisamente troppo stretta e irregolare. Al pianterreno, due archi a tutto sesto si aprivano ai lati della facciata con due porte ormai sostituite da assi di legno grezzo. In compenso, l’enorme cancellata tra i due archi conservava ancora le sue foglie in ferro, che nonostante la ruggine rivelavano la maestria di un fabbro d’altri tempi. Il casolare era circondato di terreni su tutti i lati. Sul retro si vedeva una macchia di vecchie querce, faggi e un salice piangente che Amaia ricordava ergersi superbo nella sua infanzia. Al terreno si accedeva dal davanti, e su un lato si vedeva un orto sui mille metri quadri dall’aspetto curato.

«Sono anni che un contadino si occupa dell’orto. Mi passa un po’ di verdure e se non altro lo tiene in ordine, non come tutto il resto», disse Engrasi indicando la parte anteriore della casa, dove si vedevano assi di legno buttate qua e là, secchi di plastica e resti non identificati di quelli che potevano essere mobili vecchi.

L’entusiasmo di James si spense quando vide la porta in cima a quella strana scaletta.

«Bisogna salire da lì?» chiese guardando i gradini con sospetto.

«C’è una scala interna che porta al secondo piano dalla stalla», spiegò Engrasi porgendogli una chiave con cui indicò il chiavistello e le catene che chiudevano la cancellata.

La vecchissima porta si mise a scricchiolare quando James la spinse verso l’interno. Engrasi schiacciò un interruttore e una polverosa lampadina si accese da qualche parte, diffondendo una luce arancione e troppo fioca che si perse ben presto fra le travi.

«Ecco perché ho insistito per venire di mattina: non c’è molta luce qui dentro», spiegò dirigendosi verso le finestre chiuse con le assi che sembravano ricoperte di polvere e ragnatele. «James, se mi aiuti forse riusciamo ad aprirne una».

Le maniglie di rame sembravano incastrate, ma alla fine cedettero all’insistenza di James, aprendosi verso l’interno e lasciando che la luce del mattino entrasse a fiotti e tracciasse nel buio un fascio perfetto di polvere in sospensione.

James si guardò attorno incredulo.

«Mamma mia, ma è enorme! E anche altissimo!» esclamò affascinato dalle grosse travi che percorrevano il soffitto da un lato all’altro della stanza.

Engrasi sorrise guardando Amaia.

«Venite da questa parte», esclamò indicando una scalinata di legno scuro che si divideva in due eleganti rampe che salivano fino a perdersi nel piano superiore.

James era sconcertato.

«È incredibile che una scalinata del genere si trovi nella stalla…»

«Non così tanto», spiegò Amaia. «Per secoli la stalla è stato il locale più importante delle case, e questa scala era una specie di accesso al garage».

«Fate attenzione quando salite, non so in che stato sia il legno», li avvertì la zia.

Il secondo piano era diviso in quattro grandi stanze, la cucina e un bagno in cui era rimasta solo una pesante vasca con le zampe ad artiglio che Amaia ricordava bene. Nelle pareti spesse erano scavate delle finestrelle con le imposte di legno. Le stanze erano completamente vuote, e dell’antica cucina restava solo il camino in pietra, grande il doppio di tutti gli altri e scurito anch’esso dal tempo.

«Non so perché, ma speravo che i mobili fossero ancora qui», commentò Amaia.

Engrasi annuì con un sorriso.

«Erano dei bei pezzi, quasi tutti artigianali, e sono andati a tuo padre insieme al laboratorio. Io ho ricevuto la casa, la terra e una bella somma di denaro. Sai com’è, l’uomo era lui, era a lui che interessava il laboratorio, mentre io ho preferito studiare, poi mi sono trasferita a Parigi e sono tornata solo due anni prima che morisse tua nonna. Il giorno dopo l’apertura del testamento, tua madre ha chiamato un camion dei traslochi e ha svuotato la casa».

Amaia annuì senza aprire bocca. Che lei ricordasse, nessuno dei mobili di Juanita era mai entrato in casa dei suoi genitori.

«Li avrà venduti di sicuro», sussurrò.

«Sì, credo anch’io».

Sentì James aggirarsi tra le stanze con l’entusiasmo di un bambino a una festa di paese.

«Amaia, hai visto questo?» esclamò aprendo una finestra che dava sulla scaletta angusta della facciata.

«Forse era pensata in caso di neve o di inondazione, ma non mi pare che l’abbiamo mai usata. La cosa più prudente sarebbe tenerla chiusa, o forse addirittura murarla», suggerì Engrasi.

«Ma figurarsi», ribatté James chiudendo la finestra per poi dirigersi verso la stretta rampa interna che portava al piano di sopra.

Amaia lo seguì cullando Ibai nel suo marsupio e canticchiando una canzoncina al bimbo, che sembrava contagiato dall’entusiasmo e sgambettava tutto contento.

Al piano superiore il soffitto era leggermente in pendenza, ma lo spazio perso era davvero poco. Un paio di abbaini rotondi si aprivano sul tetto e la luce del sole invernale illuminava un’unica stanza senza muri divisori, al cui centro si trovava la culletta di Ibai, o almeno così pensò quando la vide.

«Zia!» la chiamò, avvicinandosi alla culla.

«Scusa, tesoro, sono troppe scale per le mie ginocchia», si giustificò Engrasi mentre raggiungeva a fatica il piano superiore.

Amaia si fece da parte per consentirle di vedere la culla di legno scuro. La zia guardò sorpresa prima la culla e poi lei, senza sapere cosa dire. James la ispezionò da vicino.

«È uguale alla nostra, identica, a parte lo strato di vernice che le ho dato io».

«Zia, dove hai preso quella che avevi in casa?» chiese Amaia.

«Me l’ha regalata mia madre quando sono tornata da Parigi e sono andata a vivere da sola. Ricordo che la teneva sotto un telo nella stalla, e così gliel’ho chiesta per usarla come portalegna. Mi piaceva molto, tutta intagliata, ma non ricordavo che ce ne fossero due. Devono essere vostre, tua e delle tue sorelle: forse Juanita le ha portate qui quando avete smesso di usarle».

Amaia passò una mano sul legno polveroso, e in quel preciso istante sentì una lacerazione nel braccio simile a una scarica elettrica. Urlò e fece un balzo all’indietro, e Ibai scoppiò a piangere, spaventato per il grido.

«Amaia, stai bene?» si preoccupò James, correndole vicino.

«Sì…» rispose lei, fregandosi la mano ancora intorpidita.

«Ma che ti è successo?»

«Devo essermi presa un scheggia, o qualcosa del genere».

«Fammi vedere», insistette James.

Dopo averle esaminato con cura la mano, sentenziò sorridente: «Non c’è niente, Amaia, sarà stato uno strappo muscolare».

«Sì», rispose lei senza troppa convinzione.

La zia li guardava dalla scala con la fronte aggrottata, un’espressione che Amaia conosceva alla perfezione.

«Sto bene, zia», ripeté cercando di adottare un tono rassicurante. «Sul serio. Questo attico è davvero una meraviglia».

«La casa è fantastica, Amaia, molto meglio di quanto immaginassi», ribatté James, che si guardava attorno sorridendo come un bambino.

Lei annuì per non deluderlo. Nel preciso istante in cui aveva accettato di andare a vedere Juanitaenea, aveva capito che James si sarebbe innamorato della casa, di quella casa in cui lei era stata centinaia di volte da bambina, e che tuttavia nei suoi ricordi era un seguito di visioni spaiate, come vecchie fotografie in cui si vedeva sempre la nonna in primo piano e la casa in secondo, quasi fosse solo uno scenario nel quale si svolgeva la vita della sua amatxi Juanita. Scese le scale fino all’ammezzato mentre sentiva James spiegare alla zia tutto quello che si sarebbe potuto fare a Juanitaenea.

Entrò in ogni stanza aprendo le imposte e lasciando che un timido sole tra le nuvole illuminasse i locali e proclamasse l’anzianità della carta da parati che rivestiva le pareti. Appoggiata all’ampio davanzale della finestra, guardò in lontananza fino a individuare i campanili della chiesa di Santiago che sbucavano da sopra i tetti imperlati dalla pioggia notturna e rimasti tali per l’umidità del fiume Baztán, che penetrava nelle tegole e nelle ossa, con una sensazione che sembrava rubata al mare e che quel povero sole non sarebbe riuscito a sconfiggere per tutto il giorno. Ibai, tornato tranquillo, socchiuse gli occhi e sentendo il calore del sole le appoggiò la guancia al petto. Amaia gli baciò la testolina inspirando il profumo dai suoi radi capelli biondi.

«Tu che ne dici, amore? Cosa dovrò rispondere al tuo aita quando me lo chiederà? Ti piacerebbe vivere nella casa dell’amatxi Juanita?»

Guardò il figlio, che in quel momento, un attimo prima di arrendersi al sonno, le sorrise.

«Stavo proprio per chiedertelo», esclamò James, che la guardava ipnotizzato dalla porta della stanza. «Cos’ha risposto Ibai?»

Lei si girò per guardarlo.

«Ha risposto di sì».

 

James perlustrò ancora in lungo e in largo Juanitaenea, prima di acconsentire a lasciare la casa.

«Chiamo subito Manolo Azpiroz, un mio amico architetto di Pamplona. Sono sicuro che non vedrà l’ora di fare un sopralluogo», spiegò a Engrasi richiudendo il lucchetto della porta improvvisata.

«Tienila tu», gli rispose la zia quando lui fece per porgerle la chiave. «Ti servirà se vuoi mostrare la casa a quell’architetto tuo amico, no? E poi, per quanto mi riguarda, ormai è vostra. Appena abbiamo un attimo, andiamo dal notaio e sbrighiamo tutte le pratiche».

Lui sorrise e la mostrò ad Amaia.

«La chiave della nostra nuova casa, tesoro».

Amaia scrollò la testa fingendo di disapprovare il suo entusiasmo e si allontanò di qualche passo per guardare meglio la facciata. Sulla pietra sopra la porta e in alto erano incisi il nome Juanitaenea e lo scudo a scacchiera del Batzán. Percepì un movimento alle sue spalle e si girò appena in tempo per vedere un viso rugoso che cercava inutilmente di nascondersi tra i bastoni di sostegno delle piante. La zia andò accanto ad Amaia e disse ad alta voce, rivolta all’uomo: «Esteban, questi sono i miei nipoti».

Lui si raddrizzò guardandoli con una certa ostilità, alzò una mano dalle dita grosse e riprese a lavorare senza dire una parola.

«Mi sa che non gli piacciamo» disse Amaia.

«Non ci badate, vi prego, è anziano, ormai è in pensione e sono vent’anni che si occupa dell’orto. Quando ieri l’ho chiamato per dirgli che sareste diventati i nuovi proprietari, avevo già notato che era diventato di cattivo umore. Forse teme che gli togliate la terra, chissà».

«E gliel’hai detto ieri? Ancora prima che vedessimo la casa, gli avevi già detto che saremmo diventati i nuovi proprietari?» chiese divertita Amaia.

Lei si strinse nelle spalle, sorridendo con aria furba.

«Ho le mie fonti», rispose mentre James la abbracciava.

«Sei una donna fantastica, lo sai? Ma almeno per me, puoi dirgli di stare tranquillo: c’è terreno in abbondanza per piantare anche un giardino attorno alla casa. E poi, avere un orto mi sembra un’ottima idea, solo che d’ora in poi dovrà dare un po’ di verdura anche a noi».

«Ci parlo io, state tranquilli», li rassicurò Engrasi. «È un brav’uomo, un po’ chiuso, questo sì, ma vedrete come cambierà atteggiamento appena saprà che può continuare a lavorare la terra!»

«Non lo so…» sussurrò Amaia, girandosi di nuovo a guardarlo, mentre lui se ne stava mezzo nascosto e sbirciava tra i rami degli arbusti che delimitavano il terreno.

 

Il vento soffiava a folate leggere dissipando i resti della nebbia e tra le nuvole scure si aprivano squarci di sereno. Almeno per un po’ non avrebbe piovuto. Amaia si chiuse il piumino coprendo Ibai e se lo strinse al petto. In quel momento le vibrò il cellulare nella tasca. Guardò lo schermo e rispose.

«Buongiorno, Iriarte».

«Capo, Beñat Zaldúa e il padre sono appena arrivati».

Amaia tornò a guardare il cielo, che si rasserenava sempre più.

«Benissimo, proceda pure con l’interrogatorio».

«Pensavo volesse farlo lei», rispose lui, esitante.

«Se ne occupi lei, per favore, io ho una cosa importante da fare».

Iriarte non rispose.

«Se la caverà benissimo, stia tranquillo», aggiunse Amaia.

Sentì sorridere Iriarte all’altro capo del telefono mentre le rispondeva: «Come dice lei».

«Ah, un’altra cosa: è per caso arrivato il rapporto del medico legale sulle ossa della chiesa?»

«No, per il momento ancora niente».

Riagganciò e un istante dopo digitò il numero di Jonan.

«Jonan, all’impresa funebre è meglio se vai tu. Io ho fatto tardi e ho ancora una cosa da sbrigare».

 

Le foglie cadute durante l’autunno erano ridotte a una poltiglia marrone e gialla che rendeva quasi impossibile procedere lungo la strada forestale senza scivolare con le gomme. Amaia parcheggiò su un lato e camminò con qualche difficoltà fino al limite del bosco. Entrando nel fitto della vegetazione, si accorse che il terreno si faceva più asciutto e compatto, mentre il vento, che l’aveva scrollata per tutto il tragitto, si sentiva appena in mezzo agli alberi e rivelava la sua forza solo agitando le chiome e facendo tremolare come stelle in una notte fredda i raggi del sole che riuscivano a filtrare. Il rumore del ruscello che scendeva dalla collina le indicò la direzione. Salì su un ponticello di cemento anche se avrebbe potuto oltrepassare il torrente saltando sulle pietre asciutte. Controllò la cartina che le aveva fornito Padua e salì ancora di qualche metro finché non arrivò alla grande roccia dietro a cui si trovava la grotta. Da lì il sentiero sembrava abbastanza sgombro: la vegetazione non era ancora riuscita a chiudere il tracciato che le guardie civili avevano aperto tre mesi prima, quando in quella stessa grotta erano state ritrovate ossa umane appartenenti ad almeno dodici individui diversi. All’improvviso le venne un dubbio. Tirò fuori il cellulare, ma si accorse con un certo fastidio che non c’era campo.

«La natura ci protegge», sussurrò.

L’entrata della grotta era abbastanza alta da consentire l’accesso senza abbassare la testa. Prese dalla tasca una torcia potente, e, seguendo l’istinto, estrasse anche la Glock. Tenendo strette torcia e pistola, penetrò nella grotta, che piegava leggermente verso destra, disegnando una piccola esse prima di aprirsi in una sala ampia circa sessanta metri a base rettangolare che si stringeva sul fondo formando un imbuto naturale scavato nella roccia. Il soffitto, di altezza irregolare, raggiungeva i quattro metri nel suo punto più alto, mentre nella zona più bassa costringeva a camminare chinati. L’interno era freddo e secco, forse un paio di gradi al di sotto della temperatura esterna, e sapeva di terra e di qualcosa di più dolciastro che le ricordò l’odore dei rifiuti organici. Ispezionò le pareti e il pavimento, che sembravano puliti, senza resti di ossa, per quanto qui e là la terra apparisse smossa. Nella zona vicina all’ingresso, dove il terreno era più umido, intravide orme di vecchia data e nient’altro. Perlustrò una volta ancora le pareti con la luce della torcia e uscì dalla grotta. Tenne ancora la torcia e la pistola, mentre un brivido le correva lungo la schiena. Tornò alla grande roccia che indicava l’ingresso e salendoci individuò il punto dal quale Mari aveva visto lo sconosciuto. Scendendo verso la riva del torrente e seguendone il corso, aggirò la collina e vide il sentiero che avevano seguito Ros, James e lei quel mattino per salire fin lassù. Amaia se lo ricordava più ripido, ma riconobbe lo spiazzo di erba rada in cui Ros si era dovuta fermare per riprendere fiato. La pista era sgombra e quasi invitante, come se qualcuno vi avesse transitato di recente. Salì lungo il leggero pendio sentendosi più nervosa a ogni passo, come se mille occhi la osservassero e qualcuno si stesse sforzando di trattenere le risate. Quando raggiunse la cima, provò un sollievo straordinario vedendo che non c’era nessuno. Si avvicinò alla grande roccia piatta e con una certa sorpresa notò che era ricoperta di sassolini. Imprecando sottovoce, tornò al sentiero, prese un sasso allungato e lo sistemò accanto agli altri mentre scrutava il paesaggio da sopra le chiome degli alberi. Era tutto tranquillo. Dopo qualche minuto, diede un’occhiata intorno dandosi dell’idiota e intraprese la discesa. Per un attimo ebbe la tentazione di guardarsi indietro, ma la voce di Rosaura le risuonò nella mente. «Devi uscire da dove sei entrata, e se le dai le spalle non ti devi più girare a guardare». Percorse il sentiero a ritroso chiedendosi cosa sperava di trovare e se proprio a questo si riferiva Dupree. Quando fu di nuovo all’altezza del ponticello in cemento, notò qualcosa. In un primo momento le era sembrata una ragazza, ma quando guardò meglio capì che le rocce coperte di muschio e i riflessi del sole tra gli alberi l’avevano fatta confondere. Salì sul ponticello, tornò a guardare ed eccola lì. Una giovane sui vent’anni era seduta a pochi metri dal ponte, su uno de sassi scivolosi del torrente, così vicina all’acqua che sembrava impossibile fosse ancora asciutta. Anche se indossava una giacca di lana, sotto aveva un abito corto che lasciava vedere le sue gambe lunghe, e nonostante il freddo teneva i piedi immersi nel fiume. La visione le parve bella e inquietante, e senza sapere di preciso il perché, portò la mano alla Glock. La ragazza sollevò lo sguardo e sorrise, affascinante, alzando una mano per salutarla.

«Buonasera», disse, quasi cantando.

«Buonasera», rispose Amaia, sentendosi un po’ ridicola. Era solo un’escursionista che si era avvicinata al torrente per immergere i piedi nell’acqua.

Ma certo, un’escursionista tutta sola in mezzo al bosco, con sei gradi di temperatura e i piedi nell’acqua gelida! si derise da sola. Strinse ancor di più il calcio della pistola e la tirò fuori dalla fondina.

«È venuta a lasciare un’offerta?» chiese la giovane.

«Cosa?» ribatté Amaia, colta di sorpresa.

«Ma sì, dai, a lasciare un’offerta alla signora».

Amaia non rispose subito. Osservava la giovane, che senza smettere di guardarla si pettinava i lunghi capelli come se la presenza di Amaia in realtà non le importasse affatto.

«La signora preferisce che si portino le pietre da casa».

Amaia deglutì e si inumidì le labbra prima di parlare.

«In real… in realtà non ero venuta per questo. Io… cercavo una cosa».

La giovane non le prestava grande attenzione. Continuava a pettinarsi con un’attenzione e una dedizione esasperanti, che nel giro di poco divennero ipnotiche.

Una goccia di sudore freddo le scivolò lungo la nuca facendole prendere coscienza della realtà e del fatto che la luce calava rapidamente dietro le cime dei monti. Anche se erano solo le tre o le quattro, si chiese quanto tempo fosse rimasta lì a fissare la ragazza, e fu allora che un tuono rimbombò in lontananza e il vento scrollò le chiome degli alberi.

«Adesso arriva…»

La voce suonò così vicina che la fece sobbalzare e perse l’equilibrio, cadendo in ginocchio. Spaventata, puntò l’arma nel punto da cui proveniva la voce, proprio accanto a lei.

«Ma non hai trovato quello che cercavi».

La giovane adesso era a un paio di metri da Amaia, sorrideva seduta sul bordo del ponticello e con i piedi accarezzava leggera la superficie dell’acqua. Fece una smorfia di disprezzo guardando la pistola che Amaia teneva con entrambe le mani.

«Quella non ti serve; per vedere ti serve la luce».

Amaia non le tolse gli occhi di dosso mentre nella sua mente si formava pian piano un’idea. Mi serve la luce, pensò.

«Una nuova luce», aggiunse la ragazza, che senza più guardare Amaia si rialzò e percorse a piedi scalzi il breve tratto che la separava da un mucchietto di cose che dovevano appartenere a lei.

Contravvenendo all’ordine che le urlava nella testa, Amaia si piegò in avanti per seguirla con lo sguardo oltre il ponticello, ma all’improvviso di lei non c’erano più tracce, quasi non ci fosse mai stata.

«Cazzo!» sussurrò senza fiato, guardandosi attorno con la pistola ancora stretta in mano. Alzò gli occhi al cielo e si rese conto che nel giro di neanche un’ora avrebbe fatto buio. Non aveva l’orologio e quello del cellulare cominciò a sfarfallare mentre i numeri ballavano come impazziti senza mostrare nulla. Infilò la pistola in tasca e si mise a correre verso l’uscita dal bosco con il cellulare in mano, finché l’indicatore di segnale non le indicò che poteva telefonare.

«Salve, capo, è un po’ che cerco di chiamarla. Ho trovato qualcosa all’agenzia di pompe funebri sulle donne originarie del Baztán vittime di morte violenta, e in più mi hanno detto un paio di cosette interessanti».

Amaia lo lasciò parlare mentre riprendeva fiato.

«Poi mi racconti, Jonan, sono sul sentierino sterrato che c’è sulla deviazione verso destra dove ci siamo fermati a parlare con le guardie forestali, ti ricordi?»

Jonan ebbe un’esitazione.

«Va bene, parcheggio sulla strada principale così mi vedi. Mi serve la valigetta con gli strumenti, una lampada blu e il Luminol».

Riagganciò e compose un altro numero.

 

«Padua, sono Salazar», disse sorvolando sui saluti. «Ho una domanda da farti: quando hanno trovato le ossa nella grotta di Arri Zahar, hanno controllato la scena del crimine?»

«Sì, tutti i resti sono stati raccolti, etichettati, fotografati ed esaminati, solo che senza Dna di confronto non si è arrivati a nessuna conclusione, tranne nel caso di Johana Márquez, come lei ben sa».

«Non mi riferisco ai resti, ma alla scena del crimine».

«Non c’era nessuna scena del crimine, o al massimo era del tutto secondaria. Le ossa erano state lanciate in quel punto senza tante cerimonie e senza una disposizione che rivelasse un’attività umana. Anzi, in un primo tempo si era pensato che fossero stati degli animali per via dei morsi e della disposizione dei resti, finché l’autopsia non ha rivelato che quei morsi corrispondevano in realtà a denti umani e che tutte quelle ossa appartenevano a braccia di donne. Ovviamente la grotta è stata perquisita e fotografata nel dettaglio, ma niente stava a indicare che fosse la scena principale del delitto. Sono stati prelevati campioni di terra per trovare tracce di sepolture nascoste o di cadaverina, che avrebbe dimostrato la presenza di un corpo in decomposizione».

Erano stati molto scrupolosi, si disse Amaia, ma non quanto lei.

«Solo un’ultima cosa, tenente. Nel caso della donna assassinata a Logroño, sa per caso se avesse dei parenti? Che ne è stato del cadavere?»

«Vedo che mi è stata a sentire!» commentò, tutto eccitato.

«Sì, e comincio già a pentirmene», scherzò lei a metà.

«No, non lo so, ma adesso chiamo gli agenti con cui ho parlato a Logroño e vediamo cosa mi dicono. Mi faccio sentire appena so qualcosa».

 

Il viceispettore Zabalza controllò l’ora mentre guardava fuori dalle grandi vetrate del commissariato, e notò che una station wagon si avvicinava lungo il vialetto di accesso dopo aver superato la recinzione. La macchina fece delle strane manovre lungo la strada e quando affrontò la salitina per il parcheggio, il motore si spense e servirono diversi tentativi per farlo ripartire e arrivare finalmente ai posti riservati ai visitatori. Lo sportello del passeggero si aprì appena l’auto si fermò e ne uscì un ragazzino magro con un paio di jeans e un piumino rosso e nero. Dall’altro sportello, con una certa fatica, uscì un uomo magro almeno quanto il ragazzino, un po’ più alto e sui quarantacinque anni. Si avviarono verso il portone principale e Zabalza notò che tenevano una distanza costante, come se tra loro esistesse un divario fisso, invisibile e invalicabile, in grado di tenerli separati. Socchiuse gli occhi riconoscendo una lezione appresa tanto tempo prima: in realtà non era la distanza materiale a separare i padri dai figli. Stavano per incontrare Beñat Zaldúa e il padre, l’unico sospettato che fossero riusciti a trovare, e la superstar della polizia aveva cose più importanti da fare che presenziare all’interrogatorio. Li perse di vista quando si infilarono sotto la grondaia dell’edificio e rimase in attesa guardando il telefono in attesa della chiamata.

«Viceispettore Zabalza, sono arrivati il signor Zaldúa e suo figlio, dicono di avere appuntamento con lei».

«Scendo subito».

Da vicino, il ragazzo era incredibilmente bello. I capelli neri in contrasto con la pelle bianchissima gli cadevano sulla fronte, troppo lunghi, coprendogli parzialmente gli occhi e mettendo in bella mostra il livido sullo zigomo. Teneva le mani in tasca e guardava in fondo al corridoio. Il padre gli tese una mano sudata e biascicò un saluto che gli giunse mescolato all’inconfondibile odore dell’alcol.

«Da questa parte, prego». Zabalza aprì la porta di una sala e fece segno di accomodarsi. «Aspettate un momento», disse, sfiorando appena la spalla del ragazzo, che tremò con una smorfia di dolore.

Il sangue gli ribolliva, si sentiva all’improvviso così furioso che faceva fatica a trattenersi. Salì le scale a due a due, troppo agitato per aspettare l’ascensore, ed entrò senza bussare nell’ufficio di Iriarte.

«Giù di sotto ci sono Beñat Zaldúa e il padre: il padre puzza di alcol, è riuscito a parcheggiare a stento e il ragazzo ha un livido in faccia e almeno un altro sulla spalla. L’ho sfiorato mentre passavo e per poco non sveniva dal dolore».

Iriarte lo guardò in silenzio. Chiuse il portatile, prese la pistola che teneva sul tavolo e se la sistemò in vita.

«Buongiorno», disse, sedendosi alla scrivania e rivolgendosi solo al ragazzo, «sono il viceispettore Iriarte, mentre il mio collega lo conosci già. Come ti ho detto ieri al telefono, vorremmo farti qualche domanda sul tuo blog, la storia degli agotes…»

Attese la reazione del ragazzo, ma lui rimase impassibile con gli occhi bassi. Quando Iriarte era ormai convinto che non avrebbe più risposto, si decise ad annuire.

«Ti chiami Beñat… Beñat Zaldúa, un cognome agote…» suggerì.

Il ragazzo sollevò la testa con aria di sfida. Nel frattempo, il padre farfugliava una specie di protesta incomprensibile.

«E ne vado orgoglioso», proclamò Beñat.

«È normale, è giusto esserlo, qualunque cognome si abbia», rispose Iriarte in tono conciliante. Il ragazzo parve rilassarsi un po’.

«È di questo che scrivi nel tuo blog, dell’orgoglio di essere agote, giusto?»

«Quelle porcherie che scrive tutti i giorni l’hanno cacciato nei guai, non fa altro che perdere tempo», protestò il padre.

«Lasci parlare suo figlio», gli ordinò Iriarte.

«È un minorenne», ribatté il padre con voce nasale, «e parlerà solo se io voglio che parli».

Il ragazzo si raggomitolò sulla sedia finché il ciuffo non gli calò del tutto sugli occhi.

Zabalza percepì il tremito della sua mascella.

«Come vuole», disse Iriarte fingendo di arrendersi. «Allora cambiamo argomento: dimmi per esempio cosa ti è capitato all’occhio».

Senza alzare la testa, il ragazzo rivolse uno sguardo di odio al padre prima di rispondere: «Ho sbattuto contro la porta».

«Contro una porta, eh? E alla spalla? Un’altra porta?»

«Sono caduto per le scale».

«Beñat, alzati, togliti la giacca e tira su la camicia».

Il padre fece anche lui per alzarsi, inciampando nelle gambe della sedia e barcollando.

«Non ne ha il diritto, è un minorenne e me lo porto via subito», urlò prendendo il ragazzo per una spalla e facendolo urlare di dolore.

Zabalza si lanciò contro di lui storcendogli il polso e immobilizzandolo contro la parete.

«Si sbaglia di grosso», gli sussurrò. «Adesso le dico come stanno le cose. Dal suo comportamento e dall’odore che emana, sospetto che abbia ingerito un bel po’ di alcol, ed è venuto fin qui in macchina. Le telecamere all’ingresso hanno filmato tutto, perciò in questo preciso istante le misuro il tasso alcolemico. Se si rifiuta la devo arrestare, e se non mi permette di parlare con suo figlio è nel suo pieno diritto, ma purtroppo saremo costretti ad avvisare i servizi sociali, perché, come ha detto lei, suo figlio è minorenne. Loro lo porteranno in un centro medico, gli faranno un check completo e non staranno a sentire le spiegazioni del ragazzo: un medico legale è capacissimo di stabilire se c’è maltrattamento oppure no, e agirà d’ufficio anche se suo figlio non aprirà bocca. Adesso cos’ha da dirmi?»

L’uomo si era arreso subito, e si limitò a chiedere: «Come torno a casa senza macchina?»

 

Iriarte lasciò passare qualche minuto e fece portare una lattina di Coca-Cola per il ragazzo, quindi aspettò che ne bevesse un sorso per riprendere le domande: «Come tutti ad Arizkun, immagino che saprai quello che è successo alla chiesa, no?»

Il ragazzo annuì.

«Da esperto dell’argomento agote, che opinione te ne sei fatto?»

Il ragazzo sembrò sorpreso, si raddrizzò sulla sedia e si scostò la frangetta dagli occhi mentre si stringeva nelle spalle.

«Non saprei…»

«Evidentemente c’è qualcuno che vuole attirare l’attenzione sulla storia degli agotes…»

«Sull’ingiustizia che sono stati costretti a subire gli agotes», precisò il ragazzo.

«Esatto», gli concesse Iriarte, «l’ingiustizia. È stata un’epoca terribile per la società intera, segnata soprattutto dall’ingiustizia… però ormai è passato molto tempo».

«Non per questo è meno ingiusto», ribadì lui con fare sicuro. «Lo sa? È proprio questo il problema: non impariamo dalla storia, le notizie smettono di essere tali pochi giorni dopo essere accadute, a volte bastano addirittura poche ore, e tutto sembra appartenere al passato in un lampo, ma se le dimentichiamo, queste stesse ingiustizie si ripeteranno all’infinito».

Iriarte guardava il ragazzo ammirato dall’eloquenza e dalla passione con cui esponeva i suoi argomenti. Aveva dato un’occhiata al suo blog, certo, ma il discorso di quel ragazzino rivelava una mente acuta e organizzata. Si chiese fino a che punto fosse anche combattiva, fino a che punto il dolore e la rabbia di un adolescente potessero scagliarsi come un ariete contro le istituzioni più diverse della società per denunciare un’ingiustizia che in realtà viveva sulla propria pelle, perché Beñat Zaldúa subiva l’ingiustizia più efferata: il disprezzo del proprio padre, la morte della madre, la solitudine di una mente brillante.

E mentre lo ascoltava raccontare la storia degli agotes di Arizkun, Iriarte decise che il colpevole non poteva essere lui: Beñat Zaldúa nutriva una passione bruciante, ma in fondo era solo un bambino spaventato in cerca di amore, di affetto, di comprensione. E soprattutto, cosa che lo escludeva dalla lista dei possibili sospetti, Beñat Zaldúa era solo, così solo che faceva pena vederlo affannarsi a difendere nobili ideali con il corpo preso a bastonate.

Beñat parlò senza riprendere fiato per venti minuti filati e Iriarte lo ascoltò guardando ogni tanto Zabalza, che era entrato e si era fermato sulla soglia per paura di disturbare. Quando Beñat finì la sua arringa, Iriarte si rese conto di non aver preso appunti mentre lo ascoltava, ma di aver semplicemente tracciato sul foglio una serie di scarabocchi, come gli capitava ogni volta che rimaneva assorto nei suoi pensieri.

Zabalza si fece avanti e guardò negli occhi il ragazzo.

«Tuo padre ti picchia?» gli chiese, commosso, forse trascinato dalla logorrea quasi fanatica del ragazzo, che sembrava aver creato un legame tra i presenti. Un legame che si sciolse nell’istante in cui il viceispettore formulò quella domanda.

Come un fiore che si ripiega dinnanzi al gelo, il ragazzo si richiuse di botto in se stesso.

«Se ti picchia, noi possiamo aiutarti. Non hai altri parenti, zii, cugini?»

«Ho un cugino a Pamplona».

«Secondo te, potresti andare a vivere da lui?»

Il ragazzo si strinse nelle spalle.

«Beñat», proseguì Iriarte, «a parte quello che l’ispettore Zabalza ha detto a tuo padre, la verità è che se non confermi il maltrattamento, nessuno potrà aiutarti. Se vogliamo fare qualcosa per te, prima devi ammettere che tuo padre ti picchia».

«Grazie», rispose con un filo di voce, «ma sono caduto».

Zabalza sospirò sonoramente rendendo manifesta la sua indignazione, ma si guadagnò un’occhiataccia da parte di Iriarte.

«Va bene, Beñat, sei caduto, ma anche se fosse vero, devi farti vedere da un medico».

«Ho già preso appuntamento per domani».

Iriarte si alzò.

«D’accordo, Beñat, è stato un piacere conoscerti», gli disse porgendogli la mano.

Con una certa cautela il ragazzo stese il braccio.

«E se un giorno dovessi cambiare idea, chiama pure e chiedi di me o del viceispettore Zabalza. Adesso vado a vedere come sta tuo padre, mentre tu puoi aspettarlo qui. Visto che non è in condizione di guidare, il viceispettore Zabalza vi accompagnerà a casa».

Iriarte entrò in sala d’attesa e trovò il padre di Beñat che dormiva della grossa con la testa appoggiata alla parete. Lo svegliò senza tanti complimenti.

«Con suo figlio abbiamo finito, la sua collaborazione ci è stata di grande aiuto».

L’uomo lo guardò incredulo mentre si rialzava.

«Ha già fatto?»

«Sì», rispose il poliziotto, ma un attimo dopo si disse che in realtà non poteva finire in quel modo. Allora si piantò di fronte all’uomo e gli tagliò la strada.

«Lei ha un figlio molto in gamba, un bravo ragazzo, e se vengo a sapere che gli mette di nuovo le mani addosso, le giuro che dovrà vedersela con me».

«Chissà cosa le avrà detto, è un gran bugiardo…»

«Ha capito cosa le ho detto?» insistette Iriarte.

L’uomo chinò la testa, ma era ovvio: quelli che picchiano le donne e i bambini raramente fanno i bulli con uno più forte di loro. Aggirò Iriarte e lasciò la sala d’attesa, ma quando fu uscito l’ispettore pensò che non si sentiva affatto meglio, e sapeva anche il perché. Era chiaro che il suo avvertimento non sarebbe bastato.

Zabalza li portò ad Arizkun senza dire una parola, ascoltando solo i respiri dei suoi passeggeri, rigidi come due estranei, o come due nemici. Quando arrivarono all’ingresso di un casolare nei dintorni della città, l’uomo scese dall’auto e si avviò verso casa senza neanche voltarsi indietro, mentre il ragazzo si attardò ancora qualche istante in macchina e Zabalza pensò che forse voleva dirgli qualcosa. Invece niente, rimase semplicemente a guardare verso casa senza decidersi a scendere.

Zabalza spense il motore, accese le luci interne e si girò per poterlo guardare in faccia.

«Anch’io alla tua età ho avuto problemi con mio padre, problemi simili ai tuoi».

Beñat lo guardò come se non capisse di cosa parlava, e Zabalza trasse un profondo sospiro.

«Mi picchiava di brutto».

«Perché era gay?»

A Zabalza mancò il fiato, incredulo di fronte alla sua perspicacia, e alla fine rispose: «Diciamo che mio padre non accettava la mia maniera di essere».

«Non è il mio caso, io non sono gay».

«Questo è il meno, non importa la motivazione che hanno: loro ti vedono diverso e te le danno di santa ragione».

Il ragazzo fece un sorriso amaro.

«So già cosa mi dirà adesso: che ha lottato, che ha mantenuto la sua posizione, e che con il tempo si è risolto tutto».

«No, non ho lottato, non ho mantenuto la mia posizione e con il tempo non è cambiato niente: lui non mi accetta», ribatté. «E io neanche», pensò.

«Allora qual è la lezione? Cosa vuol dirmi con questo?»

«Quello che voglio dirti è che ci sono battaglie perdute in partenza, che a volte è meglio non combattere oggi e rimandare lo scontro a domani, che è molto coraggioso e lodevole combattere per ciò in cui si crede, per la giustizia di qualsiasi tipo, ma bisogna anche saper distinguere, perché quando ti scontri con l’intolleranza, con il fanatismo o con la stupidità, la cosa migliore è farsi da parte, togliersi di mezzo e conservare le forze per una causa che lo meriti davvero».

«Ho solo diciassette anni», protestò il ragazzo, neanche si trattasse di una malattia o di una condanna.

«Tieni duro e vattene appena puoi, vattene da quella casa e vivi la tua vita».

«È quello che ha fatto lei?»

«È esattamente quello che non ho fatto».