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Aveva letto da qualche parte che non bisogna mai tornare nei posti in cui si è stati felici, perché è il modo migliore per cominciare a perderli, e non poteva essere più d’accordo. Quei posti, reali o fantasiosi, idealizzati nella rosea foschia dell’immaginazione, rischiavano di rivelarsi pericolosamente reali, e così deludenti da distruggere in un sol colpo il nostro sogno. Era un buon consiglio per chi aveva più di un posto in cui fare ritorno. Per Amaia era quella casa, la casa che sembrava vivere di vita propria e l’avvolgeva, cullandola tra i suoi muri e infondendole calore. Sapeva che era la presenza visibile o invisibile della zia a dotare la casa di anima, per quanto nei suoi sogni fosse sempre vuota e lei fosse bambina. Usava la chiave nascosta accanto alla porta d’ingresso e correva dentro, folle di rabbia e di paura, ma appena varcata la soglia percepiva le mille presenze che erano lì ad accoglierla, cullandola in una pace quasi uterina. E la bambina che doveva rimanere sveglia tutta la notte per paura che la madre la divorasse poteva finalmente abbandonarsi di fronte al fuoco e dormire.

Entrò in casa e non fece in tempo a togliersi il cappotto che sentì un gran baccano provenire dal salotto. Sedute attorno al grazioso tavolino da poker esagonale, le ragazze dell’allegra brigata non sembravano avere alcun interesse per le carte, buttate con noncuranza sul panno verde, e preferivano fare le coccole al piccolo Ibai, che passava di braccio in braccio con evidente soddisfazione, sia delle anziane che del bambino.

«Amaia, per l’amor del Cielo, è il bimbo più bello del mondo!» esclamò Miren appena la vide.

Amaia scoppiò a ridere di fronte alle esagerate manifestazioni di adorazione delle ragazze, che si profondevano in baci e moine con Ibai.

«Me lo rovinerete a furia di viziarlo così!» le rimproverò per scherzo.

«Oh, tesoro, lasciacelo godere, è una vera meraviglia!» ribatté un’altra anziana, chinandosi sul bimbo, che sorrideva estasiato.

James le si avvicinò per darle un bacio e si scusò indicando le ragazze.

«Mi dispiace, tesoro, ho cercato di oppormi, ma sono troppe e armate di ferri da calza».

Bastò questa frase per farle correre alle loro borse a prendere tutti i golfini, i cappellini e le babbucce che avevano lavorato a maglia per il bimbo.

Amaia prese Ibai in braccio mentre ammirava gli indumenti bellissimi che le anziane stavano confezionando per il figlio. Lo cullò stringendoselo al seno e percepì l’ansia che la sua presenza causava nel piccolo, che subito si mise a piagnucolare per la fame.

Allora andò in camera, si mise sul letto e cominciò a dargli il latte. James la seguì e si sdraiò accanto a lei, abbracciandola da dietro.

«Che mangione!» esclamò. «È impossibile che abbia fame, ha mangiato un’ora fa… eppure appena sente il tuo odore…»

«Poverino, sente la mia mancanza, e anch’io la sua», sussurrò lei, accarezzandolo.

«Oggi pomeriggio è venuto Manolo Azpiroz».

«Chi?» chiese lei, distratta, continuando a guardare il bambino.

«Manolo, il mio amico architetto. L’ho portato a vedere Juanitaenea e gli è piaciuta tantissimo. Ha parecchie idee per ristrutturare la casa conservandone le caratteristiche principali. Torna nei prossimi giorni a prendere le misure per cominciare il progetto. Sono così contento…»

Lei sorrise.

«Mi fa piacere, tesoro», disse, girandosi all’indietro per baciarlo sulla bocca.

Lui rimase assorto qualche secondo, poi cambiò discorso.

«Amaia, oggi a mezzogiorno sono andato al laboratorio con Ibai per fare un saluto a tua sorella, ma appena arrivato Ernesto mi ha detto che era già uscita perché doveva passare un momento da casa. Siccome è lì accanto, mi sono fatto una passeggiatina al sole e l’ho raggiunta».

Amaia sollevò Ibai per fargli fare il ruttino e si mise seduta sul letto per guardare in faccia il marito.

«Ros stava togliendo una scritta dalla sua porta. Quando le ho chiesto cosa le fosse capitato, ha dato subito la colpa a qualche stupido graffitaro… Io ho fatto finta di niente, ma ho visto benissimo che non era affatto un graffito: era un insulto, Amaia. Ormai aveva cancellato quasi tutto, ma si riusciva ancora a leggere».

«E cosa diceva?»

«Assassina».

 

L’aroma di pesce al forno si era diffuso per tutta la casa quando scesero per la cena. Ros aiutava la zia ad apparecchiare e Amaia sistemò Ibai sulla sdraietta per tenerselo vicino. Mangiò di gusto il txitxarro con le patate, meravigliandosi come sempre che fosse così semplice eppure così gustoso, e pensando che la sua fame era ben giustificata, visto che non aveva quasi toccato cibo per tutto il giorno. Dopo cena, mentre gli altri sparecchiavano, mise a letto Ibai e tornò in sala appena in tempo per fermare Ros prima che andasse a dormire.

«Rosaura, ti va di leggermi le carte?»

Questa domanda attirò all’istante l’attenzione della zia, che si fermò con i piatti in mano per ascoltare.

Ros distolse lo sguardo, con aria evasiva.

«Oh, Amaia, sono stanchissima, perché non lo chiedi alla zia? Se non sbaglio, sono giorni che vorrebbe farlo, vero, zia?» disse entrando in cucina.

Engrasi si scambiò un’occhiata d’intesa con Amaia, ma rimase perplessa e rispose: «Ma certo, tu vai pure a dormire, tesoro».

Quando Ros e James se ne furono andati, le due donne si sedettero una di fronte all’altra e rimasero in silenzio mentre Engrasi si dedicava al rito cadenzato di sciogliere i nodi del fazzoletto di seta in cui era avvolto il mazzo di tarocchi, per poi mescolare le carte lentamente tra le sue dita bianche e ossute.

«Mi fa piacere che ti sia finalmente decisa ad affrontare il problema, tesoro. Da qualche settimana a questa parte, ogni volta che prendo le carte sento l’energia che fluisce verso di te».

Amaia sorrise senza troppa convinzione. La sua richiesta a Ros era semplicemente la scusa perfetta per poterle parlare a quattr’occhi della situazione al laboratorio.

«Ecco perché sono rimasta sorpresa quando hai chiesto a Ros di farti le carte, ma di sicuro avevi le tue buone ragioni, giusto?»

«Ros ha un problema».

L’anziana rise controvoglia.

«Amaia, lo sai benissimo che voglio molto bene a tutte e tre, che farei qualsiasi cosa per voi, ma ormai dovresti cominciare ad ammettere che tua sorella non solo è più grande di te, ma è anche un’adulta, e Ros ha un carattere e una maniera di essere per sua stessa natura problematici. È una di quelle persone che soffrono come se portassero sulle spalle una croce invisibile, ma guai se cerchi di alleggerire il loro carico. Puoi offrirle il tuo aiuto, ma non ti intromettere perché lo interpreterà come una mancanza di rispetto».

Amaia ci pensò su e annuì. «Mi pare un buon consiglio».

«Che ti guarderai bene dal seguire…» proseguì Engrasi.

L’anziana sistemò il mazzo di fronte alla nipote e attese che lo tagliasse, quindi prese i due mazzetti e li mescolò di nuovo prima di disporli davanti a lei, mentre la guardava scegliere le carte.

Amaia non le toccava, ma si limitava a tenere un dito sopra ogni carta scelta, quasi volesse lasciarci l’impronta digitale, e senza neppure sfiorarle aspettava che Engrasi le prendesse per decidere la successiva. Quando arrivò a dodici, la zia le mise in cerchio come fossero le lancette dell’orologio o i punti cardinali della bussola. Mentre procedeva a scoprire le carte, la sua espressione passò dalla sorpresa inziale all’ammirazione più assoluta.

«Oh, bambina mia, quanto sei cresciuta! Guarda che donna sei diventata!» esclamò indicando la carta dell’imperatrice. «Sei sempre stata forte, altrimenti non avresti potuto sopportare le dure prove che hai dovuto subire, ma in quest’ultimo anno si è manifestato un nuovo aspetto della tua personalità», spiegò indicando un’altra carta, «una porta che hai aperto senza nessuna speranza e dietro la quale ti aspettava qualcosa d’insolito, qualcosa che ha cambiato il tuo modo di guardare le cose».

Amaia viaggiò nel tempo e nello spazio tornando a quegli occhi ambrati che l’avevano guardata nel folto del bosco, e sorrise senza volere.

«Le cose non succedono e basta, Amaia: non è stato il destino e neppure il caso». Engrasi toccò una carta con il dito e lo tolse di scatto come se avesse ricevuto una piccola scossa. Sollevò lo sguardo, sorpresa. «Questo non lo sapevo, non mi era mai stato mostrato».

Amaia si incuriosì ancora di più e squadrò con occhi avidi l’immagine colorata della carta.

«La condanna che incombeva su di te risaliva già a prima della tua nascita».

«Ma…»

«Non m’interrompere», tagliò corto Engrasi. «Sapevo che eri sempre stata diversa, che l’esperienza con la morte segna le persone per sempre, ma in maniera molto differente. Può trasformare nell’ombra timorosa di ciò che si sarebbe potuto diventare, oppure, come nel tuo caso, può infondere una forza inaudita, una capacità e un discernimento fuori dal comune. Ma secondo me tu eri così già da prima, secondo me l’amatxi Juanita lo sapeva, tuo padre lo sapeva, tua madre lo sapeva e anch’io l’ho saputo quando ti ho conosciuto al mio ritorno da Parigi. La bambina con lo sguardo da guerriero che nelle vicinanze della madre si muoveva sempre pronta a buttarsi a terra, a distanza di sicurezza, evitando il contatto e lo sguardo e trattenendo il fiato finché si sentiva osservata. La bambina che non dormiva per non essere divorata.

«Amaia, sei cambiata e questo è un bene, perché era inevitabile, ma è anche un pericolo. Grandi forze incombono su di te e ti tirano da tutte le parti. Eccolo qui», disse indicando una carta. «Il guardiano che ti protegge, che ti ama in modo puro e non ti abbandonerà mai, perché proteggerti è il suo scopo. Qui», proseguì indicando la carta successiva, «l’esigente sacerdotessa che ti spinge alla battaglia, pretendendo da te una fedeltà e una dedizione fuori dal comune. Ti ammira e ti userà come ariete contro i suoi nemici, giacché per lei sei solo un’arma, un soldato che spedisce contro il male ed è al suo servizio nella lotta ancestrale per recuperare l’equilibrio. Un equilibrio che si è rotto con un atto abominevole che ha risvegliato le bestie, i poteri che per secoli erano stati sopiti nelle profondità della valle, e che adesso devi aiutare a ridurre nuovamente all’obbedienza».

«Ma lei è buona?» Amaia sorrise alla zia: qualunque forma prendesse, l’affetto di Engrasi era sempre autentico e incondizionato.

«Non è né buona né cattiva: è la forza della natura, l’equilibrio giusto, e può essere crudele e spietata come la stessa madre terra».

Amaia guardò di nuovo con attenzione le carte e, tornando indietro, ne indicò una.

«Hai detto che qualcuno ha rotto l’equilibrio con un atto abominevole. Dupree mi ha detto di cercare nell’origine cosa potrebbe aver scatenato tutto il male».

«Oh, Dupree!» esclamò la zia con una smorfia di disgusto. «Perché non ti decidi a lasciarlo perdere? Amaia, guarda che potrebbe farti male davvero, non è uno scherzo».

«Lui non mi farebbe mai del male».

«Forse non il Dupree che hai conosciuto tu, ma come fai a essere sicura che sia ancora dalla tua parte dopo quello che è successo?»

«Perché lo conosco, zia, e non m’importa quanto siano cambiate le cose. Continua a essere il miglior agente analista che abbia mai conosciuto, un poliziotto integro e corretto, che adesso si ritrova in questa situazione solo per colpa della sua onestà. Non è affar mio giudicarlo: lui mi ha sempre appoggiato ed è stato e continua a essere il miglior consigliere che un poliziotto possa avere. E non mi metterò ad analizzare il suo comportamento perché non spetta a me: io so solo che quando lo chiamo, lui c’è sempre».

La zia rimaneva serissima, guardandola in silenzio. Strinse le labbra e disse: «Promettimi che non interverrai in quell’indagine in nessun modo».

«È un caso dell’Fbi dall’altra parte del mondo, non so proprio come potrei intervenire».

«Non interverrai in nessun modo», insistette Engrasi.

«Non lo farò… a meno che non sia lui a chiedermelo».

«Non lo farà, se è tuo amico come dici».

Amaia guardò le carte in silenzio, ne prese una e la strisciò sul tavolo spingendo tutte le altre fino a formare un mucchio.

«Dimentichi che con me parla, che mi sta a sentire ogni volta che lo chiamo. Non credi che questo basti già a distinguermi, a collocarmi in una condizione di privilegio?»

«Dubito molto che sia un privilegio; piuttosto, mi pare una maledizione».

«In ogni caso è la stessa maledizione che mi ha scelto già da prima che nascessi, no?» ribatté indicando le carte. «La stessa che popola i miei sogni di morti che si chinano sul mio letto, di guardiani del bosco e di signore della tempesta», aggiunse in tono rabbioso, alzando un po’ la voce. «Zia, è tutta una gran perdita di tempo!» esclamò, improvvisamente stanchissima.

Engrasi si coprì la bocca, incrociando le mani sulle labbra mentre guardava la nipote con timore crescente.

«No, no, no, zitta, Amaia. “Non devi credere”…»

Amaia si fermò e concluse la formula antica che migliaia di baztanesi avevano recitato per centinaia di anni.

«… “che esistano, non devi mai dire che non esistono”».

Rimasero in silenzio per qualche secondo, mentre riprendevano fiato ed Engrasi guardava le carte tutte sottosopra.

«Non abbiamo ancora finito», disse indicando il mazzo.

«Temo proprio di sì, zia, adesso ho da fare».

«Ma…» protestò Engrasi.

«Riprenderemo un’altra volta, te lo prometto», disse alzandosi e indossando il cappotto. Quindi si chinò a dare un bacio alla zia. «Vai a dormire, non farti trovare qui quando torno a casa».

Ma la zia non si mosse, ed era ancora seduta lì quando Amaia uscì di casa.

 

Notò subito che l’umidità del fiume, mescolata alla nebbia calata dai fianchi delle montagne al tramonto, si incollava al suo cappotto di lana nera rendendolo grigio con le sue migliaia di goccioline microscopiche.

Camminò per la strada deserta verso il ponte e si soffermò qualche secondo, controllando l’ora sul cellulare mentre rivolgeva uno sguardo al fiume scuro in cui la chiusa rimbombava nel silenzio della notte. L’osteria Txokoto e il Trinkete erano già chiusi e non si vedevano luci all’interno. Si insinuò tra le case, incollata ai muri, fino all’ingresso principale del laboratorio. Quando fu sull’angolo si fermò qualche secondo ad ascoltare, e solo quando ne fu certa avanzò al buio nel parcheggio fino al retro dell’edificio, si nascose tra i bidoni dell’immondizia e toccò la torcia, il cellulare e l’arma che teneva alla cintura. Sorrise d’istinto. Trascorse così quasi mezz’ora, finché finalmente percepì uno scricchiolio sulla ghiaia. Passi in avvicinamento. Una sola persona, non molto alta e vestita tutta di nero, avanzò decisa fino alla porta del magazzino. Amaia attese di sentire il tintinnio delle biglie contro le pareti della bomboletta e lo sfrigolio del gas un istante prima della spruzzata di vernice. Un paio di segni, agitare un altro po’, un altro sfrigolio di gas… Sbucò da dietro un bidone e puntò la torcia contro il graffitaro mentre con l’altra mano lo inquadrava con la fotocamera del cellulare.

«Fermo, polizia!» urlò, utilizzando la formula classica e scattando una serie di foto in successione.

La donna lanciò un grido breve e stridulo mentre gettava la bottiglietta per terra e scappava via di corsa.

Amaia non si prese la briga di inseguirla: non solo l’aveva riconosciuta, ma in più aveva un paio di belle foto in cui si vedeva la donna con i capelli bianchi che le brillavano come un’aureola attorno alla testa per effetto della luce potente della torcia, con lo spray in mano, un insulto pesante scritto a metà alle sue spalle e una faccia spaventata davvero impagabile. Si chinò per infilare la bomboletta spray in una bustina trasparente e si incamminò verso la casa della graffittara notturna.

 

La suocera di sua sorella aprì la porta. Le aveva lasciato il tempo di infilarsi una vestaglietta a fiori viola sopra i vestiti, ma il suo respiro ancora agitato tradiva lo sforzo della gran corsa per tornare a casa. Amaia era certa che non fosse riuscita a vederla in faccia, per quanto di sicuro doveva aver sentito la sua voce quando le aveva intimato l’alt. Quella donna non era una stupida: se le restava ancora qualche dubbio sull’identità della persona che l’aveva sorpresa, si dissipò quando la vide sulla soglia. Eppure ebbe il coraggio di fare l’arrogante.

«Che ci fai tu qui? Quelli della tua famiglia non sono i benvenuti in questa casa, tantomeno a quest’ora di notte», protestò atteggiandosi a persona perbene e guardando l’orologio con aria indignata.

«Oh, non cercavo lei; volevo vedere Freddy».

«Invece lui non vuole vederti», rispose prendendo coraggio.

Dall’interno si sentì una voce roca che riconobbe a stento.

«Sei tu, Amaia?»

«Sì, Freddy, volevo parlarti», rispose, alzando la voce per farsi sentire.

«Lasciala entrare, amá».

«Non è il caso», ribatté la donna in tono meno convinto.

«Amá, ti ho detto di lasciarla entrare». La voce tradiva stanchezza.

La donna non replicò, ma rimase ferma sulla porta, guardandola imperterrita.

Amaia le posò un braccio sulla spalla e la spostò con fermezza, spingendola all’indietro e contemporaneamente sostenendola per non farle perdere l’equilibrio. Si diresse verso la saletta, che era stata tutta rinnovata per fare spazio alla sedia a rotelle di Freddy in mezzo alle poltrone di fronte al televisore, sempre acceso anche senza volume.

L’atteggiamento con cui stava seduto su quella sedia era piuttosto naturale e non si notava subito che era paralizzato dal collo in giù. Ma in realtà non c’era più traccia del corpo atletico di cui era sempre andato orgoglioso, e al suo posto restava a malapena uno scheletro rivestito di carne che gli indumenti pesanti non riuscivano a camuffare. Ma il suo viso era ancora bello, forse più che mai, perché vi regnava una sorta di serenità malinconica che, combinata con il pallore, smentito solo dal rossore degli occhi, gli dava un aspetto più benevolo e misurato di quanto non fosse mai stato in realtà.

«Ciao, Amaia», la salutò con un sorriso.

«Ciao, Freddy».

«Sei sola?» chiese guardando verso l’ingresso. «Pensavo che forse… Ros…»

«No, Freddy, sono venuta da sola, devo parlare con te».

Lui non sembrò sentirla.

«Ros sta bene? Non viene mai a trovarmi, invece mi farebbe così piacere… ma è normale che non mi voglia vedere».

La madre, che era rimasta appoggiata contro la porta guardandola con ostilità, lo interruppe infuriata.

«Normale! Non è normale per niente, a meno che non si abbia cuore, come nel suo caso».

Amaia non la guardò neppure. Avvicinò una poltrona alla sua sedia e si sedette a guardare l’ex cognato.

«Mia sorella sta bene, Freddy, ma forse dovresti spiegare a tua madre perché è normale che Ros non voglia vederti».

«Non serve che mi dica proprio niente!» tornò alla carica la madre. «Lo so benissimo come stanno le cose: dopo quello che ha fatto al mio povero figlio, non ha il coraggio di farsi vedere da queste parti. E ti dico una cosa: fa bene, perché se la vedessi alla porta giuro su Dio che non risponderei delle mie azioni!»

Amaia la ignorò di nuovo.

«Freddy, a questo punto è fondamentale che tu parli con tua madre».

Lui deglutì a fatica prima di rispondere: «Amaia, questa cosa riguarda solo me e Ros, e non credo che mia madre…»

«Ti ho detto che Ros sta bene, ma non è del tutto vero: c’è un problemino che negli ultimi tempi la preoccupa…» spiegò mostrandogli lo schermo del cellulare con l’immagine di sua madre colta sul fatto a scrivere sul muro.

La sorpresa di Freddy fu autentica.

«Cos’è questa foto?»

«È tua madre una ventina di minuti fa, mentre scrive insulti sulla porta del laboratorio: ecco a cosa si dedica da qualche mese a questa parte, a tormentare Ros, a minacciarla, e a scrivere “puttana assassina” sui muri della pasticceria e sulla sua porta di casa».

«Amá

Lei rimase in silenzio con gli occhi a terra e una smorfia di disprezzo dipinta in faccia.

«Amá!» gridò ancora Freddy con una forza inimmaginabile. «Si può sapere che sta succedendo?»

Lei cominciò a respirare sempre più in fretta, quasi ad ansimare, e all’improvviso si gettò su di lui per abbracciarlo.

«E cosa volevi che facessi? Ho fatto quello che dovevo fare, il minimo per una madre. Ogni volta che la incrocio, mi viene voglia di ucciderla per quanto ti ha fatto soffrire».

«Lei non ha fatto niente, amá, sono stato io».

«Ma per colpa sua, perché è un’ingrata, perché ti ha lasciato e il dolore ti ha fatto impazzire, povero figlio mio», esclamò piangendo di rabbia mentre si abbracciava alle sue gambe inerti. «Ma guardati!» urlò, alzando la testa. «Guarda come sei ridotto per colpa di quella puttana!»

Freddy piangeva in silenzio.

«Diglielo, Freddy», lo incoraggiò Amaia. «Digli perché eri sospettato della morte di Anne Arbizu, dille perché Ros se n’è andata di casa, e dille perché hai cercato di toglierti la vita».

La madre scrollò la testa con forza.

«Lo so benissimo il perché».

«No, non lo sa».

Lui piangeva continuando a fissare la madre.

«È arrivato il momento, Freddy, il tuo silenzio sta facendo soffrire troppe persone, e vista la tendenza naturale della tua famiglia a commettere gesti istintivi, non mi stupirei se tua madre finisse per fare una sciocchezza. Glielo devi, ma soprattutto lo devi a Ros».

Freddy smise di piangere e il suo viso tornò ad assumere l’aspetto sereno che tanto l’aveva sorpresa poco prima.

«Hai ragione, glielo devo».

«Non devi proprio niente a quella disgraziata!» strillò la madre.

«Non insultarla, amá, non se lo merita. Ros mi ha amato, si è presa cura di me e mi è stata fedele. Quando se n’è andata di casa, l’ha fatto perché ha scoperto che io mi vedevo con un’altra donna».

«Non è vero», rispose la madre, incapace di rassegnarsi. «Quale donna?»

«Anne Arbizu». Sussurrò il nome e, nonostante i mesi trascorsi, Amaia si accorse che il dolore non era passato.

La madre aprì la bocca, incredula.

«Mi sono innamorato di lei come un ragazzino, ho pensato solo a me stesso. Ros lo sospettava, e quando non ce l’ha fatta più, se n’è andata. Poi, quando ho saputo che Anne era stata uccisa, non sono riuscito a sopportarlo e… sì, quello che ho fatto lo sai».

La madre si alzò e prima di uscire dalla sala si limitò a sussurrargli: «Avresti dovuto dirmelo». Quindi si lisciò i vestiti e si chiuse in cucina asciugandosi le lacrime.

Amaia rimase immobile di fronte a lui, abbozzando un’aria desolata mentre continuava a fissare il corridoio dove si era appena dileguata la madre.

«Non ti preoccupare per lei», la rassicurò lui con aria pacifica, «le passerà. In fin dei conti, mi ha sempre perdonato tutto, e questa volta non sarà diverso. Mi dispiace solo per Ros, spero non avrà pensato che io… insomma, che io avessi a che fare con questa storia».

«No, non credo proprio…»

«Le ho fatto tanto male perché sono un istintivo, un idiota, ma anche in maniera consapevole: è solo che, Amaia, Anne mi ha annebbiato il cervello, sono come impazzito. Io stavo bene con Ros, l’amavo, te lo giuro, ma quella ragazza, Anne… con Anne era un’altra cosa. Mi è entrata nella testa e non ho potuto farci niente. Se ti sceglieva, non avevi più scampo perché lei era terribilmente forte».

Amaia lo guardava sconcertata mentre lui parlava come sotto incantesimo.

«Lei mi ha scelto e ha mosso i fili, manovrandomi come una marionetta. Non ho dubbi che avesse provocato Víctor, ma di sicuro si vedeva anche con tua sorella».

«Ros ha giurato che la conosceva solo di vista», si stupì Amaia.

«Non intendo Ros, ma Flora. Un giorno sono passato per caso dal laboratorio e le ho viste insieme: Anne è uscita dalla porta sul retro, hanno parlato un po’ e poi si sono salutate con un abbraccio molto affettuoso. La domenica successiva, mentre prendevamo un vermut sotto i gorapes, Flora si è fermata a salutarci e ci ha detto che tornava dalla messa. In quel momento è passata Anne, e io ho fatto finta di non conoscerla. Ros non si è accorta di nulla, ma Flora si è comportata in maniera ancora più smaccata di me, e questo mi ha stupito molto, dopo che le avevo viste insieme. Così, quando ho rivisto Anne le ho chiesto spiegazioni, ma lei ha negato tutto, mi ha detto che mi sbagliavo e si è persino arrabbiata, perciò ho lasciato perdere. In fin di conti, per me era lo stesso».

«Ne sei sicuro, Freddy?»

«Sì, sicurissimo».

Amaia rimase assorta nei suoi pensieri.

«Ogni tanto viene a trovarmi».

«Chi?»

«Anne. Una volta all’ospedale, e altre due da quando sono tornato a casa».

Amaia lo guardò senza sapere cosa dire.

«Se potessi muovermi, la farei finita. Le streghe non riposano quando muoiono, e i suicidi neanche, lo sai?»

 

Mentre parlava con Freddy aveva sentito vibrare il cellulare, ma vista la situazione aveva deciso di ignorarlo. Quando uscì di casa vide che c’erano due chiamate perse di Jonan, così pigiò il tasto di richiamata e attese di sentire la sua voce.

«Capo, ho trovato due parenti delle donne assassinate: la sorella di una, a Bilbao, e la zia dell’altra, a Burgos, ed entrambe sono disponibili a incontrarla».

Guardò l’orologio e vide che era mezzanotte passata.

«È un po’ tardi per chiamarle adesso. Chiamale tu domani mattina presto e avvertile che passo a trovarle. Mandami un sms con il loro indirizzo».

«Non vuole che l’accompagni, capo?» chiese Jonan, un po’ deluso.

Amaia ci pensò su un istante e decise di no: quella era una cosa che doveva fare da sola.

«No, Jonan, ne voglio approfittare per andare a trovare mia sorella Flora a Zarautz e discutere di una questione personale. Tu riposati: negli ultimi giorni non hai quasi alzato il naso dal computer, e visto che le cose ad Arizkun si sono calmate prenditi una pausa e ne parliamo quando torno».

Era quasi arrivata a casa della zia, quando intravide la sagoma di qualcuno che l’aspettava nell’ombra tra due lampioni, e d’istinto si portò la mano alla pistola. Poi l’uomo fece un passo avanti e uscì allo scoperto. Fermín Montes, chiaramente ubriaco, aspettò che gli si avvicinasse.

«Amaia…»

«Come osa venire qui?» lo zittì lei, infuriata. «Questa è casa mia, lo capisce? Non ha nessun diritto».

«Devo parlarle», spiegò lui.

«Allora prenda appuntamento. Venga nel mio ufficio e mi dica quello che deve, ma non può aspettarmi nel corridoio del commissariato o davanti alla porta di casa; non dimentichi che sono nel pieno di un’indagine e che lei è sospeso».

«Prendere appuntamento? Pensavo che fossimo amici…»

«Questa frase me la ricordo…» disse in tono ironico. «Non era mia? E qual è stata la sua risposta? Ah, sì: “Allora continui a pensarlo”».

«Le valutazioni sono questa settimana».

«Evidentemente non se ne preoccupa molto, visto il suo comportamento».

«Che cosa dirà su di me?»

Amaia si girò verso di lui, incredula di fronte a tanta sfacciataggine.

«Non se lo immagina?»

«Che cosa dirà su di me?» insistette lui.

Lei lo scrutò in viso. Aveva due grosse borse sotto gli occhi e nuove rughe gli erano apparse sul viso grigiastro e attorno alla bocca, contratta in una smorfia di sdegno e disappunto.

«Che cosa dirò su di lei? Che lei è lo stesso che si è fatto quasi saltare il cervello l’anno scorso».

«Andiamo, Salazar, lo sa benissimo che non è così», protestò lui.

«Prenda appuntamento», ripeté Amaia, tirando fuori la chiave e dirigendosi verso casa. «Non ho nessuna intenzione di continuare a parlare con lei».

Lui la seguì con lo sguardo, storcendo la bocca.

«Non mi servirà a molto prendere appuntamento con lei. A quanto si dice in giro, passa più tempo fuori che dentro il commissariato, e lascia il lavoro agli altri. Vero, Salazar?»

Lei si girò di scatto e gli sorrise, ma un istante dopo cancellò il sorriso e gli disse in tono brusco: «Capo Salazar. È questo il nome che deve fare quando chiederà l’appuntamento».

Montes si irrigidì e arrossì visibilmente, persino alla fioca luce del lampione. Amaia era convinta che le avrebbe risposto, e invece si girò e andò via.

 

Si tolse gli stivali prima di salire le scale e come sempre fu ben contenta di aver preso l’abitudine di lasciare una lucina accesa nella stanza durante la notte. Rimase a fissare Ibai per un minuto intero, che dormiva con le braccia distese e le mani aperte come stelle di mare puntate a nord e a sud, le vene del collo bianchissimo che pulsavano leggere. Si spogliò ed entrò nel letto tremando di freddo. James si mosse quando la sentì e la abbracciò stringendola forte e sorridendo senza aprire gli occhi.

«Hai i piedi gelati», le sussurrò stringendoli tra i suoi.

«Non solo i piedi…»

«Cos’altro?» chiese lui, mezzo addormentato.

«Qui», indicò lei portandogli la mano sui seni.

James aprì gli occhi in cui il sonno si dileguava rapidamente e si sollevò su un fianco, senza smettere di accarezzarla.

«Ancora freddo?»

Lei sorrise con gli occhi dolci, fingendosi afflitta.

«Dove?» chiese ancora James, montandole di sopra. «Qui?» indicò baciandole il collo.

Lei fece segno di no.

«Dammi un indizio», chiese sorridendo. «Più in basso?»

Lei annuì, facendo la timida.

Lui scese sempre più in basso. «Mi sa che ho trovato il posto», le disse baciandola tra le cosce. Poi risalì all’improvviso, con aria esageratamente arrabbiata.

«Ma… mi hai detto una bugia!» esclamò. «Qui non è affatto gelido, anzi mi pare bollente…»

Lei sorrise maliziosa e lo spinse di nuovo verso il basso.

«Torna al lavoro, schiavo».

E lui ubbidì.

 

Il bimbo piangeva, lo sentiva da lontano, come se fosse in un’altra stanza, e così aprì gli occhi, si alzò e andò a cercarlo. Sentì sulla pianta dei piedi il calore del pavimento in legno riscaldato dal camino, mentre i fasci di luce solare che filtravano dai vetri disegnavano sentieri di polvere in sospensione che si infrangevano al suo passaggio.

Cominciò a salire le scale mentre ascoltava il pianto lontano, che tuttavia non le metteva ansia, ma solo la curiosità di una bimba di nove anni. Si guardò le mani sulla balaustra e i piedi piccolini, che spuntavano da sotto la camicia da notte bianca che l’amatxi Juanita le aveva cucito e ricamato, e il passanastro di pizzo da cui sbucava un nastro rosa chiaro che lei stessa aveva scelto tra tutti quelli che la nonna le aveva mostrato. Un suono ritmico accompagnava adesso il piagnucolio di Ibai, tac, tac, come la cadenza delle onde, come il meccanismo di un orologio. Tac, tac, e il pianto si spense gradualmente fino a dissolversi. E allora si sentì chiamare.

«Amaia». La voce suonò dolce e lontanissima, come il pianto del bimbo poco prima.

Continuò a salire, fiduciosa, sicura, era in casa della sua amatxi e niente di brutto poteva accaderle.

«Amaia», chiamò di nuovo la voce.

«Arrivo», rispose lei, e sentendosi pensò a quanto si somigliassero le due voci, quella che chiamava e quella che rispondeva.

Si fermò sul pianerottolo qualche secondo, ad ascoltare nel silenzio della casa il crepitio della legna nei caminetti, gli scricchiolii del pavimento sotto il suo peso e il ritmo del tac, tac che sembrava provenire da sopra.

«Amaia», chiamò una voce di bambina triste.

Allungò la manina per toccare il corrimano e ricominciò a salire l’ultima rampa mentre sentiva sempre più distinto il tac, tac. Un passo, un altro, quasi al ritmo segnato da quei colpi, finché non arrivò in cima. Allora Ibai ricominciò a piangere e lei vide che il suo pianto proveniva dalla culla, che oscillava da un lato all’altro al centro dello stanzone, come se una mano invisibile la dondolasse forte facendola sbattere contro il bordo di legno. Tac, tac, tac, tac. Corse fin lì allungando le braccia per cercare di fermare la culletta, e fu allora che la vide. Era una bambina, indossava una camicia da notte che era sua, stava seduta in un angolo, i capelli lunghi le cadevano sulle spalle fino al petto e piangeva in silenzio lacrime così dense e scure da sembrare olio di motore, che le scendevano in grembo impregnando la camicia e macchiandola di nero. Amaia provò un dolore immenso riconoscendo quella bimba che era lei stessa, morta di paura e di abbandono. Avrebbe voluto dirle di non piangere più, tanto sarebbe passato tutto, ma la voce le si spezzò in gola quando la bimba alzò il moncherino che le restava del braccio e indicò la culla in cui Ibai piangeva ormai fuori di sé.

«Non lasciare che l’amá se lo mangi come ha fatto con me».

Amaia si girò verso la culla, prese in braccio Ibai e si precipitò giù dalle scale mentre sentiva la bimba ripetere il suo avvertimento.

«Non lasciare che l’amá se lo mangi!»

E mentre scendeva inciampando con Ibai stretto al petto, vide gli altri bambini, tutti piccoli e tristi, che la aspettavano allineati sui due lati della scala, e senza aprire bocca alzavano le braccine amputate guardandola con gli occhi gonfi di lacrime. Gridò, il suo grido perforò il sogno e la riportò alla realtà, sudata e tremante, con le mani al petto quasi a stringere ancora il figlio, con la voce della bimba che gridava dall’inframondo.

James dormiva, ma Ibai si agitava irrequieto nella culletta. Lo prese in braccio senza essersi scrollata di dosso il sogno e accese la luce del comodino per dissiparlo una volta per tutte. Guardò l’ora e vide che presto avrebbe fatto giorno. Sdraiò il bimbo accanto a sé nel letto e gli diede il seno mentre lui la guardava con gli occhi sgranati e le sorrideva tanto da perdere il ritmo della suzione, per poi protestare un istante dopo per la fame. Amaia gli diede l’altro seno, ma si accorse che non bastava ancora. Guardò il figlio con aria triste, sospirò e scese in cucina a preparargli un biberon. Alla fine la natura stava seguendo il suo corso e la quantità di latte che riusciva a produrre si era ridotta con la diminuzione delle poppate; il suo corpo si stava semplicemente regolando. Ormai non riusciva quasi più ad allattarlo, chi voleva prendere in giro? Di sicuro non la natura. Tornò nella stanza, dove James si era svegliato e si prendeva cura del piccolo. La guardò sorpreso quando lei lo prese in braccio e gli diede il biberon con le guance rigate di lacrime.