15
Da bambina le sarebbe piaciuto vivere a Zarautz. La strada fiancheggiata di alberi, le eleganti case fronte mare, il caratteristico centro storico con i negozietti e le caffetterie, la gente sempre in strada anche con la pioggia, l’odore del mare increspato, selvaggio, disperso nell’aria in mille goccioline sospese, e la luce, così diversa da quella di una valle tra le montagne, come sono diversi gli occhi azzurri da quelli neri. Adesso non ne era più così sicura, perché anche se era sempre stata convinta di non amare la sua città, di non voler tornare a Elizondo, nell’ultimo anno la situazione si era capovolta e niente di ciò che aveva sempre creduto a occhi chiusi, niente di ciò che aveva sempre dato per scontato rimaneva uguale. Le radici protestavano, pretendevano il ritorno di chi era nato lì, nell’ansa del fiume, e lei sentiva il richiamo ma aveva ancora la forza di ignorarlo. Era al richiamo dei morti che non poteva sfuggire, e lo sapeva bene, perché esisteva un patto sulla sua testa, una forza che la spingeva a combattere chiunque volesse macchiare la valle. Ma lì le certezze vacillavano. Grossi cumuli bianchi fluttuavano in cielo su un mare non del tutto blu che si infrangeva in onde spumose e perfette, che assordavano con il loro scrosciare monotono il mattino invernale e luminoso di Zarautz. Alcuni surfisti si avviavano verso la riva, lontana per la bassa marea, portando le tavole per unirsi al folto gruppo che era già in acqua, mentre due cavalli eleganti passavano al trotto leggero. Amaia alzò gli occhi verso le vetrate dei palazzi di fronte al mare e si disse che doveva essere meraviglioso poter svegliarsi ogni giorno e vedere infuriare le onde del mare Cantabrico. Una breve occhiata alla vetrina di un’agenzia immobiliare della zona lasciava intendere che, esattamente come centocinquant’anni prima, quando gli imprenditori baschi e madrileni avevano cominciato a investire su quel tratto di costa, quello continuava a essere un posto per ricchi. Cercò il palazzo e imboccò l’entrata laterale di un giardino urbano che circondava l’ingresso. Un portiere in livrea annunciò il suo arrivo e le indicò il piano. Uscì dall’ascensore e trovò la porta aperta. Da dentro, sulle note di una musica melodiosa le giunse alle orecchie la voce della sorella.
«Entra pure, Amaia, e fatti un caffè mentre io finisco di sistemarmi».
Se Flora voleva impressionarla, ci riuscì. Il mare si vedeva già dall’ingresso, aperto su un salone immenso. La vetrata esterna, lievemente sfumata sull’arancione, copriva tutta la parete dell’appartamento e l’effetto era mozzafiato. Amaia si fermò in mezzo alla sala, sconcertata da quello spettacolare sfolgorio di luce. Il genere di lusso per cui valeva la pena spendere soldi.
Flora entrò nella sala e sorrise appena la vide.
«Impressionante, vero? Ho pensato lo stesso la prima volta che sono entrata qui dentro. Poi mi hanno mostrato anche altri appartamenti, ma non sono più riuscita a togliermi questa immagine dalla testa e il giorno dopo l’ho comprato».
Amaia riuscì a distogliere lo guardo dalla finestra per girarsi verso la sorella, che si era fermata a distanza di sicurezza e non sembrava intenzionata ad avvicinarsi di più.
«Sei bellissima, Flora», le disse sincera.
Indossava un abito rosso ed era forse un po’ troppo truccata, ma l’effetto era elegante e di gran classe.
Fece una giravolta per mostrarle l’abito anche da dietro.
«Non posso baciarti, sono truccata per la televisione, tra un’ora e mezzo si gira».
«Certo, solo per questo», si disse Amaia.
Libera dall’obbligo affettivo, Flora percorse la sala sui suoi tacchi alti e le passò accanto lasciando una scia di costosissimo profumo.
«Vedo che le cose ti vanno molto bene, Flora; la tua casa è bellissima», le disse, dando uno sguardo all’interno lussuoso che non aveva ancora avuto modo di guardare con attenzione, «e tu sei stupenda».
Flora fece ritorno con un vassoio e due tazze di caffè.
«Non posso dire lo stesso di te, sei davvero troppo magra. Ero convinta che tutte le madri mettessero su peso con la prima gravidanza; non ti starebbero male un paio di chiletti, lo sai?»
Amaia sorrise.
«Essere madre è estenuante, Flora, ma ne vale la pena». Non lo disse apposta, ma si accorse che Flora fece una smorfia. «Come ti va il programma?» si affrettò a chiedere, tanto per cambiare argomento.
La sorella si illuminò.
«Siamo a quaranta puntate trasmesse nelle tv locali, e già alla decima abbiamo ricevuto offerte dalle tv nazionali. La settimana scorsa abbiamo firmato l’accordo per trasmettere a partire dalla primavera e hanno già acquistato in anticipo due stagioni, perciò adesso devo registrare tutti i giorni almeno due o tre puntate: molto faticoso, ma anche molto gratificante».
«Anche Ros va alla grande con la pasticceria: sono persino aumentate le vendite».
«Sì, certo», ribatté con aria sprezzante, «Ros raccoglie il frutto del mio lavoro. O credi che le cose funzionino bene dall’oggi al domani?»
«No, certo che no, ti ho solo detto che se la cava bene».
«Era ora che si svegliasse».
Amaia rimase in silenzio per un minuto e più, assaporando il caffè e ammirando la caratteristica forma di topo che la costa assumeva all’altezza di Guetaria. Nel frattempo, sentiva crescere il disagio di Flora, che, seduta di fronte a lei, aveva terminato il caffè e si lisciava in continuazione le pieghe del suo abito impeccabile.
«A cosa devo l’onore della tua visita?» si decise finalmente a dire.
Amaia lasciò la tazza sul vassoio e guardò la sorella.
«Un’indagine», tagliò corto.
Il sorriso di Flora si incrinò.
«Parlami di Anne Arbizu», proseguì Amaia continuando a guardarla in viso.
Flora cercò di trattenersi, ma fu tradita da un leggero tremore alla mandibola. Amaia pensò che avrebbe negato tutto, ma una volta ancora la sorella riuscì a stupirla.
«Cosa vuoi sapere?»
«Perché non mi hai detto che la conoscevi?»
«Non me l’hai chiesto, sorellina, e d’altronde è perfettamente normale. Ho vissuto tutta la vita a Elizondo, conosco quasi tutti, per lo meno di vista, anzi si può dire che conoscessi tutte le ragazze, tranne quella dominicana. Come si chiamava, ti ricordi?»
«Ma Anne Arbizu non la conoscevi semplicemente di vista, vero?»
Flora rimase in silenzio mentre soppesava quanto sapesse la sorella. Amaia glielo concesse.
«L’hanno vista uscire dal laboratorio dalla porta sul retro».
«Magari era venuta a trovare un impiegato», azzardò Flora.
«No, Flora, era venuta a trovare te: vi siete salutate calorosamente sulla porta».
Flora si alzò e si diresse alla vetrata, rivolgendole le spalle.
«Non so che importanza potrebbe avere, se pure fosse vero».
Anche Amaia scattò in piedi, ma non si mosse.
«Flora, Anne Arbizu è stata uccisa; Anne Arbizu aveva una relazione con tuo cognato Freddy; Anne Arbizu era la causa di tutto il dolore che pativa Ros; Anne Arbizu aveva un rapporto così amichevole con te da salutarti con baci e abbracci; Anne Arbizu è morta nel fiume per mano del tuo ex marito. Tu, Flora, hai ucciso l’uomo che era stato tuo marito per vent’anni, e io, a prescindere dalla tua testimonianza e dalla tua messa in scena, non credo affatto che tu abbia agito per legittima difesa. Già, perché se c’è una cosa di cui sono certa, è che Víctor faceva quello che faceva perché non era capace di tenerti testa, e si sarebbe fatto uccidere piuttosto che osare minacciarti».
Flora teneva la mascella serrata e guardava fuori, decisa a non rispondere.
«Ti conosco, Flora, lo so benissimo cosa pensavi delle vittime e del modo in cui finiscono le ragazze disoneste. Ricordo ancora parola per parola come difendevi il guardiano della purezza che castigava la sfacciataggine di quelle puttanelle. So che di quelle ragazze non te ne fregava niente, e che se hai deciso di fermare Víctor non è stato perché stava disseminando la valle di ragazze morte. Secondo me l’hai fatto perché ha toccato Anne, e quello è stato il suo errore».
Flora si girò molto lentamente, tutti i suoi gesti tradivano lo sforzo che faceva per trattenersi.
«Non dire stupidaggini, tutto quello che ho detto serviva a provocarlo. Sospettavo di lui, io lo conoscevo bene, come hai appena detto sono stata sposata con lui per vent’anni, e certo che mi ha minacciato, tu eri lì, mi ha urlato contro e mi ha detto che mi avrebbe ucciso».
Amaia rise forte.
«No, Flora, non è vero! Se Víctor era quello che era, è stato soprattutto perché era sottomesso al tuo giogo. Lui ti adorava, ti venerava e ti rispettava, te e solo te, e hai ragione, io ero lì e non ho visto niente di quello che dici. Ho sentito il primo sparo, che di sicuro l’ha fatto crollare a terra, e quando sono arrivata ti ho visto sparare di nuovo… Secondo me, quando ti ho visto gli stavi semplicemente dando il colpo di grazia».
«Non hai prove», gridò lei infuriata, tornando a girarsi verso la finestra.
Amaia sorrise.
«Hai ragione, non ne ho, ma di sicuro ho le prove che Anne Arbizu era molto più oscura e complicata di quanto potesse sembrare guardando la sua faccina angelica. Una macchinatrice quasi psicopatica che esercitava il suo potere su chiunque la conoscesse. Voglio sapere che rapporto c’era tra voi due, voglio sapere che genere di potere esercitava su di te, e se la amavi al punto di voler vendicare la sua morte».
Flora appoggiò la testa al vetro della finestra e rimase immobile per qualche secondo, quindi emise un verso gutturale e gemette appoggiando anche le mani come per sorreggersi. Quando si girò, il suo viso era rigato di lacrime e il suo trucco completamente da rifare. Traballò fino al divano e si lasciò cadere pesantemente, senza smettere di piangere. Il pianto le sgorgava dal profondo del petto, strappandole sospiri soffocati con una disperazione tale che sembrava non voler finire. L’amarezza e il dolore la stremavano e si abbandonava al pianto in un modo che riuscì quasi a commuovere Amaia. Si rese conto che era la prima volta che vedeva piangere Flora; neanche da piccola l’aveva mai vista versare una lacrima. E si chiese se per caso non si stesse sbagliando. Le persone come Flora indossano un’armatura d’acciaio che le fa sembrare insensibili, ma dentro, sotto tutto il peso del metallo, batte pur sempre un cuore. Forse si sbagliava, forse la sua reazione era dovuta al dolore di aver dovuto sparare a Víctor, un uomo che forse a modo suo aveva amato.
«Flora… mi dispiace».
Flora sollevò la testa e Amaia vide i suoi occhi stravolti, senza ombra di offesa o commiserazione, ma solo pieni d’ira e di rancore. Eppure, quando tornò a parlare, lo fece lentamente, scandendo bene le parole, e il suo tono risultò così minaccioso da metterle i brividi.
«Amaia Salazar, smettila di ficcare il naso in questa storia, smettila di perseguitare Anne Arbizu, dimenticala, perché è una cosa più grande di te, sorellina. Non t’immagini in che pasticcio ti stai cacciando e non sai neanche di cosa parli: i tuoi soliti metodi investigativi sono del tutto inutili in questo caso. Lascia perdere finché sei ancora in tempo».
Quindi si alzò e andò in bagno.
«Sarai contenta, adesso!» urlò, prima di aggiungere: «Chiudi la porta quando esci».
Mentre si dirigeva verso l’uscita, Amaia notò una fotografia di Ibai che la guardava da un’elegante cornice di argento antico. Si fermò un istante a guardarlo e si disse che sua sorella era la persona più strana che avesse mai conosciuto.
Zuriñe Zabaleta viveva in Alameda Mazarredo, da dove si godeva una vista stupenda sul Guggenheim. L’ingresso di marmo bianco e nero rivelava da subito la signorilità di un palazzo in stile francese, i cui accurati dettagli erano mantenuti anche all’interno: porte francesi che arrivavano fino all’alto soffitto, con cornici lavorate a petto di colomba e pareti rivestite in legno. Riconobbe opere di pittori famosi e sorrise involontariamente per una scultura di James Wexford in un angolo della sala, attirando subito l’attenzione della proprietaria, che le andò incontro dicendo: «Oh, è un’opera di uno scultore americano, ha carattere, vero?»
«È magnifica», rispose, riscuotendo all’istante la simpatia della donna.
Vestiva in maniera sobria, con abiti evidentemente cari che la facevano sembrare più matura di quanto non fosse. Le fece strada verso un gruppo di poltroncine disposte in modo da godersi al meglio la vista sul Guggenheim, le cui piastre luccicavano nel loro strano bagliore opaco, e la invitò ad accomodarsi.
«Il poliziotto con cui ho parlato ieri mi ha detto che voleva farmi delle domande sull’omicidio di mia sorella». Aveva una voce educata e trattenuta, che si incrinò appena nel riferirsi al delitto. «Non pensavo che dopo tutto questo tempo…»
«La sua famiglia è originaria del Baztán, giusto?»
«Mia madre era di Ziga, mentre mio padre appartiene a una famiglia di imprenditori molto nota a Neguri. Mia madre andava in vacanza a Getxo, ed è così che si sono conosciuti».
«Ma sua sorella è nata nel Baztán?»
«Erano altri tempi, e mia madre aveva voluto a tutti i costi tornare a casa per partorire. Raccontava sempre quanto fosse stata male: s’immagini, un primo parto in casa Quando è rimasta incinta di me, ha preferito partorire qui, in ospedale».
«Vorrei che mi descrivesse il rapporto tra sua sorella e suo cognato».
«Mio cognato era un dirigente di Telefónica, a mio parere un tipo parecchio noioso, ma mia sorella se ne è innamorata e l’ha sposato. Vivevano a Deusto, in una zona molto bella».
«E sua sorella lavorava?»
«I miei sono morti quando io avevo diciannove anni, poco dopo il matrimonio di Edurne, e ci hanno lasciato molte proprietà, oltre a un fondo fiduciario che ci consente di dedicarci alle nostre passioni; nel caso di Edurne, era presidentessa dell’Unicef nei Paesi Baschi».
«Non erano state presentate denunce per maltrattamenti, ma magari lei aveva assistito a qualche scena…»
«Mai, ho già raccontato che mio cognato era un uomo piuttosto grigio, un tipo noioso che parlava solo di lavoro. Non avevano figli, perciò uscivano spesso, ma sempre serate tranquille, a teatro, all’opera, a cena fuori con altri amici, a volte anche con me e mio marito; una di quelle coppie che sembrano andare avanti per abitudine, senza che nessuno dei due si decida mai a dare una svolta… E non ho mai notato segnali che quell’uomo potesse fare una cosa simile, a parte qualche mese prima, quando mia sorella mi aveva confidato che il marito passava sempre più tempo fuori casa, arrivava tardi la sera e un paio di volte aveva sospettato che le mentisse su dove e con chi era stato. Lei era convinta che si vedesse con un’altra donna, ma non aveva prove; in ogni modo, non era disposta a sopportarlo. Ovviamente io le avevo chiesto se le avesse mai messo le mani addosso, e lei mi aveva risposto di no, per quanto a volte quando lei lo asfissiava di domande lui tirava pugni e calci ai mobili o lanciava qualsiasi cosa avesse a portata di mano. Poi un giorno, mentre prendevamo il caffè, all’improvviso lei si è messa a parlare di divorzio, più come ipotesi che come decisione concreta. A quel punto io l’ho sostenuta, le ho detto che sarei stata al suo fianco se si fosse decisa, e quella è stata l’ultima volta che l’ho vista viva; la volta successiva è stata all’obitorio, e aveva il viso così sfigurato che alla veglia funebre abbiamo dovuto tenere la cassa chiusa». Tacque per un istante, mentre quelle immagini atroci dovevano sfilarle davanti agli occhi. «Il medico legale ha detto che è morta in conseguenza dei traumi: insomma, l’ha ammazzata di botte. Ma s’immagina quanto dev’essere feroce uno per picchiare la moglie fino a ucciderla?»
Amaia la guardava in silenzio.
«Dopo averla uccisa, ha distrutto l’appartamento, ha fatto a pezzi i mobili, ha strappato tutti gli abiti di mia sorella e ha cercato di dare fuoco alla casa, senza riuscirci. Nella sua furia distruttiva, si è fratturato quasi tutte le dita delle mani e dei piedi. Era tutto pieno di sangue, suo e di mia sorella, e quando ha finito, si è buttato dalla finestra dell’ottavo piano. È morto prima che arrivasse l’ambulanza».
«E i vicini non hanno sentito niente?»
«È un palazzo molto esclusivo, simile a questo. Il loro appartamento occupava il piano intero, e pare che a quell’ora non ci fosse nessuno, né di sopra né di sotto».
Amaia fece una pausa prima di formulare la domanda cruciale: «Le ha amputato un arto?»
«Il medico legale ha detto che è successo dopo, quando era già morta. Non ha nessun senso», gemette. «Perché mai doveva fare una cosa simile?»
Chiuse gli occhi un paio di secondi, poi riprese.
«Non si è più trovato, l’hanno cercato persino con i cani dell’Ertzaintza, la polizia autonoma basca, per tutto il palazzo, perché erano sicuri che non fosse uscito dall’edificio. Il portiere dello stabile ha giurato di non essersi mai mosso ed è piuttosto improbabile che non l’avrebbe notato, se mio cognato fosse uscito e rientrato dalla porta d’ingresso tutto insanguinato. In più lì dentro è pieno di telecamere, e anche se c’è un angolo morto per il quale sarebbe forse riuscito a passare, le registrazioni sono servite a dimostrare che il portiere non si era davvero mai mosso. Non c’erano impronte in ingresso, nell’ascensore o lungo la scala, ed era impossibile che non le lasciasse, considerando che ne aveva disseminate a migliaia per tutta la casa e le sue scarpe erano intrise di sangue».
Sospirò e appoggiò la schiena contro un cuscino. Sembrava esausta, però aggiunse: «Non so dove abbia trovato il coraggio quel verme, neanche in un milione di anni avrei mai immaginato che un tipo così vigliacco si sarebbe azzardato a fare quello che ha fatto».
«Solo altre due domande, e poi la lascio riposare».
«Mi dica».
«Ha lasciato per caso un biglietto, un messaggio?»
«Uno? Ne ha lasciati più di una dozzina scritti sulle pareti con il suo sangue».
«Tarttalo», la anticipò Amaia, mentre la donna annuiva.
Amaia si sporse verso di lei e le confidò: «Deve capire che si tratta di un’indagine riservata e per il momento purtroppo non posso rivelarle niente di più, ma credo che il suo aiuto potrebbe far luce su questo caso e contribuire a ritrovare i resti ancora dispersi di sua sorella».
La donna sorrise per cercare di trattenere la smorfia di dolore che le increspava il volto e Amaia le porse uno stick con un bastoncino all’interno.
«Deve semplicemente strofinarlo sull’interno della guancia».
* * *
Il navigatore indicava che Entrambasaguas era in provincia di Burgos e si trovava a 43 chilometri e 50 minuti di macchina da Bilbao, e su Google trovò una pagina con il numero totale di abitanti, che ammontava a 37. Trasse un profondo sospiro: i paesini minuscoli le davano un senso di claustrofobia che non riusciva a spiegarsi. Di sicuro i maltrattamenti e il maschilismo non erano legati in nessun modo all’ambito rurale, almeno non più di quanto non lo fossero a qualsiasi altro gruppo o luogo, ma chissà perché le tornava sempre in mente quando era piccola e si sentiva intrappolata nel posto in cui era nata. Era assurdo, a pensarci bene non sarebbe stato diverso se fosse vissuta in una grande città, come non lo era stato per Edurne a Bilbao, gemellata ormai per sempre con quell’altra donna di Entrambasaguas con cui non aveva mai scambiato neppure una parola. Guidò facendo attenzione alla strada, resa scivolosa dal nevischio che all’altezza del ponte di accesso a Entrambasaguas si trasformò in una fitta nevicata. Si fermò cercando di orientarsi e al centro di una piazza si imbatté con un certo stupore in una sorta di scenografia natalizia, formata da un vecchio lavatoio in pietra in perfetto stato, un abbeveratoio e una fontana con un solo zampillo.
«Acqua per tutti!» esclamò mettendosi alla ricerca della casa.
Circondata da un gran prato e ben illuminata, la casa si rivelò in realtà uno chalet, con il tetto a quattro falde e una scalinata di accesso fiancheggiata da enormi vasi con alberelli ornamentali. La neve aumentava l’effetto cartolina di Natale che già l’aveva colpita vedendo il lavatoio in pietra. Lasciò la macchina sul ciglio del prato e imboccò un vialetto lastricato di rosso che cominciava già a scomparire sotto la furia della nevicata.
La donna che venne ad aprirle poteva avere l’età di sua zia, ma le somiglianze finivano lì. Era molto alta, quasi quanto Amaia, e piuttosto robusta, eppure si muoveva con disinvoltura mentre le faceva strada verso la sala, dove un bel fuoco crepitava nel camino.
«Lo sapevamo tutt’e due che alla fine l’avrebbe uccisa», disse in tono pacato.
Amaia si rilassò. Era difficile interrogare i parenti di una vittima senza esporsi al rischio di esplosioni emotive. Nella maggioranza dei casi, optava per tenere le distanze e assumere un atteggiamento professionale che invitasse alla confidenza senza arrivare a stabilire un vincolo affettivo. Come nel caso di Bilbao, la cosa migliore era cominciare subito, con domande dirette e concise, evitare se possibile di menzionare i dettagli più efferati, evitare termini come cadavere, sangue, tagli, ferite o qualsiasi altro tipo di parola potesse rievocare aspetti molto visivi e portasse i parenti a soffrire e a perdere il controllo, con conseguente ritardo nelle indagini. Ma ogni tanto le capitava di avere fortuna e incrociava un testimone come questo. Aveva scoperto che il più delle volte erano persone solitarie molto vicine alle vittime, normalmente con la prerogativa di aver avuto tanto tempo per riflettere. A quel punto, bisognava solo lasciarle parlare. La donna le porse una tazza di tè e proseguì.
«Quello era un uomo cattivo, un lupo travestito da agnello solo fino al giorno in cui ha sposato mia nipote; da quel momento in poi è rimasto solo un lupo. Geloso e possessivo, non le ha mai permesso di lavorare fuori casa, anche se lei aveva studiato da segretaria e prima di conoscerlo lavorava a Burgos come impiegata in un grande magazzino. Giorno dopo giorno, l’ha costretta a troncare i rapporti con tutte le sue amiche e conoscenti. Io ero l’unica persona con cui avesse una relazione, e se glielo permetteva era solo perché in questo modo la riusciva a controllare meglio. Del resto io ero sua zia, la sorella di suo padre e l’unica parente che le fosse rimasta, tranne una prozia da parte di madre nella Navarra, che però è morta un paio di anni fa. Quell’uomo non la picchiava, ma la costringeva a vestirsi da contadina, non le lasciava indossare i tacchi o mettersi il trucco, non poteva neanche andare dal parrucchiere, si figuri. Ha portato i capelli lunghi raccolti in una treccia fino al giorno in cui è morta. Non le permetteva di andare da sola da nessuna parte, e quando non poteva fare a meno di uscire, io dovevo sempre accompagnarla, al mercato, alla farmacia o dal dottore. Quella poveretta è stata sempre molto gracile di salute. Era diabetica, lo sa? Per anni ho cercato di convincerla a lasciarlo, ma lei sapeva – e purtroppo anch’io ho dovuto darle ragione – che se l’avesse fatto, lui non si sarebbe dato pace finché non l’avesse uccisa».
Si fermò con lo sguardo fisso su un punto imprecisato dentro il camino. Quando tornò a parlare, la sua voce tradì una nota di rimorso.
«E così tutto ciò che ho fatto è stato rimanerle accanto, cercando di rendere le cose un po’ più sopportabili. Oggi non passa giorno senza che non me ne penta: avrei dovuto costringerla. Ci sono gruppi che aiutano le donne a scappare, a mettersi in salvo… ho visto un programma proprio l’altro giorno in televisione».
Le guance le si rigarono di lacrime e si affrettò ad asciugarle con il dorso della mano, mentre indicava ad Amaia un portaritratti sul tavolino. Una donna pallida e con le occhiaie sorrideva felice rivolta all’obiettivo, tenendo un cagnolino per le zampe davanti e facendo finta di ballare con lui.
«Quella è María con il cagnolino. È iniziato tutto per via del cagnolino, sa? Dunque, si era presentato alla porta verso la fine dell’estate, e lei era impazzita di gioia, forse anche perché non avevano avuto figli e quel bastardino era un gran coccolone. Lui non aveva detto niente e lei… non l’avevo mai vista così felice, e ovviamente lui non glielo poteva permettere. Così ha lasciato che mia nipote si affezionasse al cagnolino per tre o quattro mesi e poi un giorno l’ha impiccato all’albero davanti casa. Quando lei l’ha visto, si è messa a strillare come una pazza, mentre lui si è seduto a tavola e ha chiesto da mangiare. Invece lei si è precipitata al cassetto della cucina e ha preso un coltello. Lui si è messo a urlarle contro, ma lei l’ha guardato negli occhi con una tale rabbia che gli ha fatto capire di aver davvero esagerato. Mia nipote è uscita in giardino e ha tagliato la corda, ha abbracciato il cagnolino morto ed è rimasta a piangere fino a non avere più lacrime. Poi è andata in garage, ha preso una pala, ha scavato una fossa ai piedi dell’albero e ha sepolto quel povero animale. Quando ha finito di scavare, aveva le mani tutte spellate. Lui era rimasto sempre seduto, serissimo, senza aprire bocca. Lei è rientrata a casa, ha lanciato la corda sul tavolo e si è chiusa in camera. È rimasta a letto due giorni per il dispiacere. Da quel giorno in poi, María è cambiata, ha perso tutta l’allegria, poverina, era sempre cupa e a volte lo guardava quasi senza vederlo, come se lo attraversasse con gli occhi, e lui non sollevava neppure la testa. Esatto, scorbutico come sempre, ma non aveva più il coraggio di guardarla in faccia. Ero assolutamente convinta che a questo punto si fosse decisa a lasciarlo, così le ho detto che poteva venire a stare da me, o che potevo anticiparle dei soldi per darle modo di scappare, ma lei era più serena che mai. Mi ha risposto che non mi voleva mettere a rischio trasferendosi a casa mia e che se c’era uno che doveva andarsene, quello era lui. Questa casa era di María, suo padre gliel’aveva comprata quando si era fidanzata ed era intestata solo a nome suo. Pochi giorni dopo, sono venuta a trovarla di mattina e mi sono stupita che non si fosse ancora alzata, ma siccome era così gracile di salute… Avevo le chiavi, perciò sono entrata. Ho trovato tutto in ordine e mi sono diretta nella sua stanza. All’inizio ero convinta che stesse ancora dormendo. Era sdraiata a pancia in su, gli occhi chiusi e la bocca aperta a metà, ma non dormiva: era morta. Hanno detto che le era montato di sopra e l’aveva soffocata con un cuscino mentre dormiva. Non aveva altre ferite, tranne quella al braccio. Non ce ne siamo accorti finché la polizia non ha abbassato le coperte».
Amaia trattenne il fiato, mentre la donna continuava a raccontare.
«Hanno detto che gliel’aveva tagliato da morta. Lei mi sa dire il perché? Le aveva tagliato anche i capelli, ma non me ne sono accorta subito. Quando l’hanno spostata ho visto che sulla nuca glieli aveva addirittura strappati», spiegò la donna passandosi una mano sul collo.
«Lui, l’hanno trovato impiccato in un podere della sua famiglia, a un paio di chilometri da qui. Guardi un po’ che ironia: impiccato a un albero, proprio come quel povero cagnolino!»
La donna rimase in silenzio e le sfuggì persino un sorriso amaro mentre guardava la foto. Amaia si diede un’occhiata attorno.
«Le ha lasciato la casa?»
La donna annuì.
«E per caso ha conservato le sue cose?»
«Tutto esattamente com’era».
«Magari anche uno spazzolino o una spazzola di sua nipote?»
«È per la prova del Dna, vero? Sa, vedo sempre le serie tv con i medici legali, e in effetti ci avevo pensato anch’io. Sì, credo proprio di avere qualcosa che potrebbe fare al caso suo», esclamò porgendole una scatola di legno che era sul tavolo.
Quando la aprì, Amaia non poté fare a meno di pensare al giorno in cui sua madre l’aveva messa seduta su una panchetta della cucina e le aveva raccolto i capelli in una treccia lunga per poi raparla a zero. Istintivamente si portò la mano alla testa, ma subito l’abbassò, cercando di recuperare il controllo. Sul fondo della scatola, una treccia di capelli castani era raggomitolata su se stessa come un animaletto addormentato. Amaia chiuse il coperchio per non essere più costretta a guardarla.
«Non servirà: non si può estrarre il Dna dai capelli tagliati, serve il follicolo».
Non era del tutto vero: esistevano nuove tecniche molto care che riuscivano a estrarre il Dna anche dai capelli tagliati, ma era più costoso e complicato, e i follicoli piliferi facilitavano l’intero processo.
«Guardi bene», insistette la donna, «una parte dei capelli è tagliata, ma come le ho detto sulla nuca glieli aveva strappati alla radice. Li ha lasciati accanto a un biglietto ai piedi dell’albero dove si è impiccato».
Amaia riaprì la scatola e guardò i capelli con una certa ansia.
«Ha lasciato un biglietto?» chiese senza smettere di fissare la grossa treccia.
«Sì, ma è assurdo, non ha nessun senso. La polizia se l’è tenuto e io non riesco neanche a ricordare cosa ci fosse scritto; era una sola parola, qualcosa tipo torta».
«Tarttalo».
«Esatto, Tarttalo!»
Nevicava fitto quando lasciò Entrambasaguas, si fermò un istante accanto al lavatoio e inserì come destinazione Elizondo: duecento chilometri da guidare sotto la neve, e accanto a lei la borsa con i due campioni di Dna. Lo stick con la saliva della sorella di Edurne Zabaleta e la treccia di María Abásolo. Doveva sbrigarsi a stabilire un collegamento: se riusciva a provare che c’era corrispondenza tra le vittime e le ossa trovate nella grotta, avrebbero almeno avuto la prova che esisteva un unico responsabile di tutti quei crimini. La semplice idea di un assassino così potente e manipolatore da riuscire a convincere un’altra persona, per quanto violenta e fuori controllo, a compiere un delitto a suo piacimento, era incredibile. Eppure non era poi così strana. Negli ultimi anni l’Fbi considerava l’induttore come elemento prioritario, in un paese in cui – diversamente dalla Spagna – gli induttori e i complici non erano giudicati meno severamente degli esecutori materiali dei delitti. La figura dell’induttore acquisiva rilevanza quando si poteva dimostrare che questo genere di assassino era capace di coinvolgere nel suo piano persone di ogni tipo, che agivano come suoi fedeli servitori. Il più conosciuto era il caso di istigazione al suicidio da parte dei capi spirituali delle sette pseudoreligiose, che dimostravano un potere e una capacità di controllo dei loro adepti davvero raccapricciante. Lo squillo del telefono la riportò alla realtà. Inserì il vivavoce e rispose al dottor San Martín.
«Buonasera, ispettrice, la disturbo?»
«Sto guidando, ma tranquillo, ho inserito il vivavoce».
«Abbiamo i risultati delle analisi sulle ossa della profanazione di Arizkun, e vorrei parlarne con lei».
«Ma certo, mi dica pure».
«No, per telefono no, preferirei che tornasse a Pamplona. Ho appuntamento con il suo commissario alle sette nel suo ufficio. Ce la fa?»
Amaia controllò l’ora sul cruscotto.
«Forse alle sette e mezza, qui nevica».
«Allora facciamo alle sette e mezza, avverto il commissario».
Amaia riagganciò, infastidita all’idea di doversi fermare a Pamplona. Aveva passato tutta la giornata fuori casa, e il tema della riunione lo conosceva già. Quell’idiozia della profanazione aveva turbato un po’ tutti, il sindaco, l’arcivescovo, il funzionario del Vaticano e ovviamente il commissario, che non poteva mandarli alla malora, e di riflesso anche lei, e la verità era che non aveva un bel niente da dirgli. Le piste in città non avevano portato da nessuna parte, mentre le profanazioni erano finite da quando c’era l’autopattuglia. Con ogni probabilità i responsabili appartenevano a qualche gruppo di pseudosatanisti, dissuasi definitivamente dalla presenza della polizia, cosa che avrebbe potuto risolvere da solo anche l’arcivescovo piazzando delle telecamere o assumendo un guardiano privato. Se speravano che si sarebbe offerta come capro espiatorio, si sbagliavano di grosso.
Parcheggiò in commissariato e si sgranchì le gambe, tutta intorpidita e con un filo di nausea per la tensione di guidare sotto la neve. Salì al secondo piano e bussò senza farsi annunciare alla porta del suo superiore.
«Entri, Salazar, come sta?»
«Bene, grazie, signore».
San Martín, che occupava già una delle due sedie davanti alla scrivania, si alzò per porgerle la mano.
«Si accomodi, prego», la invitò facendo altrettanto.
Sul tavolo, le cartelline aperte con i rapporti della Scientifica rivelavano che non l’avevano aspettata per discutere il caso. Amaia ripassò mentalmente i punti del rapporto che avrebbe esposto e aspettò che fosse il commissario a parlare.
«Ispettrice, l’ho fatta chiamare perché il caso delle profanazioni ha subito una svolta inaspettata e sorprendente dopo il referto del medico legale sulle ossa trovate nella chiesa di Arizkun. Il ritardo nella consegna definitiva dei referti è dovuto alla mia richiesta di ripetere gli esami quando il dottor San Martín mi ha portato i risultati la prima volta. Alla fine li hanno ripetuti ben tre volte».
Amaia cominciava a sentirsi confusa: la riunione non stava prendendo la piega che pensava. Lo sguardo continuava a caderle sulle cartelline, e non vedeva l’ora di conoscere l’esito delle analisi. Ma anziché darlo a vedere, continuava a mostrarsi calma, in attesa di saperne di più.
San Martín si girò verso di lei.
«Salazar, ci tengo a sottolineare che mi sono occupato io stesso di sorvegliare e verificare il risultato del secondo e del terzo test, e posso garantire sull’autenticità dei referti».
Amaia cominciava a perdere la pazienza.
«Non ho dubbi sulla sua professionalità, dottore», lo rassicurò all’istante.
San Martín guardò il commissario, che a sua volta guardò lei prima di annuire, autorizzandolo a parlare.
«Le ossa si trovavano in buono stato di conservazione e, per quanto bruciate a un’estremità, non è stato un problema eseguire le analisi. Siamo giunti alla conclusione che appartenevano a un maschio tra il nono mese di gestazione e il mese di vita. Un neonato, in poche parole, risalente all’incirca a centocinquant’anni fa, con un margine di errore di cinque anni».
«Coincide abbastanza con l’idea del viceispettore Etxaide che fosse un mairu-beso, un braccio di mairu».
«Come le ho detto, l’interno dell’osso era ben conservato, perciò non è stato difficile eseguire un test del Dna di routine come parte degli esami. Lo sa che quando abbiamo un Dna sconosciuto, si confronta di default il database di Dna, il CODIS». Il dottore si fermò e gli sfuggì un sospiro. «E qui viene la parte sorprendente: durante il confronto di routine è stata trovata una corrispondenza».
«Corrispondeva a un profilo del database? Ma è impossibile! Non mi ha appena detto che le ossa avevano centocinquant’anni e in più appartenevano a un neonato? È impossibile che il loro Dna si trovi nel CODIS».
«Non il Dna del feto, ma quello di un parente. Abbiamo trovato una corrispondenza del 25 per cento con il suo Dna, in effetti».
Amaia guardò perplessa il commissario.
«Esatto», confermò lui. «Il dottore me l’ha comunicato subito e io gli ho dato ordine di ripetere la procedura dall’inizio e con la massima discrezione. Il primo test era stato realizzato al Nasertic, il laboratorio con cui lavoriamo abitualmente; visti i risultati, i successivi li abbiamo spediti al laboratorio di Zaragoza e a quello di San Sebastián, ma i risultati sono stati identici».
«Questo significa…»
«Questo significa che le ossa ritrovate nella profanazione della chiesa di Arizkun appartenevano a un suo parente, che quella creatura è un suo antenato di quarto o quinto grado».
Amaia prese le cartelline e lesse avidamente gli esiti dei rapporti. Sia quello spedito da Zaragoza sia quello di San Sebastián erano firmati da medici legali autorevolissimi in materia.
La sua mente funzionava a pieno ritmo, assimilando dati e costruendo nuove ipotesi che fiorivano sulle precedenti, mentre il commissario e il dottore continuavano a parlare e lei riusciva a sentire solo la voce che le ripeteva nella testa: «le coincidenze non esistono», «niente succede per caso».
«La scelta della vittima non è mai casuale», «qual è stata l’origine?», le parve quasi che le chiedesse ancora Dupree.
«Devo fare una telefonata», disse, interrompendo San Martín.
Il commissario la guardò stupito, senza nascondere la sorpresa. A sua volta, lei lo guardò decisa, senza tradire esitazione.
«Signore, adesso riprendiamo a parlarne subito, ma prima devo assolutamente fare una telefonata».
Quando il commissario annuì, lei prese il cellulare e andò in corridoio. Etxaide rispose al primo squillo.
«Salve, capo, com’è andata?»
«Tutto bene, Jonan. Ho una domanda per te. Se hai bisogno di controllare o ti serve più tempo, dimmelo pure, ma dobbiamo essere sicuri al cento per cento».
«D’accordo, capo», rispose lui, serissimo.
«Si tratta dei mairu-beso: l’altro giorno mi hai detto che sono ossa di bambini morti senza battesimo. Esiste qualche dato sull’utilizzo di braccia di adulti, uomini o donne?»
«Non ho bisogno di controllare, le dico già di no. È categoricamente impossibile, perché è la condizione stessa del mairu-beso a conferirgli la sua natura mistico-magica. Da un lato, l’assenza di battesimo. Questo tuttavia potrebbe verificarsi anche in un adulto, per quanto all’epoca fosse un’imposizione non solo religiosa, ma anche sociale e culturale, implicando l’appartenenza a un gruppo. Se non si era cristiani, voleva dire che si era ebrei o musulmani, da cui deriva la parola “mairu”, o “moro”, un modo spregiativo di chiamare i musulmani, che significa semplicemente “non cristiano”. Ma d’altro canto c’è l’età: doveva essere un feto, una creatura abortita, oppure un nato morto o venuto a mancare nei primi mesi di vita. La Chiesa aveva un protocollo apposta per questi casi, e non battezzava i malati o i moribondi: ecco perché, per colpa dell’altissima mortalità infantile, i bambini di solito venivano battezzati al più presto per evitare che finissero sepolti a un incrocio o appena fuori dal cimitero, accanto ai suicidi e agli assassini. Ma di sicuro non poteva essere un adulto. Si diceva che l’anima di un neonato fosse in transito, ed è proprio il periodo in cui rimane a metà tra i due mondi a risvegliare le qualità magiche del mairu-beso. Si credeva che gli spiriti dei bambini morti senza battesimo non potessero andare né in paradiso né all’inferno, ma neppure tornare nel limbo da cui erano usciti, perciò restavano nella casa dei genitori come entità protettrici del focolare domestico. È documentato che in certi casi le famiglie conservavano la culla anche dopo la morte del bambino, oppure arrivavano ad apparecchiare la tavola anche per lui. Non si mettevano gli abitini o il nome del defunto a un nuovo fratellino perché altrimenti il padrone originale ne avrebbe reclamato la proprietà, portandosi via il nuovo arrivato; tuttavia, se lo si trattava in maniera rispettosa, il mairu era molto benevolo nei confronti della casa, riempiendola di allegria e giocando insieme ai suoi fratellini, che secondo la credenza popolare potevano vederlo mentre anche loro si trovavano in transito, dalla nascita fino all’incirca ai due anni di vita. Questo spiegherebbe i giochi, i borbottii e i sorrisi che a volte i bimbi molto piccoli rivolgono a qualcuno che sembrano vedere solo loro».
Amaia sospirò.
«Accidenti…»
«La presenza in diverse culture di questi spiriti infantili della casa è più frequente di quel che si pensi. In Giappone, per esempio, li chiamano zashiki warashi, lo spirito del salotto, e sostengono che sia una presenza benevola che riempirà di gioia la casa in cui si trova… Spero di esserle stato utile», disse Jonan.
«Mi sei sempre utile, è solo che avevo un’idea e… dai, adesso non posso spiegartelo, però ti richiamo tra mezz’ora».
Riagganciò e tornò nell’ufficio del commissario, dove i due uomini smisero di parlare non appena lei rientrò.
«Si sieda», le disse il commissario. «Dottore, le dica quello che mi stava spiegando…»
«Sì, stavo dicendo al commissario che ci sono alcuni aspetti da tenere presenti. Lei è di un paesino di pochi abitanti. Non so quanti ne avrà avuti centocinquant’anni fa, ma di sicuro non dovevano essere molti, e in più le persone non si muovevano come oggi. Quello che intendo dire è che mi pare normale che in una piccola comunità esistano coincidenze parziali di alleli comuni in diverse famiglie, perché è facile che in qualche modo, nel presente o nel passato, le diverse famiglie siano imparentate».
Amaia ci pensò su e scartò l’ipotesi.
«Non credo nelle coincidenze», rispose secca.
Il commissario le diede ragione.
«No, nemmeno io».
«L’ha messo lì per me, per provocarmi: sapeva che avremmo trovato la corrispondenza nel Dna, e in questo modo mi vuole mandare un messaggio».
«Salazar, perdio!» protestò il commissario. «Mi dispiace che si senta coinvolta in questo modo; la provocazione da parte di un delinquente rappresenta sempre una sfida per un poliziotto… ma si può sapere a cosa sta pensando?»
Amaia si prese qualche secondo per riordinare i pensieri, quindi rispose: «Secondo me non c’è niente di casuale in tutta questa storia; secondo me le profanazioni nella chiesa di Arizkun sono realizzate all’unico scopo di attirare la mia attenzione. Se per un qualche motivo il caso non fosse stato assegnato a me, l’avreste fatto adesso dopo l’esame del Dna di quelle ossa. Vuole attirare la mia attenzione perché sono il capo della Omicidi e ho condotto le indagini nel caso del basajaun; questo mi ha dato una popolarità che evidentemente gli interessa. Si crede molto furbo e cerca qualcuno che sia all’altezza delle sue aspettative per battersi in una specie di duello o gioco del gatto con il topo. Esistono molti esempi documentati di criminali che in un modo o nell’altro hanno voluto mettersi in contatto con diversi capi della polizia, o che hanno persino scelto chi mettere alla guida delle indagini identificando un interlocutore privilegiato, come nel caso di Jack lo Squartatore… Mi serve un altro po’ di tempo per assimilare la cosa ed elaborare un profilo alla luce dei nuovi dati».
Il commissario annuì.
«Informerò il commissario del Baztán e l’ispettore Iriarte. Apriremo un’indagine parallela per individuare l’origine delle ossa e la tomba o le tombe della sua famiglia da cui sono state sottratte».
«Non si disturbi, è un mairu-beso, il braccio di un bambino morto senza battesimo, e i bambini morti senza battesimo non si seppellivano ufficialmente nei cimiteri a quei tempi».
Aspettò di essere uscita dal commissariato prima di richiamare. Controllò l’ora, erano quasi le otto. Sentiva la mancanza di James e di Ibai; aveva trascorso l’intera giornata fuori casa e le restava ancora più di mezz’ora di auto per arrivare a Elizondo. Aveva smesso di nevicare, e il freddo della sera, ormai diventata notte da qualche ora, le mise i brividi, schiarendole i pensieri e sigillando in un compartimento stagno quello che aveva appena sentito in commissariato. Impostò un piano di lavoro, si fermò accanto alla macchina e digitò il numero del tenente Padua della Guardia Civil per spiegargli che cosa le serviva.
«Ho ottenuto dei campioni di Dna di vittime di casi identici a quello di Johana Márquez, di Lucía Aguirre e a quello di Logroño. Devo accedere alle ossa trovate nella grotta per poterli confrontare».
«Lo sa che se non li ha raccolti un tecnico del laboratorio della Scientifica non ha valore legale, vero?»
«Non mi interessa il valore legale, Padua: ufficialmente non ho nessun caso, e se serve posso recuperare dell’altro materiale, tanto sono in contatto con i parenti stretti. Quello che mi serve ora è confrontarlo con le ossa trovate nella grotta: se ci fosse corrispondenza, ci troveremmo di fronte a un delitto seriale e non avrei difficoltà a ottenere un ordine di riesumazione dei corpi. Per il momento, gli autori delle amputazioni sono considerati i mariti. Se non riesco a stabilire un nesso tra le vittime e le ossa del Baztán, non ho in mano niente».
«Ispettrice, sa benissimo che l’aiuterei molto volentieri, sono stato io a coinvolgerla in questa storia, ma conosce altrettanto bene il problema di competenze tra i corpi di polizia; senza un ordine del giudice, quelle ossa non gliele daranno mai».
Riagganciò e rimase a fissare il telefono, incerta se digitare il numero o scaraventarlo il più lontano possibile.
«Maledizione!» esclamò componendo il numero personale del giudice Markina.
La voce maschile e garbata del giudice le rispose poco dopo.
«Buonasera, ispettrice», la salutò.
Sentendo quella voce, chissà perché provò un istante di turbamento e si sorprese a pensare alla sua bocca, alla linea definita che disegnavano le sue labbra umide e carnose. Come una ragazzina, ebbe l’istinto di riagganciare, sopraffatta dalla vergogna.
«Buonasera», riuscì a rispondere.
Il giudice rimase in silenzio, ma si sentiva il suo respiro all’altro capo del telefono, e senza volerlo immaginò come doveva essere il calore del suo fiato sulla pelle. E nonostante il freddo intenso, arrossì fino alla punta delle orecchie.
«Vostro onore, l’indagine del caso di cui le ho parlato ha preso la direzione che speravo. Ho ottenuto i campioni di Dna di altre due vittime e avrei bisogno di confrontarli con le ossa ritrovate nel Baztán, che attualmente si trovano sotto la custodia della Guardia Civil».
«È a Pamplona?»
«Sì».
«Va bene, ci vediamo tra mezz’ora al bar Europa».
«Vostro onore», protestò, «mi pare di essere stata molto chiara l’ultima volta circa l’interesse che mi spinge in questo caso».
Markina rispose in tono quasi afflitto.
«Sì, è stata chiarissima, ispettrice, ma sono appena tornato da un viaggio e vorrei cenare all’Europa. Era solo per farle un favore, ma se preferisce, può venire nel mio ufficio domani dopo le otto. Chiami la mia segretaria e prenda un appuntamento».
Amaia si sentì all’improvviso presuntuosa e stupida.
«No, no, mi scusi, ci vediamo tra mezz’ora».
Riagganciò, pentendosi di essere stata così maldestra.
Avrà pensato che sono un’idiota, si disse montando in macchina.
Prima di mettere in moto, fece un’altra telefonata al viceispettore Etxaide e lo aggiornò sui suoi incontri di Bilbao e Burgos e sugli esiti della riunione con il commissario. In fin dei conti, glielo doveva.
L’ingresso del bar Europa era accanto alla porta dell’hotel omonimo, e nonostante la neve caduta nel pomeriggio e ormai quasi del tutto sciolta, alcuni clienti stavano fermi a chiacchierare all’esterno, con i bicchieri di vino appoggiati su un paio di tavoloni alti a pochi passi dall’entrata.
Vide Markina un istante dopo aver varcato la soglia del locale. Era seduto da solo in fondo al bancone e sarebbe stato molto difficile non notarlo. L’abito grigio con la camicia bianca e senza cravatta gli dava un’aria seria, che i capelli si incaricavano all’istante di smentire, ricadendogli sulla fronte in disordinate ciocche castane. Era seduto sullo sgabello con l’aria rilassata ed elegante di chi è appena uscito da una rivista di moda.
Un effervescente gruppetto di amiche ormai non più giovanissime lo fissavano esprimendo il proprio apprezzamento, mentre lui continuava a sfogliare impassibile un giornale stropicciato. Vedendola entrare, Markina le rivolse un sorriso, e almeno la metà delle femmine si girò per vedere l’oggetto del suo interesse e concentrare su di lei tutto il loro odio.
«Gradisce del vino?» le chiese a mo’ di saluto, indicando il suo bicchiere e facendo un cenno al cameriere.
«No, preferisco una Coca-Cola», rispose Amaia.
«Fa troppo freddo per bere la Coca-Cola. Si prenda del vino. Le raccomando questo, un Rioja davvero eccellente».
«Va bene», acconsentì.
Mentre il cameriere serviva il vino, Amaia si chiese perché non fosse più decisa, perché finisse sempre per accettare gli inviti di Markina. Lui le cedette il suo sgabello e se ne fece dare un altro dal gruppetto di donne che lo guardavano adoranti. Lo sistemò di fronte a lei e si sedette di spalle alle signore, che non gli toglievano gli occhi di dosso. Markina la guardò per cinque interminabili secondi, poi abbassò lo sguardo confuso.
«Spero che qui si senta più a suo agio che al ristorante».
Amaia non rispose, e adesso fu lei a dover abbassare lo sguardo, sentendosi assurdamente ingiusta.
«Allora, è stata a Bilbao?» chiese lui, recuperando il tono professionale.
«E anche a Burgos, in un paesino di quaranta abitanti. Le vittime sono morte rispettivamente due anni e due anni e mezzo fa, entrambe uccise dai mariti, che si sono suicidati subito dopo il delitto. Erano tutte e due originarie del Baztán, anche se avevano sempre vissuto fuori, e in tutti e due i delitti c’è stata un’amputazione completa dell’avambraccio, che non si è ritrovato nella perquisizione successiva».
Il giudice la ascoltava con grande attenzione, mentre sorseggiava il vino. Amaia fu costretta a seri sforzi per non guardargli la bocca e non notare il modo in cui si inumidiva le labbra con la lingua.
«… E in entrambi i casi sempre la stessa firma, “Tarttalo”, scritta con il sangue sulle pareti o in un biglietto del suicida, solo questa parola».
«Cosa le serve per procedere con le indagini?»
«È necessario confermare il collegamento tra i vari delitti, e per farlo ho bisogno di accedere per lo meno ai campioni delle ossa trovate dalla Guardia Civil nella grotta del Baztán. Se c’è corrispondenza, possiamo aprire un’indagine ufficiale e richiedere le ossa originali per eseguire una ricostruzione o una seconda autopsia dei corpi, che ci darebbe un risultato sicuro al cento per cento».
«Sta forse parlando di riesumare i corpi?» chiese lui.
Sapeva bene che l’idea non gli sarebbe piaciuta: a nessun giudice piaceva scontrarsi con il secco rifiuto delle famiglie, a parte la sgradevolezza della situazione in sé. Ecco perché, quando un giudice si decideva a concedere l’ordine di riesumazione, lo faceva sempre in extremis, complicando spesso l’opera dell’investigatore, che doveva accontentarsi di campioni di Dna insufficienti a togliere ogni dubbio. E qualsiasi avvocato sapeva che in presenza di ragionevole dubbio il proprio cliente aveva la libertà assicurata.
«Solo in caso di corrispondenza tra i campioni delle ossa e le cinque vittime che abbiamo finora».
Sottolineò volutamente il plurale. Se lo faceva sentire parte delle indagini e Markina si dimostrava onesto almeno la metà di quanto si diceva in giro, non avrebbe potuto fare a meno di rendere giustizia a quelle povere vittime, ed era solo questo che le interessava.
«Ha raccolto tutti i campioni in suo possesso?»
«Sì».
«Ha seguito la procedura?»
«Sì, alla lettera. In ogni caso, su questo non avremo grossi problemi: la sorella e la zia delle vittime hanno consegnato i campioni in maniera potestativa, oltre a firmare il documento di cessione volontaria».
«Non vorrei sollevare un polverone inutile finché non avremo qualcosa di più concreto; non è un segreto che nei tribunali la discrezione brilla per la sua assenza…»
Amaia sorrise: aveva usato anche lui il «noi», e a questo punto era sicura che le avrebbe concesso l’autorizzazione.
«Le garantisco che sono la prudenza in persona; per adesso solo il mio collaboratore più fidato ne è al corrente, e intendo ricorrere a un laboratorio fuori città per eseguire tutte le analisi».
Il giudice ci pensò su, seguendo distrattamente con le dita la linea della mascella, in un gesto che ad Amaia parve terribilmente maschile e sensuale.
«Domani mattina presto firmo l’ordine di riesumazione», concluse. «Continui così, sta facendo un ottimo lavoro. Mi tenga informato di ogni suo passo, è importante nel caso dovessi sostenere le sue mosse… e…»
Si fermò un istante mentre la guardava di nuovo in quel modo.
«Per favore, ceni con me», la pregò con un filo di voce.
Lei lo guardò sorpresa, perché era bravissima a tracciare profili di comportamento, a interpretare il linguaggio non verbale, a riconoscere quando uno mentiva o era nervoso, e in quel momento ebbe la certezza di non avere davanti a sé un giudice, ma un uomo innamorato.
Il suo cellulare squillò proprio in quell’istante. Lo prese dalla borsa e vide che sullo schermo compariva il nome di Flora, e questo era già molto strano. Flora non la chiamava mai, neppure a Natale o al compleanno; preferiva spedire un biglietto, sempre elegante e formale come lei.
Guardò sconcertata Markina, che attendeva trepidante la sua risposta.
«Mi scusi, devo assolutamente rispondere», disse, scattando in piedi e uscendo in strada per evitare il chiasso della sala. «Flora?»
«Amaia, hanno chiamato dalla clinica, è per l’amá. Pare sia successo qualcosa di grave».
Amaia non commentò.
«Sei ancora lì?»
«Sì».
«Il direttore dice che ha avuto un attacco e ha ferito un inserviente».
«E perché chiami me, Flora?»
«Oh, credimi, non l’avrei mai fatto se quegli stupidi non avessero avvisato la Policía Foral».
«Hanno avvisato la polizia? Quanto è stata grave l’aggressione?» si informò, mentre la sua testa tornava ad affollarsi di immagini che riteneva morte e sepolte.
«Non ne ho idea, Amaia», rispose con il tono che adottava ogni volta che si abusava della sua pazienza. «Mi hanno detto solo che è arrivata la polizia e dobbiamo presentarci al più presto. Io esco adesso, ma prima di un paio d’ore non ce la faccio».
Amaia sospirò e si diede per vinta.
«D’accordo, adesso ci vado. Avvisali che sarò lì tra mezz’ora».
Rientrò nel locale, che nell’ultimo quarto d’ora si era riempito di gente, e tornò al tavolo del giudice passando tra un cliente e l’altro.
«Vostro onore», disse avvicinandosi per farsi sentire, «c’è un’emergenza, devo andare», gli spiegò.
All’improvviso ebbe la sensazione che fossero troppo vicini e fece un passo indietro prendendo il cappotto dalla spalliera dello sgabello.
«L’accompagno».
«Non serve, ho la macchina qui accanto».
Ma lui si era già alzato e si dirigeva verso la porta. Lei lo seguì e uscendo notò come lo guardava il gruppetto di amiche di poco prima. Abbassò la testa e affrettò il passo per raggiungerlo.
«Dove ha parcheggiato?»
«Qui, sulla strada principale», rispose.
Con un leggero sorriso, le tolse il cappotto di mano e glielo sorresse per aiutarla a indossarlo.
«Tanto me lo tolgo subito per guidare».
Lui glielo mise sulle spalle e forse indugiò con le mani qualche istante di troppo. Non disse una parola finché non arrivarono alla macchina. Amaia aprì lo sportello, lanciò dentro il cappotto e si mise al volante.
«Buonanotte, vostro onore, grazie di tutto, la terrò informato».
Lui si chinò su di lei e le chiese: «Mi dica la verità: se non le fosse arrivata quella telefonata, avrebbe accettato?»
Amaia non rispose subito.
«No».
«Buonanotte, ispettrice Salazar», le augurò, richiudendo lo sportello.
Lei mise in moto, imboccò la strada e si girò a guardare. Markina non c’era più, e chissà perché provò un gran senso di vuoto.