32
Amaia entrò nella sua stanza. La calda luce dell’abat-jour illuminava James, che dormiva a pancia in su.
«Ciao, amore mio», sussurrò.
Si chinò per baciarlo e per vedere Ibai, che dormiva su un fianco con il ciuccio in bocca, per la prima volta da quando aveva smesso di succhiare il latte materno.
James fece un cenno verso il bimbo.
«È bravissimo, non sai come si comporta bene. Certo, in mancanza di tetta va bene il ciuccio», aggiunse sorridendo. «Stavo pensando di comprarmene un paio anche per me», disse posandole le mani sui seni.
«In effetti, non sarebbe una cattiva idea», ribatté lei allontanandolo. «Ho ancora un po’ di lavoro da fare».
«Molto?»
«No, non molto».
«Ti aspetto sveglio».
Lei sorrise, prese il portatile e uscì dalla stanza.
Nella casella di posta c’erano almeno quattro messaggi del dottor Franz. Quella storia cominciava a pesarle, ma non si decideva né a rispondergli né a buttarli nel cestino senza leggerli. In effetti, anche se a prima vista sembravano motivati solo dall’astio, nel fondo c’era qualcosa di ragionevole che la faceva riflettere. Li rimandò a dopo e aprì la mail di Johnson.
Che l’Fbi possedesse il miglior software di riconoscimento facciale del mondo non era certo un segreto. Eseguivano la più precisa verifica biometrica multimodale, che includeva zone di certezza e incertezza del viso. Si avvalevano di nuovi programmi simili all’Indra utilizzato negli aeroporti europei, che tuttavia aveva lo svantaggio di funzionare solo con visi reali o immagini molto nitide.
Il governo americano aveva investito più di mille milioni di dollari nello sviluppo di un programma in grado di identificare volti per la strada, in un campo da football o nei filmati di qualsiasi telecamera di sicurezza. Insieme al messaggio dell’agente Johnson, in cui diceva che non erano riusciti a ottenere alcuna identificazione, era allegato un rapporto dettagliato dell’esperto, pieno di sfumature e considerazioni, oltre a una minuziosa spiegazione della procedura basata sui fasci luminosi. In poche parole, erano riusciti a illuminare zone di incertezza nella foto che evidenziavano un travestimento elaborato. Questo impediva di essere più precisi nella ricostruzione, e suggeriva anche che la lente della telecamera doveva essere danneggiata o che un elemento estraneo si era inserito nella ripresa. Infine erano allegati altri due file, uno con quello che l’esperto aveva chiamato il «ragno», e l’altro in cui l’immagine originale era stata sottoposta a cancellazione digitale.
Amaia aprì la cartella con le fotografie e si trovò di fronte un volto caucasico, giovane e dai lineamenti regolari. Il berretto, la barba e gli occhiali erano stati eliminati dal programma, e la ricostruzione di quello sguardo vuoto non le diceva niente. Poi aprì il file con il «ragno» e guardò sorpresa l’immagine. Qui, nella fase precedente alla cancellazione digitale, si vedeva il viso ancora con il berretto, gli occhiali e la barba, e al centro della fronte si apriva un occhio scuro con le ciglia lunghe che l’esperto aveva chiamato «ragno» tanto per tenersi sul vago. Analizzò attentamente l’immagine per diversi secondi, poi inoltrò il messaggio a Jonan e a Iriarte.
Le mail del direttore della Santa María de las Nieves erano proprio quello che le mancava: vari piagnistei che andavano dalla supplica al puro e semplice piagnucolio per la sua amata clinica. In compenso, nelle ultime due si aggiungevano anche accuse senza fondamento contro Sarasola: «Quell’uomo nasconde qualcosa, non è tutt’oro quel che luccica, ma non ho ancora le prove». No, certo che non le aveva. Come se non bastasse, allegava anche dei rapporti di altri medici (sempre della clinica) e diversi articoli pubblicati su prestigiose riviste scientifiche secondo cui era impossibile che la paziente avesse potuto simulare normalità in mancanza di trattamento farmacologico. Amaia li sfogliò riconoscendo che la terminologia medica le dava il mal di testa. Guardò l’ora, spense il pc e si chiese se James la stesse aspettando ancora, come aveva promesso. Mentre saliva le scale le venne da sorridere: James manteneva sempre le sue promesse.
Per la prima volta da giorni, si svegliò serena quando James le mise Ibai accanto. Trascorse i minuti successivi a sbaciucchiare la testolina e le mani del piccolo, che si svegliava con una dolcezza e un sorriso che le aprivano il cuore come mai si sarebbe sognata. Prendendogli le manine tra le sue, pensò a Iriarte e al modo in cui aveva pronunciato la parola «braccino», e subito le vennero in mente le immagini di quel minuscolo cranio con la fontanella ancora aperta e le fosse dei mairu lungo il perimetro di Juanitaenea. «E così lei è una di quelle…?» «I morti fanno quello che possono».
James entrò portando il biberon per Ibai e il caffè per lei. Aprendo le imposte, si girò a guardarla.
«Amaia, che ti è successo?»
Lei ricordò il pugno della sera prima e quando si toccò lo zigomo sentì una fitta di dolore. Uscì dal letto e si guardò allo specchio: la guancia non era molto gonfia, ma c’era un bel livido bluastro che nei prossimi giorni avrebbe preso tutte le sfumature, dal marrone al nero fino al giallo. Allora cercò di applicarsi del fondotinta, ma l’unico risultato che ottenne fu un gran bruciore. Alla fine si arrese e ripensò a Beñat Zaldúa, che secondo Zabalza non andava a scuola quando aveva i lividi in faccia.
«Va bene, allora non vado a scuola neanch’io!» disse alla sua immagine allo specchio.
Dedicò il resto della mattinata a sbrigare telefonate che le diedero una sensazione di totale inutilità. Del marito di Nuria non c’era più traccia. Tenevano un’autopattuglia di fronte alla casa e un’altra di fronte alla chiesa e non si erano verificate altre profanazioni. Ma ormai che senso avrebbero avuto? Il Tarttalo aveva già tutta la sua attenzione, e quella messa in scena sembrava solo un colossale fuoco d’artificio mirato a ottenerla. Adesso che lo scopo era raggiunto, non serviva a niente proseguire su quella strada.
Anche se aveva controllato la mail da poche ore, tornò a farlo e commentò al telefono con Etxaide e Iriarte i risultati della fotografia.
Secondo Iriarte, era evidente che la lente o la registrazione fossero danneggiate, anzi era probabile che un ragno vero e proprio si fosse infilato nella telecamera montata all’esterno della Santa María de las Nieves. Oppure, azzardò Jonan, c’era la possibilità, per quanto piuttosto remota, che fosse quello che sembrava, un occhio, un trucco extra che il visitatore si aggiungeva per completare l’immagine che voleva mostrare. In fin dei conti, il Tarttalo era un ciclope con un occhio solo. In tutti i filmati si riusciva a intravedere solo il berretto e la fronte dell’individuo, ma l’ultimo giorno aveva deciso di alzare la testa verso la telecamera e l’aveva tenuta ferma quel tanto che bastava a fornire un’immagine del suo viso.
«Secondo me non è stato un caso», sentenziò Etxaide.
No, non lo credeva neanche lei.
«A mezzogiorno dovremmo sapere con più precisione la data di fabbricazione degli strumenti medici, e per il momento i registri ospedalieri delle persone amputate o con protesi non hanno dato alcun esito, anche se siamo solo all’inizio…»
Prima di riagganciare, Jonan aggiunse: «Ah, capo, è arrivata un’altra di quelle mail strane. Gliela giro».
Erano ancora al telefono quando la vide arrivare nella sua casella di posta. Breve e perentoria come le altre. «La signora aspetta la sua offerta». Il simbolo della lamia compariva in fondo a destra. All’improvviso si sentì esasperata da quel maledetto gioco. Si coprì il viso con le mani e rimase così, come se in qualche modo potesse strapparsi di dosso il disappunto. Ma l’unico risultato che ottenne fu premere contro lo zigomo dolorante, innervosendosi ancora di più. Allora decise di richiamare Jonan.
«Immagino che non avrai avuto tempo, ma non è che per caso hai scoperto da dove provengono quelle mail?»
«In realtà sì, ma non ci è di grande aiuto. Le mail sono state spedite da un account gratuito, non compare nessun nome di persona, ma solo un nickname: servitricidellasignora@hotmail.com. Analizzando i dati delle mail, si vede che sono tutte reindirizzate da un IP dinamico, e seguendo le varie connessioni che partono da questo IP si arriva alla conclusione che sono state inviate da un internet point gratis tipo quelli che si trovano a volte negli aeroporti o nelle stazioni degli autobus… È praticamente impossibile rintracciare la persona che spedisce quelle mail… Sarebbe possibile solo finché rimane attiva la connessione: hanno già fatto dei tentativi in qualche caso di terrorismo internazionale, ma… Insomma, io per il momento continuo a cercare, ma è molto probabile che se dovessimo trovare il server di partenza non ci sarebbe più traccia di chi ha effettivamente spedito le mail…»
«Già, non ti preoccupare, grazie comunque». E riagganciò.
Dopo la colazione e una mezz’oretta di gioco, Ibai era pronto per il suo sonnellino di metà mattina, e James si prese cura di lui. Amaia diede loro un bacio a testa, salutò la zia e uscì di casa. Montò in macchina, accese il motore, ma lo spense subito dopo, ricordandosi di una cosa. Scese dall’auto e tornò alla porta di casa, dove passò qualche secondo a osservare con cura il selciato finché non individuò su un bordo due o tre sassolini lisci che sembravano staccati. Ne prese uno, se lo infilò in tasca e tornò in macchina.
Cercò di concentrarsi sulla guida, mentre usciva da Elizondo. Quando fu in autostrada, espirò con forza, sentendosi terribilmente contratta. Stringeva così forte il volante che le si vedevano le nocche bianche e le sudavano le mani, nonostante la bassa temperatura di quell’inverno che nel Baztán sembrava sempre eterno. Se le sfregò sulle gambe dei pantaloni per riscaldarle. Maledizione, aveva paura e questo non le piaceva affatto. Non era una stupida, sapeva che la paura teneva vivi, vigili e prudenti i poliziotti, ma la sua non era la paura che fa battere forte il cuore quando si arresta un uomo armato; era l’altra, la paura più antica e più intima, quella che sapeva di urina e di sudore, la vecchia paura che veniva dal profondo e che nell’ultimo anno era riuscita a tenere a bada, ma che adesso rivendicava il suo territorio. Il territorio della paura. Ci era già passata in vita sua, sapeva già dall’inizio che non si riesce a sconfiggerla, e che l’unico modo per rimanere sani di mente è non dargliela mai vinta. La certezza che la breccia di luce aperta a costo di tanta fatica potesse tornare a chiudersi la intristiva profondamente, per sé e per l’altra bambina. Sentì la rabbia montare come una marea. Perché doveva sopportare una cosa simile? No, non l’avrebbe fatto: forse in passato, quando erano piccole, tutte le forze dell’universo si erano coalizzate contro di loro, forse la paura aveva vissuto sepolta nel suo petto per anni; ma non era più disposta a stare al suo gioco, adesso non era più una bambina e non si sarebbe più lasciata manipolare. Guidò per chilometri su una strada municipale che sembrava in buone condizioni, finché non si imbatté in una mandria di bellissimi pottokiak, i cavallini che pascolano liberi per il Baztán. Accostò e si mise ad aspettare. Ma i pottokiak, solitamente timidi, non ne volevano sapere di spostarsi dalla carreggiata, e così decise di osservarli. Una cavallina si avvicinò, curiosa, e Amaia le porse la mano aperta, che l’animale annusò incuriosito. Vedendo che non avevano nessuna voglia di muoversi, Amaia aprì il bagagliaio e indossò gli stivali di gomma che portava sempre con sé per ogni evenienza. Prese anche una torcia e scese il primo tratto del pendio, mettendosi di lato per non scivolare sull’erba alta e bagnata, che diventava bassa, come rasata, sulle due rive del fiume che in quel punto scorreva quasi silenzioso. Lo seguì fino a un ponte di cemento con una balaustra di ferro che evitò di toccare perché sembrava arrugginita alla base, dove le sbarre si conficcavano nella pietra. All’estremità opposta, aprì il cancelletto di una staccionata rudimentale, montata forse per impedire il passaggio degli animali, lo richiuse per bene e proseguì tra i campi verso un casolare abbandonato ma in buono stato con le imposte di legno inchiodate al telaio. Avvicinandosi, percepì l’odore inconfondibile di un gregge e si spiegò la rasatura perfetta dell’erba in quella zona. Superata la casa, cominciò a riconoscere i paraggi: solo qualche metro più in là c’era il confine del bosco, dove aveva parcheggiato la volta prima. Più entrava nel fitto della vegetazione, più il segnale diventava debole, mentre il cuore accelerava e i battiti le colpivano le orecchie come tante rapide frustate. Zac, zac, zac. Inspirò profondamente cercando di ritrovare la calma, ma senza volere affrettò il passo con lo sguardo fisso sulla chiazza di luce che in fondo al sentiero indicava l’uscita dal bosco. Proseguì cercando di controllare l’impulso infantile di mettersi a correre e la sensazione paranoica di essere seguita. Portò la mano alla pistola, mentre nella sua testa la sua voce, una voce ironica, le diceva: «Certo, bella, una pistola, e si può sapere a cosa ti serve?»
Quando aveva undici anni le era capitato di giocare, come tutti i bambini di quell’età, a entrare nel cimitero dopo il tramonto. Era un gioco stupido che consisteva nel disporre alcuni oggetti sopra le tombe della parte più alta del camposanto, e appena faceva buio sorteggiare l’ordine in cui, uno dopo l’altro, dovevano entrare a recuperarli. Bisognava arrivare fino in fondo e uscire a passo tranquillo mentre gli altri aspettavano al cancello. Spesso, quando uno era quasi all’uscita, gli altri si mettevano a gridare: «Oddio, dietro di te!», e allora il povero coraggioso di turno si metteva a correre come se lo inseguisse il diavolo. Quasi sempre la paura del malcapitato faceva morire dal ridere gli altri ragazzini, che però continuavano a guardarsi attorno nel caso si presentasse un buon motivo per filarsela… E anche se ormai lo sapevano tutti che gli amici si sarebbero messi a urlare, non c’era nessuno che riuscisse a uscire dal cancello senza correre. Correvano per prudenza.
Raggiunse il confine del bosco e si ritrovò in una radura che si estendeva fino all’incantevole corso d’acqua in cui quella giovane le aveva rivolto la parola, e che adesso era invaso da un numeroso gregge. Si infilò tra le pecore e in lontananza riconobbe il pastore seduto su una roccia. Agitò una mano per salutarlo e lui ricambiò il gesto. Confortata dalla presenza lontana di quell’uomo che la guardava, attraversò il ponticello che si sollevava a pochi palmi dal ruscelletto, e un brivido le percorse la schiena. Proseguì verso le felci che costeggiavano la collina e cominciò a risalire il pendio, arrampicandosi su quelle antiche pietre che formavano una scala naturale fino al punto in cui era diretta. Si fermò un istante nella spianata dove l’avevano aspettata per la prima volta James e sua sorella, e notò che il sentiero in salita sembrava più sgombro, come se qualcuno l’avesse percorso di recente, nonostante i rovi e le spine. Infilò le mani in tasca per non ferirsi e vi si inoltrò. Trovandolo sempre più percorribile via via che avanzava, si convinse che qualcuno doveva esserci passato da poco. Lì attorno non c’era nessuno, e questo la sorprese un po’ e la rassicurò un po’ di più. Dedicò alcuni secondi a osservare quel luogo. L’imboccatura della grotta, come un torvo sorriso sul volto della montagna, bassa e molto larga; la magnifica roccia «signora» alta tre metri con le sue voluttuose forme femminili che guardavano la vallata, e sulla roccia piatta, una dozzina di sassolini disposti come i pezzi di una scacchiera primitiva. Si avvicinò per osservarli.
Non erano sassi qualsiasi, qualcuno li aveva portati lì appositamente come offerta alla signora. Scrollò la testa, incredula, mentre si sorprendeva a fare esattamente lo stesso. Prese la pietruzza che aveva portato via dall’ingresso di casa e la strinse in mano, esitante: «Una pietra che dovrai portare da casa», «La signora preferisce che si portino le pietre da casa».
Si chiese in quanti stessero ricevendo quelle mail in tutta la valle e se per caso non fosse una delle tante catene in cui bisognava rispedire i messaggi per attirare la fortuna o liberarsi da una maledizione.
Lei non avrebbe rispedito proprio niente, ma lasciare un sassolino lì sopra non poteva certo far male a nessuno, no? Si guardò attorno come se si aspettasse di vedere in mezzo alle foglie la telecamera di un reality o mezza dozzina di paparazzi che poi avrebbero intitolato il loro articolo di gossip: Ispettrice credulona ricorre a rituali magici. Strinse il ciottolo in mano e cercò inutilmente di grattar via con l’unghia uno schizzo di cemento rimasto incollato. Dispose la pietra completando una delle file e si girò verso la grotta. Camminò in linea retta e all’ingresso prese la torcia, abbassò la testa e illuminò l’interno. L’aria era impregnata di un aroma dolce di fiori, ma non vide nulla che potesse produrlo. La grotta era vuota a eccezione di una ciotola con delle mele fresche e qualche moneta che qualcuno aveva lasciato in voto. Spense la torcia e ridiscese a valle. Passando accanto alla roccia piatta vide che i sassolini erano ancora lì. «E cosa ti aspettavi?» si disse mentre imboccava il sentiero. Gli stivali di gomma erano perfetti per il terreno umido e spugnoso, ma qui le sfuggivano dai piedi, rendendole difficile la discesa lungo la scala naturale di pietra. Attraversò il sottobosco e arrivò al ruscelletto idilliaco, che, come incastonato nella collina, si apriva in un tripudio di acqua gorgogliante, rocce verdi, felci e schiuma bianca. Non vide il pastore, ma il gregge era ancora fermo lì e la sua presenza pacifica contribuì a far risaltare la bellezza del luogo e a dissipare qualsiasi possibilità che una giovane enigmatica comparisse dal nulla. Tornò a guardare verso la collina di Mari e sorrise vagamente delusa. Ma in fondo cosa si aspettava? Diede un ultimo sguardo al gregge, e in quel preciso istante gli animali smisero di bere e pascolare e sollevarono le teste come se intuissero un pericolo o avessero sentito qualcosa che ad Amaia era sfuggito. Sorpresa dallo strano comportamento delle pecore, rimase immobile ad ascoltare; in quel momento, tutti gli animali piegarono la testa di lato facendo suonare all’unisono i loro campanacci, una specie di gong immenso, ancora più sconvolgente perché seguito da un silenzio assoluto, rotto solo dal forte fischio che, come il fischietto di un capotreno, attraversò i campi. Amaia spalancò la bocca e prese più aria che poté mentre guardava attonita gli animali, che sembravano tornati alla loro routine di pascolo e acqua.
Sentì un freddo gelido lungo la schiena, come se qualcuno le avesse incollato addosso un lenzuolo bagnato. L’aveva sentito chiaramente e l’aveva anche visto. Nella sua mente si affollarono parola per parola le teorie dell’antropologo Barandiarán, che aveva studiato quando era alle prese con il caso del basajaun un anno prima: «Il basajaun rivela la sua presenza agli umani con forti fischi che attraversano la valle, ma agli animali non serve: loro sanno che il signore del bosco si è manifestato e i greggi lo salutano facendo suonare i loro campanacci una sola volta tutti insieme».
«Cazzo!» esclamò.
Si mise a correre tra gli alberi, in preda al panico, mentre una voce nella testa le chiedeva di fermarsi, di smettere di correre in quel modo, e lei rispondeva che era uguale, che correva perché non poteva fare altro, proprio come quando era piccola e giocava nel cimitero. Attraversò il sentiero lungo il bosco con la pistola in mano. Quando arrivò in fondo, nei pressi del casolare abbandonato, si guardò indietro mentre tutti i campanelli d’allarme le dicevano di non farlo. Non c’era nessuno. Ascoltò ancora e sentì solo i suoi ansimi dopo quella corsa sfrenata. Si toccò la fronte madida di sudore e vedendosi l’arma in mano pensò alla faccia da pazza che doveva avere, perciò aprì il giaccone e nascose la mano all’interno, senza decidersi a mettere via la pistola. Attraversò i campi e oltrepassò il ponte mentre il terrore faceva spazio alla rabbia, che era immensa quando arrivò alla macchina.
I pottokiak erano scomparsi lasciando fumanti mucchi di escrementi sulla strada. Montò in macchina, mise in moto e accelerò con il cuore ancora in subbuglio. Ma che accidenti le stava capitando, cos’era tutta quella storia, cosa volevano da lei…? Cazzo, non era mica matta. Perché doveva succederle una cosa simile? Aveva già problemi in abbondanza nella sua vita privata, in più era un’agente della Omicidi: nella distribuzione pro capite delle cazzate, chi diavolo aveva deciso che a lei ne dovessero spettare così tante?
«Cazzo! Cazzo!» ripeté, picchiando sul volante.
Lei non era la persona più adatta per quel groviglio mistico. La zia Engrasi, Ros, tutt’e due l’avrebbero vissuta come una vera benedizione. Lei era una poliziotta, per l’amor del cielo! Un’investigatrice, una mente metodica con un’intelligenza pratica che spiccava nelle valutazioni dei test. Una mente razionale bravissima a risolvere problemi di logica pura e buon senso, non a fare offerte a divinità della tempesta o a fate con i piedi d’anatra. No. Le pecore non salutavano il signore del bosco e le ossa dei mairu non erano narcotizzanti.
«Cazzo!» Tornò a colpire il volante e lo ripeté ancora: «Cazzo, cazzo, cazzo».
Era tutta colpa di quel posto di merda. Uno di quei posti in cui succedono le cose. Uno di quei posti che il dannato universo con tutte le sue leggi, i suoi vuoti e le sue stelle, non può lasciare in pace, facendo bruciare qualsiasi cosa come una maledetta piaga.
«Cazzo!» gridò ancora, stavolta girando il volante.
Da chissà dove in mezzo alla strada era sbucata una donna con uno di quei giacconi marroni con il cappuccio di pelo. Amaia frenò di colpo e la macchina scivolò per qualche metro prima di fermarsi proprio accanto alla donna, che si era girata all’ultimo istante e l’aveva guardata con gli occhi spalancati e bianca in viso. Scese dall’auto e andò da lei.
«Oddio, sta bene?» La donna la guardò e sorrise timidamente.
«Sì, sì, non si preoccupi, è stato solo lo spavento».
Amaia si avvicinò ancora per accertarsene e scoprì che la donna con il giaccone da eschimese aveva il pancione.
«Ma lei è incinta?»
La donna rise, come se fosse ovvio.
«Incintissima, direi».
«Oddio, è sicura di sentirsi bene?»
«In questo stato, meglio di così non potrei!»
Amaia continuava a fissarla con un’aria che tradiva la sua preoccupazione. L’altra sembrò accorgersene.
«Dai, sto scherzando: mi sento bene, sul serio, è stato solo lo spavento ed è tutta colpa mia, non avrei dovuto camminare in mezzo alla strada o forse dovrei indossare delle strisce rifrangenti o qualcosa del genere», aggiunse toccandosi le maniche del giaccone marrone. «Con questo non mi si vede tanto bene, ma è così comodo…»
La capiva alla perfezione: nell’ultimo periodo della sua gravidanza, aveva indossato gli stessi abiti quasi tutti i giorni.
«No, è colpa mia, ero un po’ distratta, pensavo ad altro. Lasci che l’accompagni: dove va?»
«In realtà da nessuna parte, stavo solo facendo una passeggiata. Mi fa bene camminare», disse guardando la macchina, «ma accetto la sua offerta: a dire la verità, oggi mi sento piuttosto stanca».
«Ma certo, immagino», esclamò Amaia, felice di potersi rendere utile.
Le tenne lo sportello aperto mentre la ragazza montava in macchina e si accomodava. Notò che era giovanissima, non avrà avuto più di vent’anni. Sotto il giaccone scuro, portava un maglione lungo marrone e delle calze dello stesso colore. I capelli legati in una treccia le cadevano sulla schiena e un cerchietto di corno contrastava con il pallore del suo viso, che inizialmente aveva attribuito allo spavento. Giocherellava con un oggettino che teneva in mano e sembrava aver recuperato la calma. Amaia salì al posto di guida e rimise in moto.
«Esce a camminare spesso?»
«Ogni volta che posso, verso la fine della gravidanza è l’esercizio migliore».
«Sì, lo so, poco tempo fa ero come lei, ho un bebè di quattro mesi e mezzo».
«Un bimbo o una bimba?»
«Doveva essere una bimba, poi alla nascita ho saputo che era un maschietto», rispose sovrappensiero.
«Avrebbe preferito una femminuccia?»
«No, non è questo, è solo che è stato un po’ strano: la parola esatta è “sconcertante”».
«Se ha avuto un maschio significa che doveva andare così».
«Sì», disse Amaia, «immagino che dovesse andare così».
«È meraviglioso!» esclamò la ragazza fissandola, «lei ha già il suo bimbo, non sa che voglia ne ho anch’io».
«Sì», ammise Amaia, sorridendo, «è meraviglioso, ma anche tanto complicato… A volte rimpiango il periodo della gravidanza, sa com’è, tenerlo lì, al sicuro, portarlo sempre con me…» disse in tono malinconico.
«Sì, la capisco, però io non vedo l’ora di sapere che faccia ha e di farla finita con questo pancione: sono un mostro!» disse toccandosi in grembo.
«No, non è affatto vero», le rispose Amaia.
E non lo era davvero: anche se si lamentava di essere affaticata, il suo viso non tradiva il minimo segno di stanchezza. Tutto il suo aspetto era florido, e adesso che le donne rimandavano il più possibile la maternità, una madre così giovane era una boccata d’aria fresca.
«Non mi fraintenda, sono felice ogni volta che vedo mio figlio, è solo che la maternità non è così idilliaca come sembra sulle riviste».
«Oh, questo lo so bene», affermò la ragazza. «Per me non è la prima volta».
Amaia la guardò stupita.
«Non si faccia ingannare dal mio aspetto, sono più vecchia di quello che sembra, e sono incinta praticamente da quando ho memoria».
Amaia evitò di guardarla ancora per non tradire la sua sorpresa. Le venivano in mente decine di domande e tutte poco appropriate a una sconosciuta che aveva appena rischiato di investire. Ma almeno una gliela fece: «E come fa a gestire maternità e gravidanza insieme? Glielo chiedo perché io sto facendo una gran fatica a conciliare il lavoro con l’impegno di madre».
Notò che la ragazza la osservava con attenzione.
«Capisco… e così lei è una di quelle…?»
Aveva sentito quella stessa frase poco tempo prima, pronunciata da quella donna orribile che coltivava fiori, decapitando con l’unghia i germogli teneri delle piante.
Si mise sulla difensiva.
«Non so a cosa si riferisce».
«Una di quelle donne che lasciano che siano gli altri a decidere come si fa la madre. Prima ha nominato le riviste sulla maternità. A parer mio, la maternità è una cosa molto più istintiva e naturale, e spesso troppe regole, controlli e consigli fanno solo male alle madri».
«È normale preoccuparsi di fare le cose per bene, no?» obiettò.
«Certo, ma nessun libro in vita sua riuscirà mai a toglierle questa preoccupazione. Mi dia retta, Amaia, lei è la madre migliore per il suo piccolo e lui è il figlio che lei doveva avere», sentenziò la ragazza continuando a giocherellare con l’oggetto che teneva in mano come se lo volesse impastare tra le dita.
Non ricordava di averle detto il suo nome, ma badò solo a rispondere.
«Ma sono piena di dubbi e non vorrei fare qualcosa che a breve o a lungo termine gli facesse male».
«L’unico modo che ha una madre per fare male a suo figlio è facendogli mancare il suo amore. Può dargli tutte le attenzioni del mondo, nutrirlo, vestirlo e educarlo: se il piccolo non riceve amore, amore buono e generoso di madre, crescerà bisognoso di affetto e con un concetto di amore malato che non gli permetterà di essere felice».
Amaia pensò all’istante a sua madre.
«Ma…» insistette, «certe cose sono migliori di altre, è dimostrato, come allattare al seno…»
«La cosa migliore è sempre relazionarsi con il bimbo senza regole né tensioni. Se vuole allattarlo al seno, lo faccia; se vuole dargli il biberon, lo faccia…»
«E se non si può fare ciò che si vorrebbe?»
«Allora bisogna adattarsi a vivere la situazione negativa senza tante tensioni. Sa come si dice? Non è sempre estate, ma non per questo l’autunno è brutto!»
Amaia rimase in silenzio per qualche secondo.
«Sembri un’esperta», disse dandole del tu.
«Lo sono», ammise lei senza arrossire, «esattamente come te. Se fossi in te, darei fuoco a tutti quei libri, video e interviste. Così ti sentiresti meglio e potresti compiere finalmente la tua missione». Pronunciò l’ultima frase come se facesse allusione a un compito preciso.
Amaia si girò a guardarla, incuriosita.
«Ferma qui, per favore», disse lei all’improvviso, indicando una biforcazione con una strada forestale. «Faccio altri due passi».
Fermò la macchina e la ragazza scese, quindi si chinò perché Amaia potesse guardarla in faccia.
«Non ti preoccupare tanto, te la stai cavando benissimo».
Amaia stava per rispondere, ma lei richiuse lo sportello e si mise a camminare lungo lo sterrato. Quando rimise in moto, si accorse che la donna aveva dimenticato qualcosa sul sedile e guardando con più attenzione riconobbe cos’era, accostò su un lato e rimase qualche secondo a fissare quell’oggetto senza toccarlo. Incredula, con le dita tremanti, sollevò il ciottolo e lo girò per vedere lo schizzo di cemento che per tanto tempo aveva tenuto quella pietra incollata all’ingresso di casa sua.