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Inma Herranz le rivolse uno sguardo severo che andava a sommarsi alla sua tipica espressione di contrarietà, con le labbra quasi risucchiate nella fessura sgraziata che era la sua bocca. Amaia guardò l’orologio: o la segretaria del giudice faceva ore extra, o aveva prolungato l’orario di lavoro per essere presente al momento del suo arrivo. Quando aveva chiamato per parlare con lui, le aveva passato la telefonata senza rispondere al suo saluto, e adesso rimaneva immobile dietro la scrivania fingendo di esaminare lo stesso documento di cui non aveva sfogliato neppure una pagina negli ultimi dieci minuti. Markina arrivò trafelato. Indossava un cappotto di lana su cui le gocce di pioggia non riuscivano a scivolare, rimanendo in superficie come strani corpuscoli opachi.
«Mi scusi per l’attesa», disse, notando la presenza della segretaria.
«Inma, ancora qui?» le chiese indicando l’orologio.
«Devo sbrigare queste pratiche», rispose lei con voce melliflua.
«Ma ha visto che ore sono? Le lasci pure a domani».
Lei non ne voleva sapere di andarsene.
«Volevo terminare oggi, se non le dispiace, perché domani abbiamo una giornata molto impegnativa…»
Lui sorrise mostrandole i denti bianchissimi e le si avvicinò.
«Non se ne parla neanche», sentenziò chiudendo la cartellina. «Non glielo permetto: vada a casa e si riposi».
Lei lo guardò come ipnotizzata per un paio di secondi, prima che le tornasse in mente la presenza di Amaia.
«Come vuole», rispose vagamente delusa.
Risolti i problemi con la segretaria, il giudice si diresse nel suo studio senza girarsi a guardarla.
«Venga pure, ispettrice», le disse.
Amaia lo seguì sentendosi alle spalle i coltelli che Inma le lanciava sotto forma di sguardi. Si girò per vedere il suo viso rabbuiato come se la luce si fosse spenta all’improvviso, le labbra più serrate che mai e negli occhi un odio antico e riservato alle donne gelose.
Le fece la linguaccia.
L’odio si trasformò in sorpresa e profonda indignazione. Inma afferrò il cappotto dall’appendiabiti e uscì di corsa. Amaia aveva ancora il sorriso sulle labbra quando si sedette davanti al giudice, che la guardò perplesso senza capire.
«Immagino ci siano novità sul caso, altrimenti non sarebbe venuta a trovarmi, giusto?» esordì lui, in tono gentile.
«Esatto, ieri sera l’ho già informata dell’arresto che abbiamo eseguito, ma non è di questo che volevo parlarle».
Nella successiva mezz’ora lo aggiornò sui progressi compiuti nelle ultime ore e sui dubbi e i sospetti che cominciavano a porsi. Markina la ascoltava attento, annotando qualche dato mentre lei esponeva le sue idee.
Quando ebbe terminato il suo resoconto, rimasero entrambi in silenzio per alcuni secondi. Il giudice aggrottò la fronte e piegò la testa di lato.
«Vuole arrestare un funzionario del Vaticano addetto alla difesa della fede, che in più riveste una delle cariche più alte della curia, con l’accusa di essere un assassino seriale, cannibale e induttore di altri criminali?»
Amaia sbuffò con forza e strinse gli occhi.
«Non voglio accusarlo di niente, voglio solo interrogarlo. In qualità di direttore del Dipartimento di Psichiatria della Clinica Universitaria, è lui ad assegnare gli psichiatri ai servizi carcerari».
«Un servizio che prestano su base volontaria».
«Non m’importa il loro volontariato, se il servizio che prestano è mirato a incitare persone violente ad altra violenza o al suicidio».
«Questo non sarà facile da dimostrare».
«Sì, ma al momento ho una serie di rapporti fantasma delle prigioni in cui appare la firma di Sarasola e nessun nome nella casella dello psichiatra assegnato».
«Un’irregolarità che evidentemente è sfuggita agli istituti penitenziari», fece notare il giudice.
«Erano tutti firmati dal Direttore del dipartimento, cosa c’era da dubitare?»
«E secondo lei, Sarasola avrebbe firmato le assegnazioni con il suo nome se dopo si fosse presentato lui stesso a visitare i detenuti?»
«Sarebbe un ottimo alibi, di sicuro il suo avvocato direbbe lo stesso».
«Non credo che nessun giudice si troverà mai costretto a compiere una scelta simile, perché quello che mi chiede è impossibile. È un pezzo grosso del Vaticano, e solo per questo entreremmo in conflitto con la Santa Sede. Ma in più stiamo parlando di una prestigiosissima clinica dell’Opus Dei: lei è di qui, non serve che le dica chi sono, no?»
«So perfettamente chi sono, e voglio solo fargli qualche domanda».
Markina scrollò la testa.
«Devo pensarci su: le accuse di uno psichiatra ferito nel suo onore di medico e di sicuro nel suo conto corrente non bastano a consentire l’interrogatorio di una personalità come Sarasola».
«L’autore delle profanazioni, che ha anche cercato di uccidere una donna, ha chiamato quella clinica, per la precisione il reparto di Psichiatria, proprio stamattina. Tutti gli assassini sono andati in terapia, e almeno due di loro erano in cura presso quella stessa clinica. Ho le prove che quel centro psichiatrico era legato a tre degli assassini e sono sicura che riuscirei a dimostrare che c’era un legame anche con gli altri, e le ragioni di quello psichiatra ferito nell’onore, come dice lei, non sono così assurde, ma anzi mi paiono ben argomentate e piuttosto ragionevoli. La cosa certa è che il coinvolgimento di Sarasola non sembra affatto casuale. È stato lui stesso a richiedere che fossi io a occuparmi del caso delle profanazioni di Arizkun, ed è apparso come per miracolo quando siamo stati costretti a trasferire mia madre».
Markina scrollò ancora la testa.
«Ho le mani legate».
Lei lo guardò negli occhi.
«Sì, per fare un gesto simile servirebbe molto coraggio».
Lui alzò entrambe le mani.
«Ti prego, Amaia, non farlo».
Lei sollevò la testa con aria di sfida.
«Non hai il diritto di farlo».
«Non so di cosa parla, vostro onore».
«Lo sai benissimo di cosa parlo».
Il telefono di Amaia si mise a squillare: era Iriarte. Rispose sostenendo lo sguardo di Markina senza battere ciglio, ascoltò cos’aveva da dirle e riagganciò nel momento il cui il telefono del giudice cominciava a suonare.
«Adesso è di turno, vero? Allora non si disturbi a rispondere, tanto le dico io cos’è successo. Lo psichiatra paranoico ferito nell’onore ora è ferito anche nel corpo, così ferito da essere addirittura morto, e guarda caso, si trova nel parcheggio della Clinica Universitaria, dopo aver annunciato proprio stamattina che Sarasola non l’avrebbe fatta franca».
Faceva buio in fretta e le nuvole nere addensate su Pamplona non erano di grande aiuto. Finalmente aveva smesso di piovere, ma dall’aspetto del cielo doveva trattarsi solo di una tregua. Sui motori delle autopattuglie ferme galleggiava uno strato di vapore spettrale, e a terra era pieno di pozzanghere che Amaia schivò per arrivare fino al corpo, seguita dal giudice, insolitamente taciturno.
«Ispettrice Salazar, che piacere vederla, per quanto l’occasione non sia delle migliori», la salutò il dottor San Martín.
«Buonasera, dottore», rispose lei.
Iriarte si avvicinò e le mostrò un portafoglio insanguinato con dei documenti. Lei annuì: era Aldo Franz, il dottor Franz.
Il corpo era semiriverso su un’auto. Il sangue era zampillato dalla gola, uscendo da un taglio profondo ma non troppo grande. La camicia era tagliata nei punti in cui aveva ricevuto le pugnalate e la cravatta entrava nello stomaco come risucchiata dalla ferita.
«Le pugnalate all’addome sono state le prime; così, senza spostare il corpo, ne conto otto; il taglio alla gola è venuto dopo, forse per evitare che gridasse. Ha avuto appena il tempo di portarsi la mano alla ferita per trattenere l’emorragia, vede?» spiegò il dottore mostrando la mano e il polsino della camicia insanguinati. «Avrà perso le forze molto in fretta con un’emorragia del genere».
Amaia guardò il giudice, che fissava con aria depressa il rivolo di sangue che si perdeva in una pozzanghera, formando contorti fiori rossi sul pelo dell’acqua.
I costanti e spudorati tentativi del dottor Franz di manipolare la sua opinione non gli avevano guadagnato la sua amicizia, ma adesso, vedendo il suo cadavere scomposto e trafitto di pugnalate, Amaia si chiese fino a che punto fosse responsabile della sua morte per non essere stata più coscienziosa. L’aveva avvertito di non farsi coinvolgere troppo, è vero, però sapeva anche che per lui era una questione personale, e che per sua stessa natura in questi casi l’essere umano si sentiva legittimato e quasi incoraggiato a farsi giustizia da sé.
Montes parlava in un angolo con Zabalza, mentre il viceispettore Etxaide subiva con aria mesta la lezione del dottor San Martín, che non sapeva resistere alla tentazione di mettere a dura prova la resistenza del suo stomaco. Chino sul cadavere, sollevava il cappotto e la giacca del morto con una penna per dare modo a Jonan di vedere la traiettoria delle coltellate.
«Se fa attenzione, noterà che sono tutte molto vicine, ma non è difficile stabilire un ordine. È evidente che l’aggressore era di fronte, ed è avanzato verso di lui tenendo nascosta l’arma; è probabile che lo stringesse o lo sostenesse mentre lo pugnalava, la prima dovrebbe essere questa, la più bassa. L’aggressore ha aspettato di essere molto vicino, e con la destra gli ha affondato il coltello nell’intestino». Guardò Jonan e aggiunse: «Molto doloroso, ma non mortale». Sostenne per due secondi lo sguardo del poliziotto, quindi tornò a osservare il cadavere. «Le successive sono accanimento puro, si vede che è salito nella traiettoria, come disegnando una scala, forse perché la vittima si rannicchiava su se stessa; muovendosi verso l’alto, ha raggiunto il fegato, lo stomaco e… Mi aiuti», disse spostando il cadavere in avanti e tastandogli la schiena.
Amaia sorprese il viceispettore Etxaide a chiudere gli occhi mentre con tutte e due le mani teneva per una spalla il corpo inerte.
«Sì!» esclamò trionfante San Martín. «Proprio come pensavo: certe vanno dall’avanti all’indietro».
«Serve tanta forza», precisò Etxaide, lasciando il corpo con un sospiro di sollievo.
«Oppure tanto odio», precisò Iriarte. «Si vede che c’è qualcosa di personale: quasi tutte le pugnalate non sono destinate a ucciderlo, ma a fargli più male possibile».
Amaia li ascoltava, guardando ora il cadavere ora il giudice, che nel frattempo si era messo a dettare il testo del rapporto al cancelliere, con lo sguardo fisso sul rivolo di sangue e sulle contorte scie che disegnava senza sciogliersi del tutto nell’acqua. Andò dal giudice calpestando volutamente la pozzanghera e riottenendo la sua piena attenzione. Markina la guardò negli occhi per due secondi, si girò verso la facciata della clinica e annuì.
Amaia si rivolse allora alla sua squadra.
«Iriarte, con me. Montes, controlli tutte le uscite, pronto soccorso, cucine, tutte quante. Cerchiamo il dottor Sarasola». All’improvviso si rese conto che non conosceva il suo nome di battesimo. «Un sacerdote, padre Sarasola, di solito è vestito da prete, di nero e con il collarino, anche se in realtà in clinica portava il camice da medico. Se lo trovate, chiedetegli gentilmente di aspettare, ditegli che desidero parlare con lui e non fatelo andar via, ma senza fermarlo: inventatevi una scusa qualsiasi».
Le hall della clinica era tranquilla a quell’ora. Amaia e Iriarte si diressero all’ascensore e Zabalza rimase all’ingresso principale. La receptionist li chiamò dal bancone.
«Scusate, a che piano andate? L’orario di visita è terminato».
Amaia non si girò neppure.
«Scusate!» insistette la ragazza. «Non si può salire ai piani fuori orario, a meno che non abbiate appuntamento».
Il suo tono mise in allarme la guardia di sicurezza, che cambiò giro e si diresse al bancone. Le porte dell’ascensore si aprirono e loro entrarono senza rispondere.
«Lo starà avvisando», commentò Iriarte mentre le porte si richiudevano.
L’allarme non doveva essere ancora arrivato al quarto piano. Superarono l’infermeria camminando a passo deciso verso l’ufficio di Sarasola. Un’infermiera, che non avevano visto, sbucò all’improvviso da dietro il bancone.
«Scusate, qui non si può stare».
Amaia le mostrò il distintivo, allungando il braccio fin quasi a toccare il naso della donna, che si fermò di botto.
Diede due colpetti alla porta prima di aprirla. Il dottor Sarasola, seduto alla scrivania, non parve sorpreso di vederli.
«Prego, prego, accomodatevi. Ero sicuro che sareste venuti: è terribile quello che è successo nel parcheggio della nostra clinica, in pieno centro di Pamplona, è terribile che in una città così tranquilla capitino cose del genere».
«Non sa chi è la vittima?» chiese Iriarte.
Anche se Sarasola non c’entrava niente, di sicuro doveva essere al corrente di chi era appena morto alle porte della sua clinica, di questo Amaia era convinta.
«Girano voci, è vero, ma come ci si può fidare? Aspetto conferma da voi».
«La vittima è il suo collega, il dottor Franz», comunicò Iriarte.
Amaia non si perse la sua reazione, e lui, consapevole di avere i suoi occhi puntati addosso, decise di non fingersi sorpreso.
«Sì. Così mi avevano detto, ma speravo sinceramente che si trattasse di un errore».
«Aveva appuntamento con lui?» chiese Amaia.
«Appuntamento con lui? No, non so come le venga in mente, non…»
Risposta troppo lunga, si disse Amaia: un semplice «no» sarebbe bastato.
«Il dottor Franz non era d’accordo con il trasferimento di Rosario in questo centro, e proprio stamattina aveva comunicato a diverse persone la sua intenzione di risolvere certe questioni con lei. Le risulta?»
«Non ne sapevo niente», negò Sarasola.
«Non sarà difficile verificare le ultime chiamate del dottor Franz», ribatté Iriarte, prendendo il cellulare.
Sarasola strinse le labbra come a schioccare un bacio e rimase così per un paio di secondi.
«In effetti forse mi ha chiamato, ma non ci ho fatto caso, non era la prima volta che chiamava dopo il trasferimento di Rosario…»
«Si è cambiato d’abito nelle ultime ore, dottore?» chiese Amaia, osservando il suo aspetto impeccabile.
«In che senso, scusi?»
«Anzi, direi che si è appena fatto la doccia».
«Non capisco che rilevanza possa avere in questo momento».
«La persona che ha pugnalato il dottor Franz si è sicuramente macchiata di sangue».
«Non starà forse insinuando…?»
«Il dottor Franz era convinto che lei fosse coinvolto nell’episodio accaduto nella sua clinica, dello strano comportamento di Rosario, e che in qualche modo avesse pianificato il suo trasferimento qui».
«Ma è ridicolo! Il dottor Franz era divorato dall’invidia professionale».
«Perché ha insistito che fossi proprio io a occuparmi del caso delle profanazioni?»
«E questo cosa c’entra?»
«Risponda, per favore», lo incalzò Iriarte.
Sarasola sorrise guardando Amaia.
«La sua fama la precede. Ho ritenuto, a ragione, che lei avesse la professionalità e la sensibilità adatte a un caso così speciale: inutile precisare che per la Chie…»
Amaia tagliò corto.
«Dove si trovava un’ora fa?»
«Mi sta accusando?»
«Le sto solo facendo una domanda», rispose lei, in tono paziente.
«Invece sembra proprio che mi stia accusando».
«È stato commesso un omicidio nella sua clinica, la vittima stava venendo a trovarla, e tra voi i rapporti non erano precisamente cordiali».
«Se i rapporti non erano cordiali, era solo da parte sua: il delitto è stato commesso nel parcheggio, e questa non è la mia clinica, io sono solo il direttore del dipartimento di Psichiatria».
«Lo so», rispose Amaia con un sorriso. «È il direttore di Psichiatria ad autorizzare gli incarichi all’esterno, come quelli nelle prigioni».
«Esatto», ammise lui.
«Almeno due pazienti colpevoli di femminicidio che lei aveva curato in prigione si sono suicidati lasciando la stessa firma».
«Cosa?» Stavolta la sua sorpresa era autentica.
«Jasón Medina, Ramón Quiralte e ora Antonio Garrido, che proprio stamattina ha approfittato della telefonata a sua disposizione per chiamare qui da lei».
«Non conosco queste persone, non le ho mai sentite nominare prima d’ora: potete controllare su tutti i tabulati telefonici che volete. Oggi ho passato la mattinata all’arcivescovado con un prelato vaticano in visita nella nostra città».
«Nei certificati di cura dei suoi pazienti compare la sua firma».
«Questo non significa niente: firmo sempre tantissimi documenti, io. E di sicuro firmo sempre le assegnazioni. Ma non visito mai i detenuti in prigione: è un’attività su base volontaria. Diversi medici di questa clinica partecipano a questa iniziativa, ma le posso dare la mia parola che nessuno di loro è implicato in una vicenda così orribile».
«Non si è proposto come medico in visita in nessuna prigione?»
Sarasola scrollò la testa: si vedeva benissimo che era sinceramente confuso.
«Dov’è Rosario?»
«Cosa? Sua madre?»
«Vorrei vederla».
«Non si può: nel suo trattamento terapeutico, l’isolamento svolge un ruolo fondamentale».
«Mi porti da lei».
«Se lo facciamo, butteremo via il lavoro degli ultimi giorni, e con la mente di una persona come sua madre non si può interrompere la terapia adesso e ricominciare tra un po’. Se sospendiamo il trattamento ora, i danni possono essere gravissimi».
«Ne prendo atto, ma del resto mi pare che l’altro giorno non ci abbia fatto molto caso, no?»
«Dovrà firmare una rinuncia, la clinica declina ogni responsabilità…»
«Firmerò tutto quello che vuole, ma dopo: adesso mi porti da lei».
Sarasola si alzò, e Amaia e Iriarte lo seguirono lungo un corridoio interrotto da una serie di porte che il dottore apriva una dopo l’altra, inserendo il suo badge e un codice personale, finché non arrivarono alla stanza di Rosario. Sarasola si girò verso Amaia: sembrava aver riacquistato la sua solita disinvoltura.
«Ne è proprio sicura? Non lo dico per Rosario, lei sarà felicissima di vederla, ne sono certo, ma lei? È pronta sul serio?»
«No!» gridò una voce di bambina dentro di lei.
«Apra questa porta».
Sarasola inserì il codice e aprì la porta delicatamente.
«Prego», le disse, facendola accomodare.
L’ispettore Iriarte entrò per primo estraendo la pistola.
«Per l’amor del cielo, non serve!» protestò padre Sarasola.
«Qui dentro non c’è nessuno», disse Iriarte. «Ci sta prendendo in giro?»
Lo psichiatra entrò nella stanza e si guardò attorno, sconcertato. Il letto era disfatto e ai lati pendevano due paia di cinghie imbottite.
«E nel bagno?» suggerì Amaia, tappandosi il naso e la bocca per non respirare l’odore della madre.
«Le abbiamo inserito il catetere per tenerla immobile, perciò non ha bisogno di andare in bagno», spiegò osservando con occhio clinico la reazione di Amaia. «Non sopporta il suo odore… è incredibile, io sento solo il disinfettante che usano qui, ma lei…»
«Dov’è?» lo interruppe Amaia, infuriata.
Il dottore annuì dirigendosi verso l’infermeria. La fama di Sarasola doveva essere tremenda, perché l’infermiera, una donna sulla cinquantina, si alzò di scatto lisciandosi il camice d’istinto. Era chiaro che lo temeva.
«Perché Rosario Iturzaeta non è nella sua stanza?»
«Oh, dottor Sarasola, buonasera! L’hanno portata a fare una Tac».
«Una Tac?»
«Sì, dottore Sarasola, era in programma».
«Non ho richiesto una Tac per Rosario Iturzaeta, ne sono sicuro!»
«L’ha richiesta il dottor Berasategui».
«Ma è una procedura irregolare!» urlò estraendo il cellulare.
L’infermiera divenne paonazza e cominciò a tremare. Amaia si girò schifata. Se c’era una cosa che detestava più del servilismo di persone come Inmaculada Herranz, era la sottomissione fondata sulla paura.
Il dottore digitò il numero, si portò il telefono all’orecchio e rimase in attesa con un’espressione sempre più contrariata.
«Non risponde». Si girò verso l’infermiera. «Chiami il dottore con l’altoparlante, voglio vederlo subito».
«Dove si fanno le Tac?»
«Al pianterreno», rispose Sarasola avviandosi verso l’ascensore.
«Chi è questo dottore?»
«Un medico brillante, non riesco a capire come gli sia venuto in mente di prendere una decisione simile. Rosario non doveva uscire dall’isolamento per nessuna ragione in questa fase del trattamento, e lui lo sa benissimo, perciò mi auguro che ci sia un motivo più che valido. Il dottor Berasategui è uno psichiatra di prim’ordine, uno dei migliori medici della mia équipe, se non il migliore. Ha un’ottima preparazione e si è sinceramente appassionato al caso di Rosario… Ah, ma lei lo conosce già!» esclamò, toccandosi la fronte come se se ne fosse ricordato all’improvviso. «Per quanto non formalmente. Stavo per presentarvi il giorno dell’incidente con sua madre nella stanza con la parete a specchio, ricorda? Era uno dei medici del gruppo che abbiamo incrociato in corridoio. Anzi, quando l’ho visto mi è tornato in mente che era stato lui il primo a interessarsi a Rosario e al suo caso, stavo per dirglielo, ma lei… in effetti forse quello non era il momento più adatto».
Il ricordo di quella sensazione orribile si affacciò alla sua memoria ma lo scacciò subito, sforzandosi di ragionare in maniera lucida.
«È stato il dottor Berasategui a parlarle per primo del caso? È stato così che ha cominciato a interessarsene?»
«Sì, è stata lei a chiedermelo, ricorda? E io le ho risposto che il suo caso era stato trattato in diversi congressi e che non ricordavo chi me ne avesse parlato la prima volta, ma appena l’ho visto mi è tornato in mente».
«Il suo nome mi sembra familiare».
«Le ho già detto che è un famoso psichiatra».
«No, non è questo», ribadì Amaia, mentre cercava di afferrare un ricordo che le sfuggiva di continuo fra le tenebre della mente.
Arrivarono in Radiologia e il dottore chiese informazioni a un’altra infermiera tremebonda, mentre l’altoparlante ripeteva la chiamata per il dottor Berasategui. In effetti c’era una Tac in programma due ore prima, ma alla fine non era stata eseguita.
«Può spiegarmi perché?»
«Il mio turno è appena cominciato, ma sul registro c’è scritto che il dottor Berasategui l’ha annullata all’ultimo».
«Non capisco», ammise Sarasola.
Il colore della sua pelle, che diventava sempre più grigiastro, e il tono esasperato con cui aveva pronunciato quest’ultima frase dimostravano che non era abituato a perdere il controllo della situazione. Fece una nuova e infruttuosa telefonata al medico e subito dopo chiamò la sicurezza.
«Cercate il dottor Berasategui e una paziente di Psichiatria, Rosario Iturzaeta. È molto pericolosa».
«Ci saranno delle telecamere, no?» azzardò Iriarte.
«Ma certo», rispose Sarasola sollevato.
Ma quando raggiunsero la sala controllo, trovarono un gran trambusto. Appena li vide, il capo della sicurezza si rivolse a Sarasola e Amaia ebbe quasi la sensazione che si mettesse sull’attenti, neanche fosse un generale, anziché un medico o un sacerdote.
«Dottor Sarasola, abbiamo controllato tutti i filmati, e in effetti il dottore è sceso al pianterreno con la paziente e dopo sono usciti dalla porta sul retro».
Sarasola lo guardò sconcertato.
«Ma è impossibile!»
La guardia mostrò la sequenza nei vari monitor: si vedevano un medico in camice bianco e un inserviente che spingeva una barella con un paziente irriconoscibile coperto da un lenzuolo. La sequenza successiva era quella dell’ascensore. Al pianterreno i due camminavano spingendo la barella lungo il corridoio. Nell’inquadratura successiva, l’inserviente era sparito e il medico in camice bianco aiutava a camminare una persona che indossava un piumino imbottito con il cappuccio di pelo sollevato sulla testa e lungo fino ai piedi.
«Se l’è portata via a piedi!» esclamò incredulo il dottore.
La ricetrasmittente del capo della sicurezza crepitò, e qualcuno gli comunicò una notizia che lo fece sbiancare.
«Hanno trovato l’inserviente dentro un ripostiglio: è gravissimo, l’hanno pugnalato».
Sarasola chiuse gli occhi, e Amaia capì che era sul punto di bloccarsi.
«Dottore, su cosa dà quell’uscita?»
«Sul parcheggio», rispose in tono lugubre. «Non riesco a spiegarmi una simile imprudenza da parte del dottore: l’unica cosa che riesco a pensare è che lei lo stia minacciando, in fondo lo sappiamo quanto possa essere pericolosa».
«Guardi bene, dottore, nessuno lo costringe a camminare, ed è lui che sorregge lei».
Sarasola osservò gli schermi in cui si vedeva benissimo il dottore porgere il braccio alla donna, mentre le indicava la strada da prendere.
«Ci serve una foto del dottor Berasategui».
Il capo della sicurezza le porse una scheda con un lasciapassare. Amaia lo osservò attentamente: con un paio di occhiali e la barba finta, poteva essere benissimo il visitatore misterioso della Santa María de las Nieves.
Niente è come la paura che si è già provata, di cui si conosce il sapore, l’odore e quasi il contatto fisico. Un vecchio e ammuffito vampiro che dorme sepolto sotto l’ordine e la quotidianità, e che teniamo lontano, fingendo una calma illusoria almeno quanto i sorrisi a comando. Niente è come la paura della possibilità che la paura ritorni. In sogno intravediamo la luce rossa ancora accesa, ricordandoci che non l’abbiamo sconfitto, che sta solo dormendo, e che se avremo fortuna non si farà più rivedere. Perché lo sappiamo che se tornerà, non riusciremo a tenergli testa. Se tornerà, avrà la meglio su di noi e sulla nostra sanità mentale.
Anche se aveva trascorso gli ultimi giorni immobilizzata, Rosario camminava con passo sicuro, un po’ intorpidita, ma nel complesso stabile. Da sotto il piumino sbucavano le gambe troppo bianche e i piedi infilati in un paio di pantofole che trascinava senza quasi sollevarle da terra. Le venne subito in mente la zia Engrasi che ne trascinava un paio simili perché le stavano grandi, e si chiese se fosse quella la ragione. Vederla così, in piedi, mentre camminava, era una specie di aberrazione che attentava all’immagine mentale che per anni aveva alimentato. La paura aveva campo libero e chissà dove, in fondo al cuore, una bambina gridava: «Viene a prenderti, viene a prenderti!»
Un brivido la percorse come una scossa elettrica. Ingoiò la saliva, che all’improvviso era diventata densissima, e inalò più aria possibile per compensare il tempo in cui aveva trattenuto il respiro.
«Possiamo contare sulla sua collaborazione?» chiese a padre Sarasola.
«È stato così sin dal primo momento», rispose lui.
Si percepiva nella sua voce una nota di rimprovero che Amaia preferì ignorare. Sapeva che non era piacevole sentirsi trattati come individui sospetti dalla polizia, ma quello era il suo lavoro e il dottore non era stato del tutto sincero. Gli si avvicinò per essere sicura che nessun altro potesse ascoltare le sue parole.
«Faccio molta fatica a credere che l’onnipotente dottor Sarasola abbia perso una pecorella mentre dormiva sotto l’ulivo. Non la sto accusando di niente, anzi credo persino che lei non conoscesse le iniziative personali del suo dipendente» scandì per bene la parola «dipendente» per sottolineare la sua responsabilità, «ma sono sicura che se dovessi decidere di interrogare tutti i suoi dipendenti, cosa terribilmente penosa per l’immagine della clinica, dichiarerebbero che erano spinti dalla politica del capo di Psichiatria a cercare quei casi così speciali in cui voi siete tanto esperti, quelli con una sfumatura extra, la sfumatura del male, e che il fatto che questa clinica compia tante opere di volontariato nelle prigioni non risponde a un sentimento di puro altruismo, ma all’interesse di trovare questo genere preciso di pazienti, che nelle carceri evidentemente prolifera, giusto? Il dottor Berasategui le aveva parlato del caso di Rosario, ma la sua ricerca di pazienti “speciali” non era ancora conclusa e mi spingo ad affermare che avesse carta bianca per proseguire il reclutamento».
Sarasola la guardava senza battere ciglio, ma era evidente che quelle insinuazioni sulla possibilità che il suo personale fosse fuori controllo avevano toccato un nervo scoperto.
«La politica di questa clinica nella scelta dei pazienti psichiatrici è ben nota, così come la generosità e l’altruismo che mostra prendendosi cura dei detenuti in carcere; come ha detto giustamente, il personale è istruito a scegliere i casi più interessanti, sempre nell’ottica di progredire nella ricerca e migliorare la qualità di vita dei nostri pazienti e dei loro familiari».
Amaia scrollò la testa con impazienza.
«Non siamo a una conferenza stampa, dottor Sarasola: conosceva e incoraggiava il reclutamento dei detenuti con malattie mentali dotate di questa famosa “sfumatura”, oppure era Berasategui il vero capo di Psichiatria?»
Il suo sguardo era furente, ma il tono non cambiò.
«Ho firmato le visite, lo faccio con tutti i membri della mia équipe, ma non conoscevo le azioni che il dottor Berasategui portava avanti in parallelo. Svincolo il mio nome e quello della clinica e decliniamo ogni responsabilità nei reati eventualmente derivati dalle azioni del dottor Berasategui».
Amaia sorrise: il dirigente aziendalista e implacabile fino alla fine o il grande inquisitore scaltro? Fa lo stesso, a pensarci bene le aveva fatto una concessione e in cambio lei decise di essere conciliante.
«Lo so che noi non possiamo vederle, ma sarebbe interessante che si riguardasse le ultime sedute con Rosario per capire se le ha detto qualcosa che potrebbe servirci come indizio. E mi servirà anche l’aiuto del suo capo della sicurezza».
Sarasola fece un cenno all’agente di guardia, che annuì assumendo quella posizione molto simile all’attenti e ascoltò gli ordini di Amaia.
«Fornisca all’ispettore Montes modello e targa dell’auto del dottor Berasategui per emettere un mandato di cattura. Poi vorrei vedere tutta la documentazione relativa a Berasategui: curriculum, credenziali, qualifiche, la scheda con i suoi dati personali, la domanda di assunzione o le lettere di presentazione, se ce ne sono. E ovviamente il numero di telefono e l’indirizzo, suo e dei parenti».
Sarasola annuì prendendo il cellulare.
«Avverto la mia segretaria».
«Se potesse trovarci una scrivania dove lavorare…» intervenne Iriarte.
«Potete usare l’ufficio del capo della sicurezza».
Montes entrò con gli ingrandimenti delle foto di Berasategui in mano e guardò Amaia con aria preoccupata.
«Dice Zabalza che il nome di quest’uomo compare nell’elenco almeno due volte». Rimase a fissarla sconcertato. «Cazzo, capo, questo tizio, il dottor Berasategui, è stato il mio psicologo durante il congedo. Era lui che mi insegnava le tecniche di controllo della rabbia».
Lei lo guardò stupita.
«Si consoli, ispettore, allora non c’è da stupirsi che avesse voglia di ammazzarmi».
Usando il codice di accesso di Sarasola, Amaia poté consultare la documentazione relativa al dottor Berasategui. Un curriculum davvero di prim’ordine: studi in Svizzera, Francia e Inghilterra; nato nella Navarra, senza altri elementi: niente nome dei genitori né indirizzo.
«Sembra che il dottore abbia chiuso i rapporti con la famiglia: qui c’è solo l’indirizzo di Pamplona. A quanto pare, non è sposato e vive solo», lesse Montes.
«Va bene, dopo chiamo il giudice, ma prima mandi via mail la foto di Berasategui ai penitenziari di Pamplona e Logroño, vediamo se lì lo riconoscono. Dica che è urgente, devo saperlo al più presto. Ah, poi la mandi anche al commissariato di Elizondo e dica di spedire una pattuglia con la foto a casa di Nuria e della madre di Johana Márquez».