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Le strade di Pamplona erano ancora piene di gente che faceva shopping, nonostante fosse quasi l’ora di chiusura. Lungo la strada Amaia aveva chiamato Markina, che tirò un sospiro di sollievo nel sapere che Sarasola non sembrava implicato negli omicidi e che tutte le prove erano contro quel tal Berasategui.

«Abbiamo il suo indirizzo di casa, ma mi serve un mandato di perquisizione».

«Nessun problema».

«Ah, un’ultima cosa…»

«Mi dica pure».

«Grazie per avermi concesso l’autorizzazione».

«Non deve ringraziarmi, lei aveva ragione: anche se il vero colpevole non era Sarasola, la chiave di tutto era lì».

 

Montes e Amaia andarono in ascensore con il portiere, mentre Etxaide e Iriarte salivano per le scale. Amaia aspettò che si sistemassero tutti ai lati della porta, quindi Montes bussò forte.

«Polizia, aprite!» urlò facendosi da parte.

Nessuna risposta e neanche un rumore all’interno.

«Ve l’avevo detto che non c’era», commentò il portiere da dietro. «Il dottor Berasategui passa lunghi periodi all’estero e adesso dev’essere fuori città; è almeno una settimana che non lo vedo».

Amaia fece un cenno a Iriarte, che prese le chiavi dal portiere, le inserì nella serratura e girò due volte. Montes aprì la porta ed entrò con la pistola puntata, seguito dagli altri.

«Polizia!» gridarono.

«Libero!» urlò Iriarte in fondo all’appartamento.

«Libero!» ripeté Montes dalla camera da letto.

«Va bene, adesso perquisiamo la casa, tutti con i guanti!» ordinò Amaia.

L’appartamento era composto da una sala, una cucina, una camera con bagno, una stanza adibita a palestra e una grande terrazza; in totale, circa duecento metri quadri in cui regnava un ordine assoluto, che l’arredamento quasi monastico, tutto bianco e nero, contribuiva ad aumentare.

«Gli armadi sono praticamente vuoti», riferì Iriarte, «quasi niente vestiti né oggetti, non ho visto neanche un computer o il telefono fisso».

Jonan si affacciò alla porta della cucina.

«Anche qui gli armadietti sono vuoti, nel frigo c’è solo qualche bottiglia d’acqua, ma nascosto sotto il bancone abbiamo trovato un piccolo congelatore di quelli orizzontali. Sarà meglio che venga a darci un’occhiata».

Era un modello abbastanza moderno d’acciaio inossidabile che rimaneva perfettamente mimetizzato tra i pannelli della cucina e il bancone che lo copriva. Somigliava vagamente a una cantinetta per il vino, con un paio di cassetti estraibili che il viceispettore aprì sotto i suoi occhi, per mostrarle che almeno uno dei due era vuoto. L’interno era perfettamente asciutto e sembrava appena uscito dal negozio. Nel cassetto di sopra erano allineati dodici pacchetti di dimensioni diverse, ma mai più grandi di un cellulare. Disposti in ordine rigoroso, ricoprivano tutta la superficie del cassetto, ed era stupefacente la cura con cui erano stati messi in fila, avvolti in una carta cerata spessa color crema e legati con un cordoncino di cotone chiuso con un fiocco che li avrebbe fatti assomigliare a tanti piccoli regalini, se non fosse stato per l’etichetta di cartone appesa su ognuno, che tutti i presenti riconobbero all’istante: l’avevano vista mille volte appesa ai piedi o ai polsi dei cadaveri all’obitorio. Nelle righe destinate a specificare i dati personali erano annotati dei numeri, forse delle date, scritti a mano con quello che ad Amaia parve carboncino.

«Hai portato gli strumenti?» chiese a Jonan.

«Sono in macchina, adesso vado a prenderli», rispose uscendo.

«Voglio foto di tutto, non toccate niente finché il viceispettore Etxaide non ha finito i rilievi».

«Secondo lei cosa c’è in quei pacchetti?» chiese qualcuno alle sue spalle.

Girandosi, vide il giudice Markina, che era entrato in silenzio, e gli altri poliziotti della squadra, radunati tutti attorno al congelatore. Dallo sportello aperto uscivano ondate di vapore gelato che ricadevano pesantemente sul pavimento immacolato e si dileguavano lasciando solo una sensazione di freddo attorno ai piedi.

Non voleva rispondere a quella domanda. Si rifiutava di credere anche solo per un istante alle sue supposizioni. Tanto l’avrebbero scoperto di lì a poco.

«Vi prego, signori, abbiamo bisogno di spazio per lavorare», disse indicando il viceispettore Etxaide, che stava tornando. «Montes, ha gli appunti di tutti i delitti?»

Lui prese il BlackBerry e glielo mostrò.

«Secondo me questi numeri sono tutte date. Il 31 agosto dell’anno scorso è scomparsa Lucía Aguirre; il 15 novembre dell’anno prima se non sbaglio era sparita María a Burgos, mentre sei mesi prima, il 2 maggio, Edurne… a Bilbao».

L’ispettore Montes annuì.

Jonan aveva sistemato le striscette metriche accanto ai pacchetti e scattava foto da diverse angolazioni. Amaia posò lo sguardo su alcune etichette con una scritta che non le diceva niente, finché la sua attenzione non cadde su un pacchetto in particolare. Era il più piccolo, all’incirca come un accendino, sulla carta si notavano segni di precedenti piegature e il cordino dell’etichetta penzolava mezzo snodato, come se fosse stato lasciato lì in fretta, senza badare a stringere l’involucro rigido di carta cerata. Controllò la data, febbraio dell’anno prima: coincideva con l’omicidio di Johana Márquez. Sospirò.

«Jonan, scatta qualche foto a questo: il nodo è più lento e dallo stato della carta sembra che sia stato aperto e richiuso diverse volte».

Attese che Jonan finisse con le foto, quindi estrasse con le pinze il pacchetto dallo scompartimento del congelatore e lo depositò su un telo che avevano sistemato sul bancone della cucina. Continuando a manovrare le pinzette, spostò il cordoncino senza disfare il nodo e separò i due lembi di carta, che si aprirono rimanendo rigidi come i petali di uno strano fiore. Dentro, una sottile pellicola di plastica trasparente copriva una porzione di carne. Era facile identificarla dai filamenti allungati che avevano formato il muscolo e che alle estremità del pezzo apparivano sfilacciati e biancastri, come quando si interrompe la catena del freddo e un prodotto viene congelato e scongelato più volte.

«Cazzo, capo!» esclamò Montes. «Secondo lei è carne umana?»

«Sì, credo di sì. Dovremo aspettare le analisi di laboratorio, ma somiglia a certi campioni che ho visto a Quantico».

Si chinò per guardare la sezione dell’estremità alla stessa altezza.

«Li vedete? Sono segni di denti. Questa carne è stata morsa, e dalla colorazione biancastra che indica bruciatura da freddo ed è diversa a seconda delle zone, direi che la scongelava per morderne un pezzo e poi tornava a congelarla».

«Come se fosse un manicaretto che si vorrebbe tenere da parte, ma a cui non si riesce a resistere», commentò Jonan.

Amaia lo guardò con orgoglio.

«Molto bene, Jonan. Richiudilo e rimettilo a posto finché non lo prendono quelli della Scientifica», disse alzandosi e uscendo dalla cucina.

Perlustrò l’intero appartamento nella speranza di captare il messaggio segreto di quella casa, quindi tornò nella cucina.

«Secondo me è solo uno scenario».

Tutti si girarono a guardarla.

«Tutto… la palestra, i mobili, questo appartamento lussuosissimo in cui, come dice il portiere, Barasategui non c’è mai. È solo uno scenario. Fa parte della maschera dietro la quale si nasconde, necessaria a offrire l’immagine di un giovane psichiatra di successo. Un indirizzo, un posto dove invitare qualche volta i colleghi a bere qualcosa, di sicuro anche qualche donna ogni tanto, non troppe, giusto per darsi un’aria di normalità. C’è solo una cosa che parla di lui, i pacchetti nel congelatore, e una cosa che non si vede ma si percepisce: non c’è disordine né sporco, è tutto immacolato, e questo sì che è un dettaglio autentico. Un grande manipolatore deve ubbidire a una disciplina ferrea».

«Quindi…?»

«Questa non è casa sua. Non è qui che vive, ma questo posto gli serve come parte dell’identità che esibisce: ecco perché passa così poco tempo qui, il minimo indispensabile per salvare le apparenze, ma abbastanza per sentire la mancanza della sua vera casa, dei suoi oggetti e trofei. Vivere qui implica un disagio che riduce al minimo portandosi dietro un po’ della sua casa, una specie di àncora con il suo mondo autentico, con la persona che in realtà è per davvero; ecco perché si è portato dei campioni di carne, dei piccoli feticci che lo aiutano a sopportare la finzione della sua doppia vita».

«Ispettrice…» la interruppe Iriarte. «Chiamano da Elizondo; Nuria. A quanto pare non ha mai visto quell’uomo in vita sua, ma in questo momento sono dalla madre di Johana Márquez e la signora dice che vorrebbe parlarle».

«Sì che lo conosco, ispettrice, era un cliente dell’officina dove lavorava… mi ha capito, quel diavolo, mi perdoni, ma non riesco ancora a nominarlo dopo quello che ci ha fatto, spero tanto che sia finito all’inferno. Quell’uomo aveva una macchina di lusso, una Mercedes, mi pare; non sono brava con le marche delle auto, ma quella la riconosco dalla stella. L’ha portata un giorno in officina e dopo è tornato altre volte, ma non per la macchina, solo a prendere un caffè con… sì, con lui. Mi sono incuriosita un giorno che li ho visti passare insieme davanti al bar. Quel tizio era vestito elegante e si vedeva benissimo che era colto e pieno di soldi. Mi è sembrato strano che un uomo così raffinato venisse fin qui a prendere il caffè con un meccanico zoticone. Gliel’ho persino chiesto, si figuri, ma lui mi ha risposto che non erano affari miei. L’ho rivisto ancora un altro paio di volte».

«Grazie, Inés, ci è stata di grande aiuto».

Chiuse la telefonata e rimase a fissare sul display la foto di Berasategui fornita dall’ospedale. Fece scomparire l’immagine prima di digitare il numero della zia Engrasi. Nessuna risposta. Controllò l’ora, quasi le nove: era impossibile che fosse uscita a quell’ora. Chiamò al cellulare Ros, che rispose al primo squillo.

«Ros, mi stavo quasi preoccupando, ho chiamato a casa e non risponde nessuno».

«Il telefono non funziona. C’è un temporale tremendo a Elizondo e sono almeno tre quarti d’ora che è andata via la luce. Io sono in laboratorio con Ernesto, non ti puoi immaginare i problemi che abbiamo: stavamo preparando un ordine enorme per un grande committente francese che doveva ritirare dopodomani. Ernesto e due dipendenti si erano fermati per controllare la cottura, ma quando è mancata la luce i forni si sono fermati e abbiamo perso tutto quello che c’era dentro. L’impasto si è versato sulle placche, adesso è tutto appiccicoso e il sistema di pulizia dei forni non funziona senza elettricità, così stiamo raschiando le placche con le spatole sotto il lavandino a lume di candela pregando perché torni la corrente al più presto. Ne ho ancora per un bel po’, ma tu stai tranquilla, la zia ha riempito la sala di candele profumate e la casa è bellissima; se vuoi, puoi chiamarla sul cellulare».

«La zia ha un cellulare?»

«Sì, non te l’ha detto? Sarà perché non le piace. Gliel’ho regalato da poco: avevo paura che le capitasse qualcosa quando va a fare le sue passeggiate da sola. Qualche tempo fa una signora di Erratzu è caduta su una strada isolata ed è rimasta a terra per due ore prima che passasse qualcuno, perciò ne ho approfittato per convincerla, anche se si dimentica sempre di metterlo in carica», concluse ridendo, prima di darle il numero.

«Pronto, Engrasi Salazar».

Amaia rise un bel po’ prima di riuscire a rispondere.

«Zia, sono io».

«Tesoro, che bello, almeno quest’affare serve a qualcosa!»

«Come stai?»

«Una meraviglia, alla luce delle candele e al calore del camino. Dopo il bagnetto di Ibai è mancata la corrente e tua sorella è dovuta scappare in pasticceria: ha chiamato Ernesto, erano in piena cottura e si è rovinato tutto. Qui c’è un bell’acquazzone, dicono che ci sono due palmi d’acqua in piazza e in calle Jaime Urrutia. I pompieri corrono di qua e di là e tuona che è un piacere, ma tuo figlio non ci bada, si è bevuto il suo biberon e dorme come un angioletto».

«Zia, volevo chiederti una cosa».

«Ma certo, dimmi pure».

«Il giardiniere di Juanitaenea».

«Sì, Esteban Yáñez».

«Sì, mi hai detto che aveva avuto un figlio, ti ricordi se per caso gli assomigliava?»

«Come due gocce d’acqua, almeno da piccolo».

«Non sai come si chiamava?»

«Questo no, tesoro. In quegli anni io non vivevo qui, non so neanche se ho mai saputo il suo nome. È più facile che lo conosca tu, in fondo avrà un paio d’anni più di te, al massimo tre».

Amaia ci pensò su. No, praticamente impossibile. Due anni sono un mondo a quell’età.

«Sì, come ti dicevo, l’hanno spedito in collegio quando è morta la madre. Avrà avuto una decina d’anni, sai com’è, scuole care in Svizzera ma poco affetto».

«D’accordo, zia, grazie mille… ah, un’altra cosa, il telefono è carico?»

«Non so come si fa a vedere».

«Guarda sullo schermo, ci sono delle tacchette in alto. Quante ne vedi?»

«Aspetta che mi metto gli occhiali».

Amaia sorrise divertita mentre la sentiva armeggiare.

«Una tacchetta».

«La batteria è quasi scarica e adesso non puoi ricaricarlo».

«Tua sorella mi sgrida sempre, ma il fatto è che non me ne ricordo, non vedi che non lo uso mai?»

Stava per chiudere la telefonata, quando le venne in mente una cosa.

«Zia, e la donna che si era suicidata, la madre del ragazzino, ti ricordi come si chiamava?»

«Oh, sì, ma certo. Margarita Berasategui, una donna dolcissima, proprio un peccato».

Aveva sotto un’altra chiamata, così salutò la zia e rispose a padre Sarasola.

«Ispettrice Salazar, ho riascoltato le poche frasi che sono riuscito a estorcere a Rosario durante le nostre sedute. Forse la cosa più strana è che sembrava impaziente di conoscere la sua nipotina».

«Rosario non ha nessuna nipotina», rispose lei.

«Lei ha avuto un figlio da poco, giusto?»

«Sì, ma è un maschio, e in più non credo neanche che lei lo sapesse… È impossibile».

«L’unica cosa che mi viene in mente è che si riferisse a suo figlio».

Chiuse la telefonata e digitò un altro numero, guardando con occhi spiritati quell’arredamento monastico scelto da un assassino per la sua casa.

«Amaia? Che sorpresa, a cosa devo l’onore?» rispose Flora.

«Flora, hai detto all’amá che avevo avuto un bambino?»

«No, be’…»

«Gliel’hai detto oppure no?»

«Sì, le ho detto che stava per diventare nonna. In quel momento pensavamo ancora che aspettassi una bambina, ma vista la sua reazione non gliene ho più parlato».

«Cos’ha risposto?»

«In che senso?»

«Mi hai appena detto che ha reagito male. Cos’ha detto?»

«All’inizio mi ha chiesto come la volevate chiamare e io le ho risposto che non avevate ancora scelto il nome. Ti giuro che sembrava molto contenta, ma poi ha detto qualcosa, non ho capito bene cosa, ha cominciato a ridere e ha detto cose orribili…»

«Cos’ha detto, Flora?» insistette.

«Amaia, forse è meglio se non te lo dico, lo sai che la mamma è molto malata e a volte dice cose orribili».

«Flora!» gridò.

All’altro capo del telefono, la voce di Flora si fece tremante: «Me la mangio, quella troietta».

 

Il panico produce un’improvvisa accelerazione del cuore e l’adrenalina contribuisce ad accelerarlo ancora di più, la bocca si increspa nella parodia di un sorriso, il sorriso primitivo che l’evoluzione ci ha insegnato a mostrare ai nostri nemici come segno di pace. La respirazione diventa più veloce per rispondere alle accresciute esigenze del cuore, l’adrenalina fa sporgere gli occhi in fuori, provocando la sensazione che si aprano a dismisura, e in questo modo si perde del tutto la visione laterale.

«Amaia, che ti succede?» chiese Markina, andandole accanto.

Lei portò d’istinto la mano alla Glock.

«Vogliono uccidere mio figlio, vanno a Elizondo, ecco perché l’ha fatta uscire dalla clinica. Era questo che aspettava Garrido. James è a Bilbao e noi siamo qui, a perdere tempo con questo circo. Ci ha voluto distrarre con un mucchio di cazzate, e adesso vuole uccidere mio figlio, vogliono uccidere Ibai. Oddio, è solo con mia zia!» urlò mentre sentiva gli occhi gonfiarsi di lacrime calde e dense.

Sentendola, uscirono tutti dalla cucina.

«Ha chiamato a casa?» le chiese Iriarte.

Lei lo guardò sorpresa. Com’era possibile? Il panico non la lasciava pensare. Prese il telefono e richiamò la zia. Sentì squillare, ma la linea cadde nel preciso momento in cui la zia stava per rispondere. Il peggiore dei suoi incubi si materializzò sotto i suoi occhi e vide Rosario chinarsi sulla culla di Ibai, come aveva fatto un’infinità di volte sul suo letto quando era bambina. Un pensiero logico la riportò subito alla realtà: c’era una sola tacca, si era scaricata la batteria e l’energia consumata per far squillare l’apparecchio l’aveva fatta esaurire del tutto, vedeva quasi Engrasi maledire quel dannato apparecchio inutile.

«Il cellulare di mia zia è scarico e il fisso non funziona: a Elizondo manca la corrente da circa un’ora».

«Forza, ispettrice, mobilitiamo tutti e arrestiamoli!»

Non aspettarono l’ascensore, scesero le scale di corsa mentre Iriarte e Montes parlavano al telefono. Arrivati alla macchina, aveva recuperato il controllo, ma Jonan le strappò le chiavi di mano e lei non protestò: si sentiva la testa pesante, come sotto un forte getto d’acqua o dentro un casco che le impediva di percepire la realtà al cento per cento. All’improvviso si ritrovò il giudice accanto.

«Vengo con te», disse lui.

«No!» riuscì a ribattere, «non può venire con me».

Lui le prese le mani.

«Amaia, non ti lascio andare da sola».

«Le ho detto di no» ripeté, liberandosi dalla sua stretta.

Lui la riafferrò con più forza.

«Vengo con te, ovunque tu vada».

Lei lo guardò un istante, mentre si sforzava di pensare.

«Va bene, però con un’altra macchina».

Lui annuì e corse verso l’auto di Montes.

Il telefono di Jonan cominciò a squillare appena mise in moto. Attivò il vivavoce e si sentì forte la voce di Iriarte.

«Ispettrice, ho tutte le pattuglie fuori: come sa il Baztán è esondato ieri e oggi con questo acquazzone continua a crescere. Oltre la metà della valle è rimasta senza luce, un albero colpito da un fulmine è caduto sulla linea elettrica e ci vorranno ore per ripararla, e come se non bastasse la pioggia ha provocato una frana all’altezza del tunnel di Belate. La N-121 è interrotta, e questo potrebbe giocare a nostro favore. Se hanno dovuto fare una deviazione sulla NA-1210, avranno perso parecchio tempo: a quanto ho saputo, c’era un bell’ingorgo. Ho chiamato anche i pompieri di Oronoz, ma non sono riuscito a contattarli perché dovevano rispondere alle chiamate di emergenza. Adesso provo sui numeri personali, ma in ogni caso una pattuglia sta andando a casa sua proprio adesso».

Mia sorella, pensò di botto, e digitò il suo numero.

«È peggio di quanto pensassi, sorellina», rispose Ros un attimo dopo.

Lei la interruppe subito.

«Ros, devi tornare a casa. Un medico ha aiutato l’amá a scappare dalla clinica e lei aveva detto a Flora che voleva uccidere la troietta che stavo per partorire». Mentre pronunciava quelle parole, gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. Fece uno sforzo e le ingoiò. «Ros, vuole uccidere lui perché non è riuscita a uccidere me».

Quando Ros rispose, dalla sua voce si capiva che stava correndo.

«Ci vado subito, Amaia!»

«Ros, non ci andare da sola, portati anche Ernesto!»

Il fragore di un tuono fortissimo rimbombò nel telefono e Ros riagganciò, oppure cadde la linea. Lei rimase in preda all’ansia.

 

La NA-1210 era una delle strade più belle che si potessero scegliere per arrivare nella Navarra. Circondata da un bosco verde e bucolico, la luce del sole filtrava tra i rami più alti creando fasci luminosi che arrivavano fino a terra. Eppure, la vecchia strada nazionale era anche la più pericolosa, vista la quantità di camion che vi transitavano a ogni ora del giorno e della notte. Carreggiate strette, asfalto rovinato, buche, pozzanghere e a volte rami caduti che ostacolavano la guida, oltre agli animali che potevano sbucare all’improvviso dal nulla. Se a tutto ciò si sommavano la notte buia, illuminata solo dai fulmini che squarciavano il cielo, la pioggia e il traffico che normalmente era suddiviso tra le due strade, la situazione diventava un vero inferno.

Amaia non prestava attenzione alla strada. Decisa a non lasciarsi trascinare negli incubi proiettati dalla sua mente, si concentrò a delineare un profilo, il profilo di uno psicopatico. Gli psicopatici non possono provare empatia, è la loro caratteristica di fabbrica, sono incapaci di provare sentimenti che nascono dall’esperienza di mettersi nei panni dell’altro. Non riescono a provare pietà o compassione, solidarietà o simpatia verso gli altri; invece riescono a provare emozioni, quelle che suscitano la musica o l’arte, l’invidia o l’avidità, quelle che suscitano la rabbia o la soddisfazione. Divinità assolute di un mondo unipersonale, si muovono in società fingendo, perfettamente consapevoli di non essere come gli altri, sentendosi eletti e al tempo stessi privati di un onore.

Un uomo intelligente e con un’ottima preparazione. Un bambino strappato da casa dopo aver perso la madre e rifiutato dall’unica persona che gli restava al mondo. Aveva tramato, forse per anni, la vendetta di un adulto intenzionato a fare ritorno. Il suo ruolo di psichiatra gli aveva dato accesso al genere di individuo che gli serviva. Esperto manipolatore, aveva manovrato quegli uomini come uno scaltro burattinaio, tirando e allentando fili, fino a portarli dove voleva. Un genio dell’orrore, impeccabile fin nei minimi dettagli, capace di sottomettere la rabbia cieca di quelle bestie e puntarla come un’arma di precisione, convincendoli a porre fine alla loro stessa vita, ordinando una profanazione puramente provocatoria e manipolando il suo stesso padre. Che arroganza.

Chissà da quando conosceva l’esistenza dell’itxusuria? L’aveva trovato per caso mentre scavava? Oppure l’aveva cercato con il sospetto che dovesse per forza essercene uno in una casa così antica? In ogni caso, era stato un colpo da maestro, l’ennesimo da sommare alla sua lista personale di magnifici orrori. Ma aveva commesso un errore, e stranamente era stato tradito dalla minuscola porzione umana che ancora restava dentro di lui. Era probabile che fosse stato un guasto accidentale a portarlo nell’officina in cui lavorava Jasón Medina, e forse anche l’incontro con Johana era stato un semplice caso. Era sicura che sin dall’inizio avesse scartato Jasón Medina perché è impossibile esercitare un controllo qualsiasi su un individuo come lui. I maniaci sessuali ci ricascano sempre, nonostante le condanne e le terapie: non si riabilitano mai perché il desiderio di soddisfare i propri bisogni è più forte di loro, a prescindere dalle conseguenze.

Berasategui non poteva non saperlo. L’esperto era lui, eppure la voglia di possedere Johana l’aveva sopraffatto. Quella ragazzina pura e innocente, la sua carne morbida e ambrata aveva suscitato in lui emozioni nuove, mai conosciute prima. Un dono di sensazioni affiorate da chissà dove con l’eccitazione tipica dell’innamoramento. Johana era diventata la sua ossessione e questa scoperta era stata così irresistibile da fargli commettere l’unico errore che poteva permettersi una mente come la sua: cedere alla voracità, modificando il suo schema di comportamento e lasciando in bella vista il pezzo chiave in cui spera ogni detective. La nota stonata. Siamo schiavi delle nostre abitudini.

Un manipolatore magistrale, sì, i cui capricci di divinità cannibale impallidivano dinnanzi a Rosario. Se ne era resa conto guardando le immagini del video insieme a Sarasola. Il Tarttalo camminava volontariamente al suo fianco, e poteva persino essere un maestro della manipolazione con delle bestie furiose, ma se credeva anche solo per un istante di poter dominare Rosario, si sbagliava di grosso. Lei aveva un obiettivo preciso sin dal giorno in cui le sue due figlie identiche erano venute al mondo, e per più di trent’anni nessuno era riuscito a farle cambiare idea.