20
Erano le otto di sera quando parcheggiò di fronte alla casa del viceispettore Etxaide. Gli fece uno squillo a vuoto mentre notava quanto fosse animata la strada in confronto a Elizondo, dove a quell’ora al massimo si incontravano gli ultimi ritardatari che correvano a casa.
Le mancava Pamplona, le luci, la gente, la sua casa nel quartiere vecchio, ma James aveva tutta l’aria di stare benissimo nel Baztán e ancora di più da quando avevano deciso di trasferirsi a Juanitaenea. Sapeva che lui adorava Elizondo e quella casa, e che ci si sentiva sempre più a suo agio, ma non era del tutto certa che potesse mai provare la libertà che offriva la vita a Pamplona e si chiedeva se non fosse stata una decisione un po’ affrettata.
Appena vide uscire Jonan dal portone, si spostò sul sedile accanto al guidatore. Lei aveva parecchie cose a cui pensare, e a Jonan piaceva guidare.
«Ad Aínsa, allora?» chiese lanciando il pesante giaccone sul sedile posteriore e accendendo il motore.
«Sì, ma prima dobbiamo fermarci al distributore di benzina che c’è all’uscita da Pamplona. Ho preso appuntamento lì con il giudice Markina, che ha voluto venire con noi a tutti i costi per assicurarsi che fossero rispettate le procedure del caso».
Jonan non commentò, ma ad Amaia non sfuggì l’espressione di stupore che cercò di nascondere con la solita discrezione. Rimase in silenzio finché non arrivarono al luogo dell’appuntamento, parcheggiò e smontarono dall’auto vedendo un’altra macchina lampeggiare con i fari.
Markina scese e si diresse verso di loro; in jeans e maglione blu, non dimostrava neanche trent’anni, e Amaia si accorse che Jonan la stava osservando.
«Buonasera, ispettrice Salazar», la salutò il giudice, porgendole la mano.
Lei gliela strinse, offrendogli solo la punta della dita intirizzite senza guardarlo negli occhi.
«Vostro onore, le presento il mio aiutante, il viceispettore Etxaide».
Il giudice lo salutò esattamente nello stesso modo.
«Possiamo andare con la mia macchina, se preferite».
Amaia vide che Jonan guardava con un certo apprezzamento la BMW del giudice, mentre lei scrollava la testa.
«Uso sempre la mia macchina, nel caso si verificasse un’emergenza», spiegò. «Non posso correre il rischio di dipendere da qualcun altro».
«Capisco», riconobbe il giudice, «ma se il viceispettore porta la sua macchina, lei può venire con me».
Amaia guardò Jonan e di nuovo Markina, sconcertata.
«Il fatto è che… il viceispettore e io abbiamo del lavoro in sospeso e approfitteremo del viaggio per discuterne, sa com’è…»
Il giudice la guardò negli occhi e le fece capire che non bastava una scusa così debole per farlo arrendere.
«Vorrei che lungo la strada verso Aínsa mi aggiornasse sullo stato delle indagini. Se, come lei crede, i risultati si riveleranno positivi, questo caso verrà aperto ufficialmente, e io devo conoscere tutti i dettagli».
Amaia annuì, abbassando lo sguardo.
«Va bene», tentennò, infastidita, «Jonan, facci strada».
Salì sulla macchina del giudice e si sentì a disagio mentre aspettava che si allacciasse la cintura di sicurezza. Ritrovarsi in quello spazio così ristretto insieme a lui la imbarazzava fin quasi a sfiorare il ridicolo. Cercò di nascondere il suo impaccio controllando i messaggi sul telefonino, arrivò persino a rileggerne alcuni, decisa a dimostrarsi indifferente alla sua vicinanza, al modo in cui le sue mani stringevano il volante, al movimento deciso con cui cambiava marcia o agli sguardi brevi e intensi che le rivolgeva, come se fosse la prima volta che la vedeva, mentre tamburellava ritmicamente sul volante con l’indice, a tempo di musica. Si stava godendo il viaggio, era evidente dal modo in cui teneva appoggiata la schiena e dal lieve sorriso che gli si disegnava sulle labbra. Guidò in silenzio per un’ora. All’inizio, era stata quasi felice di non essere costretta a parlare, ma il silenzio prolungato tra di loro stabiliva un livello di intimità che le metteva paura.
Dopo averci pensato, si decise a dire: «Ma non dovevamo parlare del caso?»
Lui la fissò per un secondo prima di tornare a rivolgere lo sguardo alla strada.
«Ho mentito», ammise, «volevo semplicemente rimanere solo con lei».
«Ma…» protestò Amaia, sconcertata.
«Non deve parlare se non ne ha voglia, mi lasci solo godere della sua compagnia».
Rimasero in silenzio tutto il resto del viaggio, mentre lui guidava con la sua elegante indolenza e le rivolgeva quegli sguardi abbastanza brevi per non intimidirla, ma abbastanza intensi per farlo. Nel frattempo, la rabbia di Amaia cresceva sempre più, costringendola a riepilogare mentalmente tutti i passi del caso, mentre si sforzava di intravedere qualcosa al di là dei bordi della carreggiata nel buio spesso della notte. Le strade di Aínsa sembravano molto frequentate, forse per la vicinanza del fine settimana, e nonostante i due gradi sotto zero, appena oltre il ponte videro gruppi di persone di fronte ai bar e qualche negozio ancora aperto per i turisti. Jonan affrontò la salita ripida che portava al quartiere medievale di Aínsa. Il giudice lo seguì, mentre guardava stupito le case, che sembravano sfidare il vuoto, quasi sospese a mezz’aria.
«È la prima volta che vengo da queste parti, e devo ammettere che è davvero sorprendente».
«Allora aspetti di arrivare in cima», ribatté Amaia.
Aínsa era una specie di tunnel temporale, e sulla piazza del paese, a dispetto delle auto parcheggiate e delle luci dei ristoranti, si sperimentava un viaggio nel passato che toglieva quasi il fiato. Markina non fece eccezione: seguì Jonan fino al punto in cui lasciarono la macchina, senza smettere di sorridere.
«È davvero straordinario», esclamò.
Amaia lo guardò divertita. Ricordava le sue stesse sensazioni la prima volta che era stata lì.
Smontando dall’auto, si accorsero che oltre alla bassa temperatura propria dei 580 metri di altitudine, l’umidità dei fiumi Cinca e Ara che lì confluivano aveva contribuito a coprire il selciato della piazza con uno strato di brina che brillava come madreperla sotto la romantica luce dei lampioni.
Jonan si avvicinò, agitando le braccia per riscaldarsi.
«E noi che dicevamo che a Elizondo faceva freddo…» commentò con un sorriso.
Amaia si abbottonò il cappotto e prese un cappello di lana dalla tasca.
Invece Markina non sembrava far caso alla bassa temperatura. Uscì dall’auto e si guardò attorno estasiato senza neppure indossare il cappotto.
«Questo posto è incredibile…»
Jonan prese dal bagagliaio il contenitore con i campioni e insieme ad Amaia si diresse verso il muraglione della fortezza, dove si trovava il Centro di Interpretazione della Natura e il Laboratorio di Studi Plantigradi dei Pirenei. Il giudice accelerò il passo raggiungendoli quasi all’ingresso, e Amaia notò la sua sorpresa quando giunsero alla porticina del laboratorio dopo aver percorso in compagnia del custode le sale immense in cui gli uccelli feriti trascorrevano la convalescenza. Ad accoglierli c’era il dottor González, che abbracciò sorridente Jonan e tese la mano ad Amaia. La moglie, a qualche passo di distanza, salutò con un cenno educato.
«Buonasera, ispettrice, mi fa piacere rivederla».
Amaia sorrise riconoscendo la sua solita riservatezza.
«Dottori, vorrei presentarvi il giudice Markina».
Il dottor González gli tese la mano, mentre la dottoressa Takchenko si avvicinava inarcando un sopracciglio e senza smettere di fissare Amaia.
«Spero che la mia presenza non vi disturbi», disse Markina a mo’ di saluto. «Il risultato di queste analisi potrebbe aprire un caso molto importante ed è necessario prendere tutte le misure possibili per garantire la massima sorveglianza dei campioni».
La dottoressa gli tese la mano mentre lo osservava da vicino, quindi si girò dimostrando il suo solito zelo lavorativo.
«Su, su, forza con questi campioni».
Gli altri la seguirono lungo le tre sale di cui era composto il laboratorio. Verso il fondo, la dottoressa andò a infilarsi i guanti e fece segno a Jonan di versare il contenuto della valigetta sul bancone.
«Mi faccia vedere», disse, chinandosi per prendere i campioni. «Bene, saliva…» commentò prendendo il contenitore con il campione.
«Bisogna procedere alle digestione delle proteine», disse rivolgendosi al marito. «Ci vorrà tutta la notte, poi aggiungeremo fenol-cloroformio per estrarre il Dna, precipitare, seccare e precipitare in acqua. Domani mattina il campione sarà pronto per eseguire il test. Il termociclatore PCR impiega fra le tre e le otto ore, più altre due con il gel di agarosio per l’elettroforesi che ci consente di vedere il risultato. Avremo finito per mezzogiorno».
Amaia sbuffò.
«Le sembra troppo? Il capello ci porterà via più tempo», la avvertì la dottoressa. «Le possibilità di ottenere Dna dalla saliva sono del 99 per cento, mentre con il capello si riducono a un 66 per cento», spiegò prendendo la treccia di María Abásolo, «per quanto questo sia un ottimo campione, in effetti».
Amaia ebbe un sussulto nel rivedere le punte biancastre di quei capelli strappati alla radice.
«E questi sono i campioni di osso», proseguì la dottoressa. «Oddio! Quanti mi ha detto che sono?»
«Ce ne sono dodici diversi».
«Allora va bene, domani per mezzogiorno. Mi metto subito al lavoro. Dottore?» disse rivolgendosi al marito, «mi vuole aiutare?»
«Ma certo», rispose sollecito lui.
«Voi mettetevi comodi, potete lasciare i cappotti nell’office e… prego, ci sono degli sgabelli sparsi per il laboratorio, prendeteli pure».
Amaia guardò l’ora e si rivolse all’ispettore Etxaide.
«Sono le dieci passate: tu vai a cena, dopo vado io».
«Qualcuno si unisce?» chiese Jonan.
«Noi abbiamo già cenato», rispose il dottor González. «Quando tornerete voi, ci andremo a prendere un caffè».
«Se per lei va bene», disse il giudice guardando Amaia, «vengo io con lei».
Lei annuì e i due uomini si incamminarono verso l’uscita.
Amaia si sedette su uno sgabello e per la successiva mezz’ora osservò i movimenti dei due dottori, che quasi non si scambiavano una parola tale era la concentrazione sulle varie fasi della procedura.
«Immagino che non possiate dirmi cosa state cercando, giusto?» azzardò la dottoressa.
«Non ho nessun problema a dirglielo. Cerchiamo di stabilire la relazione tra questi campioni e quelli ossei che ha già esaminato la Guardia Civil. Se c’è corrispondenza, avremo trovato una serie di crimini compiuti nel corso del tempo in tutto il nord dello Stato. Inutile precisare che questa informazione è strettamente riservata».
Annuirono entrambi.
«Ma certo, figurarsi. C’entrano per caso le ossa trovate nella grotta del Baztán?»
«Esatto, proprio loro».
«All’epoca ci hanno mandato le foto dei resti, e dal modo in cui erano disposti abbiamo scartato subito il coinvolgimento di predatori: nessun animale ammucchierebbe mai le ossa delle sue prede in quella maniera. Sembravano come… sistemate apposta per ottenere un effetto».
«Sono perfettamente d’accordo», confermò Amaia, con aria pensierosa.
Rimasero qualche minuto in silenzio, concentrati sul loro lavoro, ripassando più volte la lista di passi della procedura, e alla fine diedero per conclusa quella fase.
«Adesso non resta che aspettare», annunciò la dottoressa.
Il marito si tolse i guanti e li gettò in un contenitore, continuando a fissare Amaia con un’espressione che rivelava l’intensa attività della sua mente e che l’ispettrice conosceva molto bene.
«Ci ho pensato spesso, sa? La dottoressa e io ne abbiamo parlato, e siamo della stessa opinione: è molto triste quello che sta accadendo nella sua valle».
«Nella mia valle?» ripeté sorpresa Amaia, cercando di far finta di niente.
«Sì, lo sa a cosa mi riferisco. Lei è nata lì, c’è sempre un vincolo di appartenenza. È uno dei posti più belli che conosca, uno di quei posti in cui si può sentire la comunione tra la natura e l’essere umano, un posto dove incontrare motivi validi per ritrovare la fede». Dicendo questa frase, incrociò lo sguardo di Amaia, che capì all’istante a cosa si riferisse e annuì. «… Eppure, o forse proprio per questo, sembra che qualcosa di orrendo trovi rifugio lì, qualcosa di sudicio e maligno».
Amaia lo ascoltava senza perdersi neanche un dettaglio.
«Esistono posti così», aggiunse Takchenko, «quasi specchi o porte tra due mondi, o forse amplificatori di energia: sembra che l’universo debba compensare tanta perfezione. Conosco un paio di posti del genere, persino qualche città. Gerusalemme è un buon esempio di quello che intendo. Potrebbe anche darsi che qualcosa abbia scompensato gli equilibri della sua valle e adesso vi capitino troppe cose, orribili ma anche meravigliose, non crede? Non sembra una coincidenza».
Amaia soppesò le sue parole. No, lei non credeva nelle coincidenze. I crimini commessi contro le bambine sulle rive del fiume Baztán possedevano il grado di orrore e sacrilegio di una profanazione. Pensò a quanto era accaduto di recente ad Arizkun e alla storia passata della valle, alla fatica che i primi colonizzatori dovevano aver fatto per stabilirsi in quel luogo, alla durezza della vita, alla lotta per vincere le malattie, le piaghe, ai raccolti andati distrutti, al clima ostile, e in più alla stregoneria, e all’Inquisizione che processava centinaia di timorosi abitanti che si accusavano a vicenda in cambio di un atto di pietà. E pensò anche a quell’altro Salazar, l’inquisitore che per un anno intero aveva viaggiato in lungo e in largo per il Baztán, mescolandosi alla popolazione per scoprire se ci fosse o no qualcosa di demoniaco in quella valle. Un inquisitore che de motu proprio aveva deciso di risolvere il mistero di quel luogo e aveva ottenuto, senza pressioni né torture, più di mille confessioni spontanee e altre tremila denunce tra compaesani per pratiche malefiche. L’inquisitore Salazar era un moderno detective, un uomo brillante e con la mente così aperta che, nonostante tutto il materiale raccolto, aveva fatto ritorno a Logroño e spiegato ai membri del Sant’Uffizio di non aver trovato prove di stregoneria nel Baztán, perché quanto accadeva nella valle era di natura differente. Il perspicace inquisitore Salazar si era reso conto, e il dottore aveva ragione, che il Baztán si prestava al prodigio, nel bene come nel male.
Forse era davvero uno di quei luoghi che l’universo non può lasciare in pace.
Jonan tornò mezz’ora dopo, soddisfatto e con un po’ più di colore nelle guance.
«Ho scoperto che il signor giudice è un vero e proprio gourmet: senza uscire dalla piazza, ha scovato un ristorante buonissimo e ha insistito per pagare il conto. La aspetta lì. Uscendo dalle mura, è il secondo portone sulla destra».
Amaia prese il cappotto e uscì nel freddo di Aínsa. Il vento del nord le sferzò il viso appena mise piede sul piazzale che si apriva di fronte alla fortezza, costringendola ad allungare le maniche del maglione e a pentirsi di aver dimenticato i guanti. Notò che il numero di macchine era aumentato, sicuramente per via dei numerosi bar aperti sulla piazza. Individuò il ristorante e passò in mezzo alle macchine parcheggiate, maledicendo le suole lisce dei suoi stivali, che scivolavano sul selciato ghiacciato. Il locale aveva un piccolo bancone piuttosto affollato, da cui si vedeva una saletta molto accogliente, con un camino al centro. Il giudice Markina le fece segno da un tavolino lì accanto.
«Ho pensato che questo posto le sarebbe piaciuto», disse, quando lei lo raggiunse. «È piacevole stare seduti vicino al fuoco».
Amaia non rispose, ma riconobbe che il giudice aveva ragione: la presenza del camino e gli aromi della sala da pranzo le misero appetito all’improvviso. Scelse un’entrecôte con contorno di funghi, e vide con stupore che lui faceva altrettanto.
«Ero convinta che avesse cenato con il viceispettore Etxaide».
«Viste le poche opportunità che mi concede di cenare insieme, non penserà che rinunci a questa, vero? Per quanto non è esattamente come avrei voluto… Gradisce del vino?» chiese, avvicinando una bottiglia di vino eccellente al suo bicchiere.
«Temo di no: in effetti sarei in servizio».
«Giusto», la assecondò lui.
Amaia mangiò in fretta e apprezzò il silenzio del giudice, che per tutta la cena non disse quasi una parola, anche se spesso lo sorprese a guardarla con quell’aria serena e stranamente triste, nonostante il lieve sorriso che gli si disegnava sulle labbra.
Quando uscirono le parve che il freddo fosse più intenso, forse per contrasto con il calore del fuoco. Si calò il berretto sugli occhi, si strinse nel cappotto e allungò di nuovo le maniche del maglione.
«Non ha portato i guanti?» le chiese Markina.
«No, me li sono scordati».
«Prenda i miei, le andranno grandi, ma almeno…»
Amaia trasse un profondo sospiro e si girò verso di lui, perdendo la pazienza.
«Adesso la deve smettere», gli ordinò in tono fermo.
«Smettere di fare cosa?» rispose lui con aria confusa.
«Qualunque cosa stia facendo. Tutti quegli sguardi, aspettarmi per cenare insieme, prendersi cura di me, smetta di farlo».
Lui fece un passo avanti e le si mise di fronte. Per due secondi guardò verso la piazza, per poi puntarle di nuovo gli occhi addosso. Ogni traccia di sorriso si era dileguata dal suo volto.
«Non può chiedermi una cosa simile. O meglio, può chiedermelo, certo, ma io non posso farlo. Non posso negare quello che provo e non intendo farlo perché in questo non c’è niente di male. Non la guarderò più, non mi prenderò più cura di lei se le dà fastidio, ma questo non cambia quello che sento».
Amaia chiuse gli occhi un istante, cercando di trovare argomenti con cui ribattere a quelle parole. Ne trovò uno.
«Lo sa che sono sposata?» disse, e mentre lo diceva si accorse che era un argomento debole.
«Lo so», rispose pazientemente lui.
«E questo non significa niente per lei?»
Lui si chinò su Amaia, le prese una mano e le diede i suoi guanti.
«Significa lo stesso che significa per lei».
Takchenko aveva suddiviso i campioni di osso messi a disposizione dalla Guardia Civil nelle provette Eppendorf, simili a palline vuote di plastica ammucchiate all’interno del termociclatore.
«Bene, almeno in questo ci siamo quasi. Un’altra ora qui dentro e poi altre due di riposo».
«Credevo che la Guardia Civil avesse già esaminato il Dna delle ossa», obiettò il giudice.
«È vero, ci hanno mandato il rapporto, ma visto che i campioni sono sufficienti, abbiamo preferito ripetere l’intera procedura per sicurezza».
Markina annuì e raggiunse dall’altra parte del laboratorio Jonan e il dottor González a bere il caffè.
«Un uomo molto bello». Commentò Takchenko quando si fu allontanato.
Amaia la guardò sorpresa.
«Bellissimo», ripeté la dottoressa.
Amaia si girò verso il giudice, poi guardò Takchenko e annuì.
«Una bella tentazione, vero, ispettrice? O mi sbaglio?» aggiunse.
Amaia si mise subito sulla difensiva.
«Perché dice così?»
«Si vede benissimo che la sta mettendo in tentazione».
Amaia aprì la bocca per ribattere, ma per la seconda volta quella sera si ritrovò senza argomenti. Preoccupata, si chiese se qualcosa nel suo atteggiamento avesse lasciato intravedere la sua confusione.
La dottoressa la guardò con simpatia e sorrise.
«Oddio, non è poi così grave, ispettrice! Non si torturi, a tutti è capitato di cadere in tentazione prima o poi!»
Amaia fece un’aria impacciata.
«Se poi alla tentazione i jeans stanno così bene, è normale avere qualche dubbio», aggiunse la dottoressa con un pizzico di malizia.
«È proprio questo che mi sconvolge», ammise Amaia, «il dubbio: il semplice fatto di avere dei dubbi mi fa riconsiderare le cose e mi pone delle domande».
«Ma i dubbi sono normali».
«Io ero convinta del contrario. Amo mio marito. Sono felice con lui. Non voglio stare con nessun altro uomo».
«Non faccia la bambina, ispettrice», le disse Takchenko interrompendo un istante il lavoro e guardandola con un sorriso furbo. «Anch’io amo mio marito, ma a quel giudice una bella ripassata gliela darei volentieri, forse anche due!»
Amaia sgranò gli occhi, sconcertata dall’uscita di quella donna solitamente così discreta.
«Dottoressa, la prego!» finse di scandalizzarsi. «Una ripassata! Si vede che a furia di stare con gli orsi è diventata un po’ selvaggia, eh? Una ripassata… secondo me come minimo ci vorrebbero un paio di giorni senza uscire dal letto!»
Scoppiarono a ridere insieme, facendo girare gli uomini in fondo al laboratorio.
«Ah, vedo che ci aveva pensato anche lei!» le sussurrò la dottoressa guardando verso di loro.
Amaia scese dallo sgabello e si avvicinò al bancone che la separava dalla donna.
«Forse sì, ma una cosa è pensarlo e un’altra è metterlo in pratica. E non è quello che voglio».
«Sicura?»
«Assolutamente, ma lui non mi rende le cose facili».
«Mitjail Kotch», sentenziò la dottoressa.
«Chi è?»
«Eravamo compagni di corso a Medicina e dopo abbiamo lavorato insieme nello stesso istituto per tre anni. Era uno di quegli uomini convinti che “chi la dura la vince”. Ogni giorno in università, e dopo, ogni giorno che ha lavorato con me, ci ha provato, mi ha invitato a uscire, mi ha portato dei fiori o mi ha rivolto uno sguardo un po’ sopra le righe».
«E?»
«Neanche Mitjail Kotch mi ha reso le cose facili, però non mi è mai venuto in mente di dargli una bella ripassata».
«Allora, secondo lei, il semplice fatto di averlo pensato è indice che c’è qualcosa che non va? Il fatto che lei stessa ammetta che le piacerebbe dargli una ripassata è indice che vorrebbe essere infedele al dottore?» la incalzò indicando verso il gruppo degli uomini.
«Oddio, mi sembra una russa, sempre così categorica in tutto! La tentazione è questo, ispettrice, non siamo né ciechi né invisibili».
Amaia la guardò incuriosita.
«Quando uno decide di amare una persona al punto di rinunciare a chiunque altro, non diventa cieco e neppure invisibile, continua a vedere e a essere visto. Non c’è nessun merito a essere fedeli quando quello che vediamo non ci tenta o quando nessuno ci guarda. Il vero banco di prova è quando si presenta una persona di cui ci potremmo innamorare se non avessimo già un compagno, una persona che fa per noi, che ci piace e che ci attira. Una persona che sarebbe perfetta se non avessimo già scelto un’altra persona perfetta. Questa è la fedeltà, cara ispettrice. Non si preoccupi, se la sta cavando alla grande».
L’alba li sorprese lenta e uggiosa. Ripeterono il giro di caffè e il dottor González scovò da qualche parte un mazzo di carte con cui i tre uomini giocarono una partita silenziosa. La dottoressa preferì dedicarsi a leggere uno di quei grossi manuali tecnici che sembravano entusiasmarla tanto, e Amaia, seduta accanto a lei, ripassò mentalmente il suo caso, rivolgendo lunghi sguardi al termociclatore, che ronzava sul bancone d’acciaio come un grosso gatto maleducato. L’istinto le diceva che di sicuro in quei campioni si celava l’essenza stessa della vita rubata dall’accoppiata di mostri più diabolici che avesse mai incontrato. La mente fredda e potente di un induttore e l’obbedienza della bestialità, ciecamente asservita a lui. Il PCR terminò di ronzare ed emise un lungo fischio che fece sobbalzare Amaia, quasi nello stesso istante in cui un messaggio arrivava sul cellulare di Jonan e una telefonata sul suo. Si guardarono impensieriti, prima di rispondere all’ispettore Iriarte.
«Capo, c’è stata una nuova aggressione nella chiesa di Arizkun».
Amaia scattò in piedi e si diresse in fondo al laboratorio.
«Mi spieghi tutto per bene», sussurrò.
«Ecco, hanno lanciato un carrello elevatore contro la facciata, aprendo un varco e…» esitò.
«Hanno lasciato qualcosa?»
«Sì… un altro braccino… Molto piccolo, un po’ diverso, stavolta non è bruciato…»
Amaia percepì il coinvolgimento di Iriarte: aveva usato la parola «braccino». Lui aveva dei bambini piccoli, e di sicuro le loro braccia non dovevano essere molto più grandi.
«Va bene, ispettore, partite pure con la procedura, chiami San Martín e non toccate niente fino al mio arrivo. Ci metto un paio d’ore o poco più. Faccia aspettare tutti fuori, chiuda il perimetro e mi aspetti, parto subito. La chiamo dall’auto tra un minuto».
Prese il cappotto e si diresse verso l’uscita, dove Jonan la stava già aspettando.
«Devo andare via subito», disse agli altri. «Jonan, tu non vieni, ho bisogno che resti qui, è molto importante. Dottori, grazie di tutto. Vostro onore, la chiamo in mattinata».
Markina prese il cappotto e la seguì in silenzio, mentre attraversavano la zona con le voliere enormi e poi percorrevano la piazza d’armi della fortezza.
Amaia azionò il comando a distanza dell’auto e lui la trattenne accanto allo sportello, prendendola per un braccio.
«Amaia…»
Lei trasse un sospiro profondo e lasciò uscire l’aria molto lentamente.
«Ispettrice Salazar», lo corresse, armandosi di pazienza.
«Va bene, come vuole, ispettrice Salazar», le concesse controvoglia. Si chinò su di lei, la sfiorò con un bacio sulla guancia e sussurrò: «Guidi con prudenza, ispettrice, ci tengo molto a lei».
Amaia fece qualche passo indietro scrollando la testa, con il cuore che le batteva forte.
«Non deve fare così, non deve», gli ricordò montando in macchina e accendendo il motore.