21

Guidò cercando di trattenere l’impulso di accelerare e concentrando la poca attenzione che riusciva a mantenere dopo aver parlato col giudice nel tentativo di non uscire di strada. L’asfalto era rivestito da una pellicola bianca di brina, che in certi punti si trasformava in ghiaccio nero e rendeva la guida di notte ancora più pesante e pericolosa. Gli abitanti del comune di Sobrarbe lo sapevano bene ed evitavano di prendere la macchina col buio; anche le lezioni a scuola cominciavano a metà mattina per evitare il ghiaccio traditore sulle stradine di montagna. Quando arrivò allo svincolo per l’autostrada, accostò e chiamò Iriarte.

«Rapporto», gli disse, quando rispose.

«Verso le tre del mattino, dei vicini hanno sentito lo schianto della Bobcat contro il muro della chiesa, si sono affacciati ma non hanno visto nessuno. Quando siamo arrivati, abbiamo trovato il muro spaccato e dentro, sopra l’altare…»

«I resti ossei», tagliò corto Amaia.

«Sì, i resti ossei».

«Devono aver fatto una bella fatica a buttare giù il muro della chiesa».

«Non direi: il carrello è stato lanciato esattamente nel punto in cui un tempo c’era la porta degli agotes, l’ingresso che loro dovevano utilizzare e che era stato murato. Lì la parete è un semplice tramezzo di mattoni e le unghie del carrello l’hanno perforato da parte a parte».

«E la pattuglia che doveva sorvegliare la chiesa?»

«Un quarto d’ora prima avevano ricevuto dal 112 un allarme d’incendio nel palazzo di Ursua. Ovviamente la pattuglia della chiesa era la più vicina, ed è subito stata spedita sul posto».

«Un incendio?»

«Roba da poco, solo un po’ di benzina sulla porta d’ingresso del palazzo, ma era di legno e ha preso fuoco come paglia. Si figuri che la pattuglia ha spento le fiamme con l’estintore dell’auto».

«Anche il palazzo di Ursua è legato alla storia degli agotes».

«Sì. Secondo alcuni, è stato proprio il signore di Ursua a ridurre gli agotes in schiavitù e a usarli come mano d’opera».

 

Riagganciò e cercò sotto il sedile la sirena portatile che usava molto di rado, abbassò il finestrino e l’attaccò sul tetto dell’auto. Imboccata l’autostrada, azionò la sirena e accelerò, ritrovando subito un gusto della velocità che non provava sin dai tempi dell’accademia. Il tachimetro segnava più di 180 all’ora e guidò a questo ritmo per un bel tratto, superando i pochi veicoli che giravano a quell’ora. Pensò a Iriarte, uno dei poliziotti più corretti che conoscesse. Era impeccabile nell’aspetto e meticoloso nei rapporti, anche se forse a volte eccedeva un po’ nello spirito di corpo. Sempre pacato e mai sopra le righe. Il suo forte legame con Elizondo gli dava equilibrio, ma era anche il suo punto debole. Una volta, di fronte al corpo senza vita di una ragazzina del paese, aveva perso il controllo per un istante, e adesso quel suo modo di esprimersi, il «braccino»… All’improvviso si sorprese a pensare a suo figlio. Guardò di nuovo il contachilometri, che adesso era salito quasi a 190, e senza pensarci tolse il piede dall’acceleratore. «Essere genitori non è facile», le aveva detto una volta Iriarte, e non è che non fosse facile: era una dannata responsabilità! Fino a che punto essere madre incideva sulle sue azioni? Aveva sempre fatto attenzione, accidenti, era un’agente di polizia, no? Certo che faceva attenzione, ma la responsabilità verso Ibai, la responsabilità di non lasciarlo solo, costretto a vivere un’infanzia senza madre, avrebbe limitato la sua vita, il suo lavoro, persino la forza con cui avrebbe pigiato sull’acceleratore? Un altro pensiero si unì al primo, portando con sé l’immagine degli ossicini che qualcuno aveva lasciato disposti sull’altare della chiesa, ossa della sua famiglia, ossa con la stessa essenza delle sue, di quelle del figlio, ossa che erano la sua radice e la sua eredità.

«Non temere, l’amá farà attenzione», sussurrò, mentre accelerava e la macchina sfrecciava sull’autostrada verso Pamplona.

 

Alle sei del mattino, l’alba non ne voleva ancora sapere di sorgere nel cielo di Arizkun. La chiesa era illuminata dall’interno, e fuori, due autopattuglie e mezza dozzina di automobili private circondavano il suo perimetro, protetto da un muro di mezzo metro che impediva ai veicoli di accostarsi alla porta d’ingresso.

Il carrello elettrico incastrato nella parete laterale, un piccolo Bobcat, aveva aperto un varco irregolare largo all’incirca un metro per un metro. I denti della pala erano conficcati nella pietra e ricoperti di macerie scure. Amaia fece il giro completo della chiesa, ispezionando la staccionata del giardino sul retro e il relativo vialetto, prima di entrare.

Iriarte e Zabalza la seguivano con le torce.

«Abbiamo già controllato tutto il perimetro», le fece notare Zabalza.

«Allora vorrà dire che lo controlleremo un’altra volta», lo gelò lei.

Il dottor San Martín li aspettava all’interno.

«Buongiorno, Salazar», la salutò guardando prima lei, poi il fagotto coperto da un telo metallico sopra l’altare. Quindi anticipò la richiesta dell’ispettrice e scoprì le ossa.

Amaia si accorse che sia Iriarte sia San Martín non stavano guardando i resti ma lei, e fece di tutto per rimanere impassibile mentre osservava con attenzione.

«Hanno un aspetto diverso dalle altre, vero, dottore?»

«In effetti, queste non presentano le estremità bruciate e l’articolazione si distingue perfettamente, ma soprattutto sono diverse per via del colore: queste sono molto più bianche, e la ragione è che non sono rimaste a contatto con la terra, ma con l’interno di una bara, ben chiusa e in condizioni di umidità minima. Come può vedere, si sono conservate integre persino le falangi delle dita».

Amaia guardò per qualche altro secondo quelle ossa con cui forse aveva un legame di parentela e tornò a coprirle, forse con troppa cura, come se le volesse proteggere. Quindi si rivolse a San Martín per formulare la domanda che era in sospeso tra loro da quando aveva messo piede nella chiesa.

«Secondo lei…?»

«Non posso saperlo, ispettrice. Il massimo che posso dirle è che non provengono dallo stesso posto: basta vedere lo stato di conservazione. Adesso me le porto via e le analizzo di persona. Nel giro di ventiquattr’ore, forse anche meno, avremo una risposta».

Amaia annuì e si diresse nel punto in cui il carrello aveva sfondato il muro della chiesa. Dall’interno, i danni sembravano maggiori: attraverso la parete si vedevano le unghie metalliche del carrello che si affacciavano in mezzo alle macerie.

«È qui che si trovava anticamente la porta degli agotes?»

«Sì», rispose Zabalza alle sue spalle, «così ci ha detto il parroco».

«A proposito, dov’è?»

«Li abbiamo rimandati a casa, lui e il cappellano: erano piuttosto turbati».

«Ha fatto bene. Immagino che avrete già preso le impronte, giusto?» disse indicando il carrello.

«Sì».

«Dove l’hanno trovato?»

«In un magazzino di bibite qui accanto. Lo usano per spostare i bancali».

Guardò l’ora e raggiunse Iriarte, seguita da Zabalza.

«Ci vediamo in commissariato, così riepiloghiamo tutti i dati che abbiamo sulle profanazioni. Ah… convocate al più presto il ragazzino del blog, voglio parlare con lui».

«Adesso?» chiese impensierito Zabalza, lasciando affiorare la sua incredulità.

«Sì, adesso. Qualche problema, viceispettore?»

«L’abbiamo già interrogato e siamo giunti alla conclusione che non c’entrava niente».

«Alla luce dei nuovi episodi, ritengo necessario un nuovo interrogatorio. Sono sicura per più di una ragione che la persona o le persone responsabili siano legate alla valle, e sono propensa a immaginare che siano più di una. Non credo che un ragazzo possa aver fatto tutto questo da solo, sfondare il muro, disporre le ossa sull’altare: qualcuno deve averlo aiutato», spiegò Amaia dirigendosi verso l’ingresso.

«Può essere, ma quel ragazzino non c’entra niente».

Lei si fermò e rimase a fissarlo. Anche Iriarte si girò a guardarlo, leggermente in ansia.

«Ha qualche altra teoria, viceispettore?» gli chiese Amaia, scandendo le parole. «Come fa a esserne così sicuro?»

Quando l’uomo rispose, la sua voce tradiva la tensione.

«Lo so e basta».

«Zabalza», lo rimproverò Iriarte, «forse stai correndo un po’ troppo…»

«No», lo interruppe lei, «lasci che si spieghi: se ha un punto di vista diverso, desidero ascoltare la sua opinione. È a questo che serve una squadra, a osservare i fatti da prospettive differenti».

Zabalza si passò le mani sul viso con aria nervosa, poi le intrecciò e infine le seppellì nelle tasche del giaccone, come se non sapesse cosa farci.

«Quel ragazzino è una vittima, suo padre lo riempie di botte da quando è morta la madre. Il ragazzo è in gamba, prende bei voti a scuola ed è l’interesse per la storia e le origini del suo popolo a mantenerlo sano di mente in quella casa. Parli pure con lui, ma mi dia retta: sarà anche molto intelligente, ma ha un serio problema di autostima e nessuna fiducia in se stesso. Di sicuro, non quella che servirebbe a compiere un gesto del genere. È sottomesso al padre e soffre molto».

Amaia ci pensò su.

«Gli adolescenti sono capaci di una rabbia fuori dal comune. Il fatto di essere o mostrarsi sottomesso potrebbe alimentare una rabbia trattenuta che sfocia occasionalmente in gesti eclatanti di questo tipo. Del resto, se lei non si sentisse emotivamente coinvolto, riconoscerebbe subito la sua firma».

«Come?» sbottò incredulo, tirando fuori le mani dalle tasche e guardando ora Amaia ora Iriarte. «Cosa intende dire?»

«Intendo dire che secondo me lei si identifica con quel ragazzo e questo le fa perdere la giusta prospettiva».

Il suo viso si infiammò come se stesse bruciando e il labbro inferiore prese a tremargli.

«Come osa? Superstar della polizia del cazzo!» urlò.

«Stia attenta», la avvertì Iriarte.

«Non mi fa paura», ribatté lei, mettendosi di fronte al viceispettore. «Non mi fa paura, ma sarà meglio che osservi le norme minime di cortesia, come faccio io con lei, anche se lei è sleale, anche se è stato lei a fornire a Montes il rapporto del laboratorio che l’ha messo nei guai in cui si trova adesso, anche se lei è uno schifoso che mette a rischio la sua sicurezza e quella dei suoi colleghi parlando con civili estranei alle indagini, anche se lei non è capace di rispettare i limiti».

Gli occhi di Zabalza mandavano scintille e il suo viso era contratto dalla rabbia, ma continuò a sostenerle lo sguardo, sfidandola. Lei abbassò il tono di voce e proseguì.

«Se non è d’accordo con i miei argomenti, può esprimere i suoi, ma non si azzardi più a parlarmi in questo tono. Identificarsi con una vittima esprime solo il nostro lato umano, quello che in tanti sono convinti che ci manchi solo perché siamo poliziotti. E il lato umano ci aiuta spesso a ottenere informazioni che certi individui non ci darebbero mai volontariamente. Ma pur senza abbandonare l’umanità, un detective deve sempre distanziarsi dal caso per non rimanere coinvolto personalmente. E adesso torno a dirle che a mio avviso lei si identifica con la vittima. Mi dica la verità, è così?»

Il viceispettore Zabalza abbassò lo sguardo, ma rispose: «Secondo me non serve tirarlo fuori dal letto, sono le sei del mattino ed è un minorenne».

«Se aspetta ancora un po’, le toccherà tirarlo fuori da scuola, e non crede che sarebbe peggio?»

«Sarà ancora a casa: non va a scuola finché ha la faccia piena di lividi».

Amaia rimase due secondi in silenzio.

«D’accordo, alle nove in commissariato, la responsabilità è sua».

Zabalza biascicò qualcosa di incomprensibile e uscì dalla chiesa.

 

Erano solo dieci minuti che leggeva i rapporti sulle profanazioni e gli occhi già le bruciavano, come se fossero pieni di sabbia. Si rigirò sulla sedia e guardò fuori nel tentativo di riposare la vista. Cominciava a fare giorno, ma la pioggerellina sottile sferzata dal vento contro i vetri le permise di vedere ben poco. Le ore senza dormire sommate alla guida notturna cominciavano a presentare il conto. Non aveva sonno, ma gli occhi se ne andavano per conto loro. Guardò di nuovo lo schermo e aprì la sua casella di posta. Due nuove mail. La prima, un accorato messaggio del direttore della Santa María de las Nieves in cui anziché lamentarsi dell’irreparabile danno all’istituzione adesso era passato a piagnucolare sull’irreparabile danno alla paziente. Tornava a esprimere la sua teoria della cospirazione per compromettere la sua immagine, e la sua ipotesi si spingeva persino oltre, insinuando che il dottor Sarasola si era dimostrato un po’ troppo disponibile a trasferire Rosario. Ripeteva inoltre i suoi dubbi circa la possibilità che la paziente avesse potuto controllarsi senza terapia. La cestinò all’istante.

La seconda mail era inoltrata dalla posta di Jonan. La aprì incuriosita. «La signora aspetta la sua offerta».

La selezionò per cancellarla, ma all’ultimo la trascinò in una nuova cartella che nominò «Signora».

Iriarte entrò nella sala, spingendo goffamente la porta con una tazza di ceramica in ogni mano e porgendone una ad Amaia. Lei la guardò sorpresa e lesse la scritta: Zorionak, aita, Auguri, papà.

«Oh, come sono carine!» esclamò sorridendo.

«Sono le uniche che ho, ma almeno non sono di carta».

«La ringrazio, c’è una bella differenza», riconobbe, stringendola con tutt’e due le mani.

«Zabalza sta arrivando con il ragazzo e suo padre».

Lei annuì.

«Non è una brutta persona, intendo Zabalza: sono anni che lavoro con lui e me l’ha sempre dimostrato».

Lei lo guardava, ascoltandolo con interesse mentre sorseggiava il caffè.

«È vero che sta passando un momento difficile, credo per questioni private, e non voglio certo giustificarlo, e meno che mai per il tono offensivo di stamattina, però…»

«Ispettore Iriarte», lo interruppe lei. «È sicuro di non aver sbagliato mestiere? Nel giro di quarantotto ore, è la seconda volta che sostiene la causa di un collega. Sarebbe perfetto nel sindacato, non crede?»

«Non volevo irritarla, ispettrice».

«Non lo fa, stia tranquillo, ma lasci che ognuno combatta le sue battaglie. Il testa a testa tra Zabalza e me non è ancora terminato: forse qualcuno non riesce ad accettarlo, ma in questa squadra il maschio alfa è una donna».

Squillò il telefono e Iriarte si affrettò a rispondere.

«È Zabalza, è qui di sotto con il ragazzo e il padre».

«Dove li ha messi?»

«In un ufficio al primo piano».

«Gli dica di portarli in una sala interrogatori con un agente in divisa davanti alla porta. Non voglio che parlino con nessuno».

Iriarte riferì gli ordini e riagganciò.

«Andiamo?» disse un attimo dopo, posando la tazza sullo scrittoio.

«Ancora no», rispose lei, «prima vorrei prendermi un altro caffè».

Tre quarti d’ora dopo, Amaia entrava nella sala interrogatori evitando le occhiatacce di Zabalza, che aspettava fuori, visibilmente contrariato. Dentro, l’aria era impregnata di sudore e nervosismo. L’attesa e la presenza dell’agente armato avevano ottenuto l’effetto desiderato.

«Buongiorno, sono l’ispettrice Salazar della Omicidi della Policía Foral», si presentò mostrando il distintivo e sedendosi di fronte a loro.

«Senta», cominciò il padre, «mi pare un abuso che ci portiate qui così presto per poi farci aspettare quasi un’ora».

Amaia squadrò le sue cispe negli occhi e il rivolo di bava secca che dalla bocca gli arrivava fino all’orecchio sinistro.

«Stia zitto», tagliò corto. «Ho convocato suo figlio perché è l’indagato principale in un delitto molto grave», aggiunse fissando il ragazzo, che raddrizzò la schiena e guardò a sua volta il padre. «Aspettare un’ora è il minore dei vostri problemi, mi creda, perché se non collabora finirà per passare molto più tempo in posti ben peggiori di questo; e se proprio ci tiene a parlare di abusi, possiamo discuterne dopo, lei e io. Adesso voglio interrogare suo figlio: può rimanere in silenzio oppure chiamare un avvocato, ma non mi interrompa più».

Guardò il ragazzo: in effetti aveva un brutto livido sullo zigomo e un altro paio ormai quasi gialli sulla mascella. Stava seduto dritto e gli abiti gli cadevano addosso troppo larghi.

«Beñat, Beñat Zaldúa, giusto?»

Il ragazzo annuì e una ciocca di capelli gli finì sugli occhi. Amaia lo squadrò: era preoccupato, si mordeva il labbro inferiore e teneva le braccia incrociate sul petto in posizione di difesa; di tanto in tanto, si passava una mano nervosa sulla bocca, come se volesse pulirsela. Sì, era in atteggiamento di difesa, ma la verità gli pesava e i suoi gesti tradivano la necessità di soffocare con le mani le parole che premevano per uscire dalla bocca, per liberarsi da quel fardello. Voleva parlare, aveva paura, e lei aveva il dovere di risolvere entrambi i problemi.

«Beñat, anche se sei ancora minorenne, sei abbastanza grande per avere responsabilità civile. Chiederò al giudice di avere un occhio di riguardo nei tuoi confronti, vista la tua situazione», disse lanciando un’occhiata al padre. «Io voglio aiutarti, e posso farlo, ma prima tu devi essere sincero con me. Se non mi dici la verità o mi tieni nascosto qualcosa, ti lascerò al tuo destino, e ti garantisco che il tuo destino non è così favorevole». Lasciò che il ragazzo assimilasse le sue parole per qualche istante. «Vuoi farti aiutare, Beñat?»

Lui annuì con veemenza.

L’interrogatorio fu più che altro una deposizione compulsiva in cui il ragazzo spiegò che quell’uomo si era messo in contatto con lui attraverso il blog; all’inizio era stato sicuro di aver trovato una persona che la pensava come lui e difendeva le sue stesse teorie, ma dopo ogni nuova aggressione alla chiesa le cose gli erano sfuggite di mano, soprattutto quando aveva saputo che accanto all’altare erano state trovate delle ossa umane. Questo non c’entrava niente con le teorie che lui difendeva. Diede una descrizione dell’uomo, che aveva visto di persona soltanto nel corso delle profanazioni: si faceva chiamare «Cagot» e gli mancavano quasi tutte le dita della mano destra. Quando finì di parlare, sospirò così profondamente che Amaia non poté fare a meno di sorridere.

«Va molto meglio, vero?»

Amaia uscì dalla sala e si rivolse a Zabalza, che aspettava accanto alla porta.

«Dirami la descrizione di quel tizio senza dita».

Lui annuì, chinando la testa, mentre Iriarte li raggiunse e le disse: «Ha chiamato suo marito, dice di telefonargli subito perché è urgente».

Lei si preoccupò: era la prima volta che James le lasciava un messaggio in commissariato, e doveva essere davvero urgente per non poter aspettare che finisse l’interrogatorio e rimettesse la suoneria al telefono. Salì le scale a due a due e corse a chiudersi nella sala che usava come studio.

«James?»

«Amaia, Jonan mi ha detto che eri tornata a Elizondo».

«Sì, non ho avuto il tempo di chiamarti. Che succede?»

«Amaia, devi venire a casa subito».

«Si tratta di Ibai? Gli è successo qualcosa?»

«No, Amaia, Ibai sta bene, stiamo tutti bene, non ti preoccupare, però vieni subito».

«Oh, James, santo cielo, dimmi di che si tratta o mi farai venire un colpo!»

«Stamattina è venuto Manolo Azpiroz, l’architetto mio amico, e mentre finivo di preparare Ibai, gli ho dato le chiavi di Juanitaenea e lui ha cominciato a fare il sopralluogo. Dopo un po’ mi ha chiamato e mi ha detto che non ci conveniva cominciare così presto a seminare il giardino perché con la ristrutturazione e il passaggio dei materiali si sarebbe comunque rovinato tutto. Io gli ho risposto che il giardino non l’avevamo neanche toccato, ma lui mi ha detto che la terra era tutta smossa e rigirata in più punti attorno alla casa, come se ci avessimo piantato qualcosa. Amaia, adesso sono venuto a Juanitaenea, e devo dirti che l’architetto aveva ragione: ci sono delle buche, e c’è qualcosa dentro, c’è qualcosa qui…»

«Cos’è?»

«Mi sa che sono delle ossa».

 

Prese la valigetta con gli strumenti e scese le scale senza aspettare l’ascensore. In fondo al corridoio, al pianterreno, Iriarte e Zabalza parlavano a voce bassa, ma dalle loro espressioni intuì che stavano discutendo.

«Ispettore Iriarte, venga con me, per favore».

Iriarte impiegò un attimo a prendere il cappotto e uscì al suo fianco senza chiedere spiegazioni. Percorsero in macchina la breve distanza tra il commissariato e Juanitaenea, mentre un milione di rimproveri si affollavano nella testa di Amaia. Avrebbe dovuto capirlo prima. Nessuna tomba, nessun ossario. I bambini morti senza battesimo nel Baztán non venivano sepolti agli incroci e neanche appena fuori dal cimitero: avevano un posto ben preciso. Si seppellivano nell’itxusuria, il corridoio delle anime, lo spazio di terra che delimitava il tetto della casa in cui gocciolava la grondaia, definendo una linea tra l’interno e l’esterno della casa. Perché era stata così cieca? La sua famiglia viveva nel Baztán da sempre. Perché non aveva pensato che anche la sua, come tante altre famiglie della valle, potesse aver sepolto i suoi bambini in quello stesso punto?

James la aspettava su un lato del giardino con Ibai nel passeggino, e nella sua espressione insolitamente seria c’era un risentimento vicino all’offesa che la lasciò sconcertata. Il suo James, con la sua concezione limpida e placida della vita, si sentiva insultato quando l’orrore lo coglieva di sorpresa. Amaia baciò su una manina Ibai, che dormiva beato, e prese in disparte James.

«È… È… Accidenti, non so se più orribile o più sorprendente. Non so neanche se sono ossa umane, magari sono di animali…»

Lei lo guardò con tenerezza.

«Me ne occupo io, James, tu porta il bambino a casa e non dire niente a Ros e alla zia finché non ne sapremo di più». Gli diede un bacio e si girò verso Iriarte, che la aspettava sul vialetto d’ingresso con l’ombrello aperto.

Si diressero verso le porte della stalla e lasciarono la valigetta sulle scale della facciata. Indossò un paio di guanti e ne porse un altro a Iriarte. La pioggerellina lenta delle ultime ore aveva ammorbidito la terra, che si incollava alle suole lisce dei suoi stivali rallentandole il passo; ripensò agli scivoloni sul selciato di Aínsa e si convinse a buttarli via al più presto. Percorse il perimetro della casa, osservando i vistosi monticelli di terra smossa. Si fermò davanti al primo e indicò a Iriarte il profilo di un’impronta di stivale i cui bordi cominciavano a svanire per effetto della pioggia. Iriarte si chinò e coprì la terra smossa con l’ombrello per poter fotografare meglio le impronte, dopo aver posizionato la striscetta metrica. Si spostarono su un altro cumuletto di terra e videro che la superficie era aperta come se dall’interno un seme di dimensioni gigantesche si fosse schiuso, allargando le zolle. Fotografarono la zona e subito dopo Amaia si mise a smuovere mucchi umidi che le macchiarono i guanti con la terra scura del Baztán. Scavando con le dita, spinse la terra sui bordi e portò alla luce un cranio non più grande di una piccola mela. Pochi metri più in là, c’era un’altra buca riempita alla meglio in cui non trovarono niente, e nel punto preciso in cui l’angolo della grondaia lasciava la sua impronta a terra c’era la fossa scoperta a cui si riferiva James e da cui spuntavano in mezzo al fango degli ossicini scuri, che a prima vista sembravano radici. Si rialzò per permettere a Iriarte di scattare le foto, lanciò uno sguardo al retro della casa e vide che solo in quel tratto c’erano almeno nove buche, e altrettante sul lato opposto.

La zona era contrassegnata da una linea ben precisa. Il lento gocciolio durato più di duecento anni aveva disegnato una fessura nel terreno e il profanatore non aveva dovuto far altro che seguirla. Si cercò nelle tasche le chiavi che le aveva dato James, aprì il chiavistello della stalla e chiamò Iriarte, che entrò, scrollandosi la pioggia dai vestiti.

«Questa è la casa di sua nonna?»

«Sì, appartiene alla mia famiglia da generazioni».

Lui si guardò attorno.

«Ispettore, vorrei parlarle di quello che abbiamo trovato là fuori».

Iriarte annuì serio.

«Lei sa cos’è, giusto? Si tratta di un itxusuria, il cimitero familiare tradizionale del Baztán. Le creature sepolte qui sono membri della mia famiglia. È così che le madri li onoravano, lasciandoli nella loro casa come sentinelle che proteggevano il focolare domestico. Se chiamiamo San Martín, verrà qui con la sua squadra e disseppelliranno tutti i corpicini. Lei è del Baztán e secondo me ha già capito cosa voglio chiederle, giusto? Questo è il cimitero della mia famiglia e vorrei che rimanesse tale. Una scoperta del genere attirerebbe la stampa, i giornalisti, scatterebbero un milione di fotografie. Non voglio che la mia casa si trasformi in un circo mediatico. Anche perché sono quasi certa che il profanatore della chiesa di Arizkun – e non mi riferisco certo a quel povero ragazzo – abbia profanato anche queste tombe, e rendere pubblica la notizia potrebbe spaventarlo. Cosa mi risponde?»

«Che non permetterei a nessuno di mettere mano nel mio cimitero di famiglia».

Lei annuì commossa, incapace di dire altro. Se diresse verso la porta tornando a coprirsi la testa con il cappuccio.

«Adesso andiamo avanti».

Tornò a ispezionare la zona a partire dall’ultima tomba che avevano controllato e in altre due fosse trovarono tre scheletri. Gli ossicini sembravano tutti rotti e molto deteriorati, se ne distingueva appena la natura, ma nel terzo affiorava una fibra sfilacciata come di stoppa sudicia. La vista dei resti della copertina di culla la intenerì. Inginocchiandosi sulla terra umida, scostò strati e strati di fango finché non scoprì il fagottino che una madre aveva confezionato con amore per il suo neonato. Una tela cerata copriva la sepoltura, ma era la copertina a spezzarle il cuore, simbolo del dolore della madre che aveva lasciato il suo bimbo a dormire nella terra, senza dimenticarsi di proteggerlo dal freddo. Sentì l’acqua impregnarle i jeans e gli occhi gonfiarsi di un pianto che cadde sulle ossa di quella creatura tanto amata, forse nello stesso punto in cui era caduto anni prima anche quello di una madre. Chissà, magari la sua bisnonna?

Oppure una trisavola? Una giovane donna rotta dal dolore che una sera aveva deposto il figlio nella terra e l’aveva protetto con una copertina. Aprì la stoffa nel punto in cui era stata strappata, e gli ossicini, sorprendentemente interi, imposero la propria presenza dalla loro piccola tomba, mettendo in mostra il furto di cui erano stati vittima. Tornò a proteggere lo scheletro con la tela cerata e richiuse il fagottino, ricoprendolo con la terra.

Iriarte, che le era rimasto accanto in silenzio cercando inutilmente di proteggerla sotto l’ombrello, le tese una mano per aiutarla a rialzarsi. Tornarono sul fianco della casa e Amaia si girò a guardare le piccole impronte delle tombe rivoltate, che la pioggia contribuiva a livellare. Guardando i minuscoli mucchietti di terra, sentì sulle spalle il dolore di generazioni di donne della sua famiglia, le lacrime che avevano versato sullo spazio di terra destinato a diventare corridoio di anime; poi, tradita dalla sua immaginazione, vide se stessa costretta a deporre Ibai in mezzo al fango, e in quel preciso istante sentì svuotarsi i polmoni, mentre impallidiva e le forze la abbandonavano.

«Capo, si sente bene?»

«Sì», rispose, facendo qualche passo avanti mentre recuperava il controllo. «Mi scusi», bisbigliò.

Iriarte sistemò la valigetta nel bagagliaio e le aprì lo sportello dell’auto. Per un attimo Amaia fu tentata di andare a piedi a casa della zia, visto che calle Braulio Iriarte era in fondo al campo da pelota del Trinkete, ma i pantaloni fradici e i dolori diffusi che cominciava ad avvertire la convinsero a montare in macchina. Le sembrò che dietro i pergolati si nascondesse un viso, e riconobbe lo sguardo ostile dell’uomo che curava il giardino.

Alla curva di Txokoto videro Fermín Montes, che nonostante la pioggia rimaneva fuori dal bar, a fumare sotto la grondaia del tetto. Iriarte rispose al suo saluto con un cenno della mano, e proseguì verso la casa di Engrasi.

Prima di smontare dall’auto, Amaia si rivolse a Iriarte.

«Mi dà la sua parola?»

«Certo, ispettrice».

Lei lo guardò fisso, senza sorridere, e annuì.

Non aveva quasi messo il piede fuori dalla macchina, quando Fermín, che li aveva seguiti di buon passo, si avvicinò allo sportello aperto reggendo un ombrello.

«Ispettrice Salazar, vorrei parlare con lei».

Amaia lo guardò quasi senza vederlo, in preda a una stanchezza che diventava sempre più forte.

«Adesso no, Montes».

«Ma perché no? Se vuole, possiamo andare al bar e parlare un momento».

«Adesso no…» ripeté mentre si chinava a prendere le sue cose dal sedile.

«Per quanto ancora mi terrà lontano?»

«Chieda un appuntamento», gli disse senza guardarlo.

«Non capisco perché mi tratta in questo modo…» protestò.

Iriarte scese dalla macchina e si mise tra loro.

«Adesso no, ispettore Montes», ripeté in tono fermo. «A-des-so-no», ripeté scandendo le parole come se parlasse a un bimbo piccolo.

Montes annuì, per nulla convinto.

 

Amaia si diresse all’ingresso e lasciò i due uomini uno di fronte all’altro, sotto la pioggia.

Entrò in casa trascinando i piedi. Si sentiva fisicamente a pezzi, come se avesse la febbre, e il contrasto tra l’umidità esterna e il calore secco e profumato del camino la fece tremare. James passò il bimbo alla zia, preoccupato dal suo aspetto.

«Come stai, Amaia? Ti senti male?»

«No, sono solo stanca», rispose lei, sedendosi su uno scalino per sfilarsi gli stivali imbrattati di fango.

James si chinò per baciarla e fece un passo indietro con l’aria impensierita.

«Ma figurarsi, tu scotti!»

«No», protestò lei, ben consapevole che il marito aveva ragione.

«Sali a toglierti quella roba fradicia e fatti una bella doccia calda», le ordinò la zia, rimettendo il bimbo nel passeggino. «Tra dieci minuti sono da te».

«Ibai», sussurrò Amaia, allungando una mano verso il figlio.

«Amaia, sarà meglio che tu non lo prenda finché non sappiamo cos’hai, non vorrei che lo contagiassi».

James l’aiutò a togliersi gli abiti fradici per entrare in doccia. Sentendo il getto caldo sulla pelle, Amaia capì cosa le stava accadendo. Il suo corpo stava reagendo, erano giorni che aveva smesso di allattare Ibai regolarmente. La pelle del seno era tesa, calda e dolorante. Uscì dalla doccia, prese due antinfiammatori e si cercò in tasca il blister con due dosi di quelle pastiglie che avrebbero messo fine per sempre alla possibilità di allattare il figlio, e che si era rifiutata di prendere due giorni prima. Se le infilò in bocca e le ingoiò insieme alle sue lacrime di madre fallita. Sconfitta e disorientata, si sedette sul letto e si addormentò di botto. James tornò con la bottiglia d’acqua che ormai non le serviva più e vedendola in quello stato, nuda e addormentata, sfinita, rimase fermo, a guardarla, chiedendosi se fosse stata una buona idea tornare nel Baztán. La coprì con la trapunta, si sdraiò accanto a lei e con grande delicatezza le strinse il corpo che bruciava per la febbre, sentendosi come il clandestino che si imbarca di nascosto su una nave da crociera.