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Il freddo intenso di quel mattino si accompagnava a una pesante nebbia che rimaneva schiacciata a terra sotto il suo carico d’acqua e sembrava illuminata dall’interno da un sole forte, sconosciuto negli ultimi giorni, che adesso feriva quasi gli occhi, come se nell’aria gravitassero microscopici pezzi di vetro. Amaia guidò seguendo semplicemente la striscia bianca che si vedeva a stento dal finestrino laterale. Gli occhi le bruciavano per lo sforzo continuo di provare a vedere qualcosa, e il fastidio si sommava alla frustrazione. Al mattino presto si era risvegliata da un sogno pieno di voci, di gente che parlava e di discorsi indecifrabili che le giungevano dall’oscurità, come la trasmissione di una radio dell’inframondo mal sintonizzata, in cui i messaggi e le parole si mescolavano a ordini, pianti e intimazioni che non riusciva a capire, e che al risveglio le avevano lasciato una sensazione di impotenza e confusione di cui non riusciva a liberarsi. Si era svegliata sul divano dove si era addormentata, con una copertina addosso e un cuscino sotto la testa che le aveva messo la zia, quindi si era trascinata in camera da letto, dove Ibai dormiva comodo sul lettone lasciando a James solo un angolino del materasso.

«Dormi proprio come tuo padre», aveva sussurrato sdraiandosi accanto al suo bimbo per qualche minuto.

L’aria placida e serena di Ibai le fece recuperare in parte l’equilibrio, la fede e la sensazione che andasse tutto bene. Immobile, il bimbo dormiva tranquillo, le braccia distese come pale di mulino e una serenità riservata solo ai giusti. La bocca socchiusa e così pacifico che ogni tanto bisognava accostare l’orecchio per sentirne il respiro. Si era chinata su di lui per annusare l’odore dolce della sua pelle e, quasi ubbidendo a un richiamo istintivo, il bimbo si era subito svegliato. Il sorriso perfetto disegnato sul viso del figlio contagiò il suo, ma la magia durò solo pochi istanti, finché il bimbo non si mise a reclamare il latte allungando le manine goffe verso il suo seno, che ormai non serviva più a nutrirlo. Allora porse il figlio a James, che se lo portò al piano di sotto e la lasciò da sola in camera, sempre più convinta di essere una madre di merda.

 

Entrò in sala riunioni e vide che Jonan non era ancora arrivato. Accese il computer e appena entrò nella casella di posta vide due mail urgenti. La prima era del dottor Franz, che ormai sembrava deciso a scriverle tutti i giorni, e la seconda era inoltrata dall’indirizzo di Jonan e proveniva dal Pettine Dorato. Aprì la seconda.

«La signora aspetta la sua offerta».

«Per me, la signora può anche aspettare seduta», esclamò trascinando la mail nel cestino.

Anche il messaggio del dottor Franz sembrava una copia allungata del precedente, salvo una parte che attirò la sua attenzione. «Forse dovrebbe fare qualche indagine sulla ragione per cui il dottor Sarasola conosceva così bene il caso di sua madre, compresi i dettagli della sua terapia, e soprattutto del suo comportamento, che sono soggetti alla privacy medico-paziente. Mi pare quantomeno “curioso” che lui li conosca, tenendo conto che non l’ha mai avuta in cura, e io lo so per certo perché ho controllato».

Rilesse ancora il messaggio e per la prima volta da quando aveva cominciato a riceverli non lo eliminò. Era evidente che il Tarttalo conoscesse sua madre da prima del suo ricovero alla Santa María de las Nieves. Soppesò la possibilità che padre Sarasola e il visitatore che appariva nel filmato della telecamera fossero la stessa persona, ma la scartò all’istante. Il sacerdote e il direttore Franz si conoscevano molto bene, e di sicuro un semplice paio di occhiali e una barba finta non sarebbero bastati. In più, l’aspetto e l’altezza non quadravano con i calcoli che avevano eseguito sulla base dei filmati. Eppure il dubbio le rimase.

Uscì in corridoio e si affacciò alla porta dell’ufficio generale. Zabalza lavorava mezzo nascosto dietro lo schermo del computer e non si accorse della sua presenza finché non se la sentì accanto e spense al volo il monitor. Amaia attese che recuperasse il controllo e lo salutò.

«Buongiorno, viceispettore».

«Buongiorno, capo».

Amaia si accorse che nel dire «capo», il suo tono era sceso fino a diventare impercettibile.

«Ho del lavoro per lei. Si annoti questo nome: Rosario Iturzaeta Belarrain. Deve cercare nei registri dell’ospedale Madonna del Cammino, dell’ospedale comunale di Irún, della clinica Santa María de las Nieves e dell’Ospedale universitario. Mi serve una lista del personale che l’ha curata o ha avuto rapporti con lei per tutto il periodo in cui è stata ricoverata o è passata da un pronto soccorso».

Zabalza finì di scrivere, quindi sollevò lo sguardo.

«Sono un bel po’ di dati».

«Lo so, e quando li avrà raccolti tutti, voglio che incroci le liste e mi dica se c’è qualcuno che compare in più di un elenco».

«Ci vorranno giorni», ribatté lui.

«Allora non perda altro tempo».

Si girò e uscì dall’ufficio sorridendo mentre si sentiva alle spalle lo sguardo ostile di Zabalza.

«Ah, un’altra cosa», aggiunse, girandosi all’improvviso.

Fu sul punto di scoppiare a ridere vedendo l’aria da scolaretto colto sul fatto con cui Zabalza abbassò lo sguardo.

«Mi cerchi l’indirizzo di Fina Hidalgo, non so se sia Rufina o Josefina. Tutto quello che so è che vive nella valle, controlli all’anagrafe del comune. Questo è urgente».

Lui annuì senza alzare lo sguardo.

«Ha capito bene?» insistette lei, facendo apposta.

«Sì», sussurrò.

«Come?»

«Sì, ho capito bene, capo». E lei sorrise sentendo quella parola rimanergli invischiata nella bocca come se masticasse della terra. In corridoio incrociò Jonan, che arrivava chiacchierando con Iriarte.

 

Fina Hidalgo abitava in una bella casa di pietra in quello che si poteva considerare il centro urbano di Irurita, la seconda città più grande del Baztán. Era una palazzina di due piani con una bella vetrata risalente alla fine del XVIII secolo, ma il dettaglio che la rendeva particolare era sicuramente il giardino. Un salice piangente per lato custodiva l’accesso a un vialetto lastricato di rosso e fiancheggiato di primule ed enormi lavande potate alla perfezione. Richiamava l’attenzione la varietà di piante di sfumature diverse che andavano dal verde invecchiato al rosso granata, producendo un effetto di colore messo ulteriormente in risalto dai ciclamini rossi che decoravano le finestre. Su un fianco della casa, una serra di vetro di una dozzina di metri per lato era imperlata dall’interno di microscopiche goccioline d’acqua. Una donna la salutò dalla soglia.

«Buongiorno, venga di qua, così gliela mostro», la salutò, rientrando nella serra.

Nonostante le tante piante e la forte umidità, era un posto gradevole in cui fluttuava un intenso aroma mentolato in un’atmosfera più calda dell’esterno.

«Si diventa schiavi delle proprie abitudini», ammise la donna mentre si chinava a potare dei germogli. Li mozzava con le unghie, sporche di linfa verde, e li gettava in un vaso.

Amaia la squadrò. Indossava una camicia rosa infilata in un paio di pantaloni da equitazione, stivali di gomma con degli intricati motivi cachemire e portava i capelli rossi naturali raccolti sulla nuca con un fermaglio. Quando alzò lo sguardo per parlarle, Amaia si accorse che aveva le labbra dipinte di un rosa discreto. Avrà avuto sui sessantacinque anni, ma era ancora molto bella. Secondo le informazioni raccolte da Zabalza, era andata in pensione da poco e l’aspetto del suo giardino rivelava la sua vera passione.

«La stavo aspettando, il suo collega mi aveva avvertito del suo arrivo. Adesso finisco ed entriamo a prenderci un tè; se non estirpo subito questi germogli nuovi, si mangeranno tutta l’energia della pianta», spiegò quasi irritata.

L’interno della casa era all’altezza del giardino. Di marcata ispirazione vittoriana, la profusione di soprammobili, soprattutto porcellane, era insieme affascinante e sovraccarica. Fina le offrì un tè in un servizio raffinatissimo e le si sedette di fronte.

«Mio fratello è morto qualche tempo fa: era stato lui a comprare questa casa, ma per fortuna aveva lasciato a me l’incombenza di arredarla. Anche la serra era stata un’idea sua. A me all’inizio non piaceva, ma il giardinaggio è una specie di droga, una volta che cominci…»

«A quanto ne so, gli ha fatto da infermiera».

«In realtà non ho avuto scelta. Mio fratello era un brav’uomo, ma un po’ troppo all’antica. Sa, i miei genitori mi hanno avuto tardissimo e sono morti uno dopo l’altro quando io avevo solo quattordici anni. Lui era quasi vent’anni più grande di me, e prima di morire gli hanno fatto promettere che si sarebbe sempre preso cura di me. Mah, come se le donne non sapessero badare a se stesse! L’avranno fatto con le migliori intenzioni, certo, ma lui li ha presi un po’ troppo alla lettera e così mi ha fatto studiare da infermiera. Badi bene: non medico, ma infermiera, e così sono diventata la sua aiutante».

«Capisco», disse Amaia.

«Le cose non sono cambiate finché lui non è andato in pensione, e a quel punto finalmente ho potuto cercare lavoro fuori dalla valle, negli ospedali, con altri medici. Ma adesso sono io a essere andata in pensione, e guarda un po’… scopro che mi piace vivere qui!»

Amaia sorrise, sapeva bene di cosa parlava.

«Assisteva suo fratello durante i parti?»

«Sì, certo, sono anche ostetrica».

«La nascita che mi interessa risale al giugno del 1980».

«Oh, allora è certo in archivio. Mi segua», le disse alzandosi.

«Tiene qui il suo archivio?»

«Sì, mio fratello aveva uno studio a Elizondo e un altro qui a casa, un po’ come tutti i medici di campagna. Quando è andato in pensione e ha chiuso lo studio di Elizondo, ha trasferito tutto qui».

Entrarono in uno studio che sembrava uscito da un club inglese per fumatori: una magnifica collezione di pipe occupava tutta una parete, competendo con un’altra rivestita di stetoscopi e cornetti acustici antichi. Ricordò che il dottor San Martín le aveva accennato all’abitudine diffusa tra i medici di collezionare strumenti professionali del passato.

Fina si annotò la data su un foglietto.

«Ha detto 1980?»

«Sì».

«Il nome della paziente?»

«Rosario Iturzaeta».

La donna sollevò lo sguardo, sorpresa.

«Ricordo quella paziente, soffriva di nervi: era così che si diceva a quei tempi quando uno era nevrotico».

Senza sapere esattamente perché, si sentì a disagio.

«Non mi serve la sua cartella clinica, solo qualche dato relativo ai suoi parti. Serve un ordine del tribunale?»

«Per quanto mi riguarda, no. Mio fratello è morto, e probabilmente anche la paziente. Lei è un’agente di polizia, e non farà fatica a ottenere l’ordine: a che scopo complicare le cose?» rispose stringendosi nelle spalle.

«Grazie».

La donna sorrise prima di tornare a chinarsi sugli schedari e Amaia pensò nuovamente che da giovane doveva essere stata molto bella.

«Eccola qui!» esclamò estraendo una cartellina. «È anche un fascicolo bello corposo. Vediamo un po’ i parti… Sì… Ecco qua, prima un parto naturale nel 1973, senza complicazioni, una bimba apparentemente sana di nome Flora. Poi un secondo parto nel 1975, anche questo naturale, senza complicazioni, una bimba apparentemente sana di nome Rosaura. Terzo parto, 1980, parto naturale, gemellare, senza complicazioni, due bimbe, apparentemente sane, ma non sono registrati i nomi».

Il cuore cominciò a batterle forte dinnanzi alla facilità con cui quella donna le aveva appena confermato di aver avuto una gemella. Le strappò quasi di mano il foglio ingiallito dal tempo.

«Apparentemente sane? … Se una delle due bambine fosse stata malata o fosse morta, sarebbe registrato nella scheda?»

«No. A quei tempi, per i parti casalinghi non si disponeva di molti mezzi. Come può notare, non sono segnati neanche il peso e la lunghezza. Ci si limitava a eseguire il test di Apgar e una visita di routine. “Apparentemente sano” è un concetto del tutto generico: se un neonato soffriva, che so, di una cardiopatia occulta, non era possibile accorgersene, a meno che non mostrasse sintomi evidenti già alla nascita».

«E se, per esempio, uno dei neonati avesse subito un intervento di chirurgia, come un’amputazione?»

«Oh, in questo caso saremmo andati sicuramente in ospedale. Consideri che in studio al massimo si eseguivano piccoli interventi di routine e medicazioni».

«E se un neonato fosse morto?»

«Se fosse morto qui, nella valle, avrei il suo certificato di decesso. Mio fratello firmava tutti i certificati a quei tempi, purché le morti fossero avvenute nella valle e non in un ospedale di Pamplona».

«Potrebbe cercarlo, per favore?»

«Ma certo, però sarà un po’ più complicato perché ci manca il nome del neonato».

Amaia riguardò la cartella clinica e notò che in effetti non compariva nessun nome per le due bimbe, e ripensò alla fatica che anche lei aveva fatto a sceglierne uno per Ibai. Era forse una caratteristica che aveva in comune con la madre?

Fina aprì un altro armadio e prese uno schedario di cartone in cui appariva anche l’indicazione dell’anno.

«La morte sarebbe avvenuta nello stesso anno?»

«Sì, crediamo che sia morta appena nata».

Pochi minuti dopo, la donna estrasse una scheda tra le tante.

«Eccola qui: figlia appena nata di Juan Salazar e Rosario Iturzaeta. Causa della morte… guarda un po’, morte in culla!»

Amaia la interrogò con lo sguardo.

«“Morte in culla” era la definizione che si dava all’epoca per la sindrome di morte improvvisa del lattante», spiegò, porgendo il foglio ad Amaia. «Il che ci fa pensare che forse la bimba aveva qualche problema».

«Cioè era malata?»

«Magari non proprio malata, ma a volte ci sono problemi che non si riscontrano alla nascita, ma deventano evidenti nel giro di poche ore».

«Non capisco».

«Un ritardo, per esempio, oppure una tara familiare. Quasi tutti i neonati hanno la testa bombata, il viso schiacciato per il passaggio nel canale del parto e presentano un lieve strabismo, ma a volte ci sono problemi che si manifestano solo dopo qualche ora».

«Già…» ribatté Amaia lentamente, «ma non necessariamente sono danni mortali…»

La donna rimase a fissarla con le mani appoggiate alla scatola di cartone, e sulla sua bocca si dipinse un sorriso contratto.

«E così lei è una di quelle…?»

I peli le si rizzarono sulla nuca e all’improvviso si sentì a disagio, come quando si scopre che un bel vaso di gerani è infestato di larve.

«Una di quelle… cosa?» chiese Amaia, sapendo già che la risposta non le sarebbe piaciuta.

«Una di quelle che alzano un gran polverone senza sapere neanche di cosa parlano. Invece sarà sicuramente a favore dell’aborto quando il feto presenta danni neurologici, giusto?»

«Ma un neonato non è un feto».

«Ah, no? Be’, io sono sicuramente di parte, perché ho visto migliaia di neonati e centinaia di aborti, e non riesco a stabilire differenze così nette».

«Invece ce ne sono, e la principale è che un neonato è indipendente dalla madre, e così stabilisce la legge».

«Già, la legge…» ripeté, passandosi una mano tra i capelli. «Me ne frego della legge! Ha idea di cosa significa per una famiglia con tre o quattro bambini ritrovarsene uno in più, e peggio ancora se affetto da qualche tara?»

«Aspetti un attimo, mi sta dicendo che lei e suo fratello… uccidevate i neonati con qualche disabilità?»

«Oh, mio fratello no di certo. Lui era come lei, un baciapile moralista che non aveva la minima idea. Io sì, non ho problemi ad ammetterlo, tanto ormai sono mancanze cadute in prescrizione. Di solito lo facevano i genitori, anche se ogni tanto ho dovuto aiutarli perché si facevano intimidire da quell’idiozia del “frutto del ventre”, ma loro lo negheranno sempre proprio come faccio io, e ufficialmente sono tutte morti in culla. In più, il medico che ha firmato i certificati, in questo caso mio fratello, era un uomo irreprensibile, e perdipiù adesso è morto».

«Mancanze?» si indignò Amaia. «Le chiama mancanze? Sono omicidi!»

«Oh, maledizione!» esclamò la donna, fingendo una posa affettata che si trasformò d’un tratto nel più assoluto disprezzo. «Non venga a rompere con queste storie!»

Amaia la squadrò attentamente. Con la sua camicetta rosa e gli stivali di gomma, quella signora affascinante che aveva dedicato tutta la sua vita a coltivare azalee e mettere al mondo bimbi era una sociopatica senza alcun tipo di rimorso. Sentiva la rabbia crescere, prendere il posto dello stupore. Ripassò mentalmente le opzioni legali disponibili per arrestarla e si rese conto che aveva ragione lei: non sarebbero mai riusciti a provare dei delitti ormai caduti in prescrizione, e anche un avvocato mediocre sarebbe riuscito a vincere la causa se lei avesse negato tutto.

«Mi prendo questo certificato», le comunicò guardandola fisso negli occhi.

La donna si strinse nelle spalle. «Prenda pure tutto quello che vuole, sono ben felice di collaborare con la polizia».

Amaia uscì senza neppure salutare la padrona di casa, e l’aria fredda l’aiutò a combattere la sensazione di soffocamento che le toglieva il fiato. Mentre camminava risoluta verso l’uscita, la donna le chiese in tono sarcastico: «Non vuole portarsi via un mazzo di fiori, ispettrice?»

Amaia si girò a guardarla.

«Vade retro, Satana!» le urlò senza sapere di preciso il perché.

Il sorriso si gelò sul viso della donna, che cominciò a tremare di botto come se l’avvolgesse un freddo polare. Si sforzò di abbozzare di nuovo un sorriso, ma le sue labbra si contrassero in una specie di smorfia canina che le scoprì i denti fino alle gengive, e qualsiasi traccia dell’antica bellezza si dileguò all’istante.

Amaia accelerò il passo al ritmo del suo cuore, montò in macchina e guidò finché non uscì di città e si accorse che stringeva ancora tra il volante e le dita il foglio di carta ingiallito.

«Vade retro, Satana!» ripeté incredula.

Era una difesa magica, una specie di formula di protezione contro le streghe, ed erano quasi trent’anni che non la sentiva. Le sovvenne il ricordo vivido della sua amatxi Juanita che si raccomandava: «Quando capisci di avere di fronte una strega, incrocia le dita così», le diceva passando il pollice tra l’indice e il medio, «e se ti parla rispondile: “Vade retro, Satana!” Questa è la maledizione delle streghe, solo così potrai tenerle lontane da te». Sorrise dinnanzi alla freschezza di quel ricordo, sepolto nella memoria da anni e riaffiorato per colpa di quella donna orribile. Accostò la macchina e chiamò il Comune del Baztán per chiedere del necroforo, quindi guidò fino al cimitero di Elizondo.

 

L’ufficio del necroforo al cimitero era nel vero senso della parola un loculo di cemento che da lontano passava inavvertito fra tutte le cappelle con le colonne della zona alta che tanto le ricordavano gli edifici di New Orleans. All’interno, un tavolinetto e una sedia in mezzo a una baraonda di corde, scope, secchi, ponteggi smontati, puntelli, cunei, pale e persino una carriola. In un angolo, un paio di schedari metallici chiusi a chiave e alla parete un calendario con dei gattini in una cesta che in quel luogo risultava del tutto incoerente. Chino sul tavolo c’era un uomo di una certa età vestito con una tuta di cotone, che si raddrizzò non appena sentì la sua presenza alle spalle. Amaia fece in tempo a vedere che stava trafficando con un radio transistor e un paio di pile.

«Ah, buongiorno, è stata lei a chiamare per consultare lo schedario, giusto?»

Amaia annuì.

«Se i dati che le interessano si riferiscono al 1980, sono sicuramente qui», spiegò, alzandosi e appoggiandosi all’armadietto di metallo. «Quelli più moderni li inseriscono su computer, ma ci vuole tantissimo tempo e così…» Si strinse nelle spalle con un gesto significativo.

L’uomo prese da un cassetto un volume rilegato in cui compariva la data e lo posò sul tavolino. Con grande attenzione, aprì il certificato che Amaia gli porgeva e seguendo con il dito controllò i nomi scritti a mano sul libro.

«No, qui non è», concluse sollevando la testa.

«Il fatto che non fosse registrato il nome può complicare le cose?»

«Mah, avremmo comunque dovuto trovarlo per data e causa di morte, e invece non c’è niente».

«Non è possibile che si trovi su un altro libro?»

«No, non c’è nessun altro libro, si figuri che non abbiamo neanche finito questo…» ribatté sfogliando le ultime pagine, rimaste ancora in bianco. «È proprio sicura che l’abbiano seppellito in questo cimitero?»

«Dove altro avrebbero potuto seppellirlo? Questa famiglia è di Elizondo».

«Chi lo sa, magari sono di Elizondo adesso, ma forse uno dei nonni era di un’altra città, e magari l’hanno seppellito lì…»

 

Uscì dall’ufficio piegando il foglio e infilandoselo nella tasca interna del cappotto, quindi si diresse alla tomba di Juanita. C’era una piccola croce di ferro con inciso il nome e, sulla sinistra, la lapide del nonno che non aveva mai conosciuto. Appena dietro, la tomba che per anni aveva persino evitato di guardare, quella del padre. Era curioso come ricordasse ogni minimo dettaglio del giorno in cui la zia l’aveva chiamata per comunicarle che il padre era morto, anche se lei lo sapeva già; l’aveva saputo solo un istante prima che suonasse il telefono e in quel secondo tutta la freddezza, tutto il silenzio che li aveva tenuti lontani come padre e figlia si erano abbattuti su di lei come una condanna senza tempo, perché il tempo ormai era scaduto. Guardò con la coda dell’occhio il nome scritto sulla croce e il dolore la colpì forte, accompagnato dalla domanda di sempre: perché l’hai permesso?

Fece un passo indietro e osservò con occhio critico la superficie del terreno, tutto ricoperto di erba e apparentemente intatto. Proseguì quasi fino in fondo al cimitero, passando davanti alla tomba di Ainhoa Elizasu, la bambina per cui aveva deciso di tornare nel Baztán a investigare sul peggior caso di omicidio della sua vita. C’erano dei fiori e una bambolina di pezza che qualcuno aveva lasciato sulla tomba. Quasi in fondo vide la cappella antica in cui erano sepolti i suoi bisnonni e qualche zio o zia morti prima che lei nascesse. Con la pioggia, la ruggine dei fregi in ferro era colata sul marmo, mentre la pesante lapide era ancora ben salda al suo posto.

Si girò per scendere verso l’uscita, ma avvicinandosi all’incrocio vide Flora, che rimaneva immobile a capo chino di fronte alla tomba di Anne Arbizu. Sorpresa, la chiamò.

«Flora!»

La sorella sollevò la testa e Amaia si accorse che aveva gli occhi lucidi.

«Ciao, Amaia, che ci fai qui?»

«Niente, faccio solo un giro», mentì raggiungendola.

«Anch’io», disse Flora imboccando il vialetto senza guardarla.

Amaia la seguì e per un paio di metri camminarono a passo lento, in silenzio e senza rivolgersi lo sguardo.

«Flora, sai per caso se la nostra famiglia ha qualche altra cappella o tomba in questo o in altri cimiteri della valle, a parte quella dei bisnonni o le tombe a terra?»

«No, e lasciami dire che è una vergogna. I bisnonni di sopra, i nonni e l’aita di sotto. Tutti sparpagliati per il cimitero, come la povera gente».

«È strano che i nostri genitori non abbiano comprato una cappella, soprattutto conoscendo l’amá. Mi stupisce che non ci abbia pensato e che sia disposta a farsi seppellire vicino all’amatxi Juanita».

«Ti sbagli: ha permesso che seppellissero l’aita accanto all’amatxi perché lui voleva così, ma l’amá non è mai appartenuta del tutto a questo posto. Lei ha lasciato scritto di farsi seppellire a San Sebastián, nella cappella di famiglia al cimitero di Polloe».

Amaia si fermò di botto.

«Ne sei sicura?»

«Sì. Sono anni che conservo una lettera scritta di suo pugno con le indicazioni per il funerale e la sepoltura che desidera».

Amaia ci pensò su qualche secondo, poi chiese: «Flora, tu avevi sette anni quando sono nata io. Che ricordi hai di allora?»

«Che domanda! Come faccio a ricordarmi?»

«Non so, in fondo non eri poi così piccola, no? Qualche ricordo dovrai pur averlo».

Flora ci pensò su.

«Ricordo che ti davo il biberon, e anche Ros, perché l’aita ci dava il permesso. Lui lo preparava, ti sistemava tra le nostre braccia facendoci sedere sul divano e noi ti davamo il biberon a turno. Evidentemente ci doveva sembrare divertente».

«E l’amá

«Sai, a quei tempi era già malata di nervi, poverina, ha sempre sofferto tanto…»

«Sì», rispose Amaia con freddezza.

Flora si girò all’improvviso come colpita in pieno da un fulmine.

«Senti, se vuoi parlare, parliamo, ma se cominci così, io me ne vado», disse, avviandosi verso l’uscita.

«Flora, aspetta!»

«No, non aspetto proprio niente».

«È importante per me sapere cosa succedeva a quell’epoca».

Senza neppure girarsi, Flora alzò una mano in segno di saluto, arrivò al cancello e uscì dal cimitero.

Amaia sospirò, sconfitta, e tornò alla tomba di Anne Arbizu per recuperare l’oggettino che le era sembrato di veder cadere. Una noce. La sua superficie era lucida e Amaia capì che la sorella lo teneva in mano un istante prima che la chiamasse. Una noce. La rimise dov’era e seguì i passi di Flora verso l’uscita. Squillò il cellulare. Guardò lo schermo stupita: era Flora.

«L’amá aveva un’amica, si chiama Elena Ochoa e vive nella prima casa bianca che c’è accanto al mercato. Non so se avrà voglia di parlare con te: anni fa lei e l’amá hanno litigato, hanno smesso di parlarsi e non si sono più sentite. Secondo me, è la persona che la conosceva di più a quell’epoca. Spero solo che tu abbia un po’ di rispetto ed eviti di parlare male di nostra madre, che non debba pentirmi di avertelo detto».

E riagganciò senza aggiungere altro.

 

«Lo so chi sei», disse la donna appena la vide. «Tua madre e io eravamo amiche, ma ormai sono passati tanti anni». La donna si fece da parte per lasciarla passare. «Vuoi entrare?»

Il corridoio era molto stretto, ma in più c’era una credenza enorme che ostacolava il passaggio. Amaia si fermò in attesa che la donna le indicasse la strada.

«In cucina», sussurrò.

Amaia infilò la prima porta a sinistra e attese la donna, che la seguiva facendole segno di accomodarsi su una sedia appoggiata alla parete.

«Vuoi un caffè? Stavo per farmene uno».

Amaia accettò, anche se in realtà non ne aveva voglia. La donna sembrava molto a disagio nonostante lo sforzo evidente di dimostrarsi gentile. Eppure nel suo comportamento c’era una specie di isteria trattenuta che la faceva apparire terribilmente instabile e fragile. Posò le tazzine sul tavolo della cucina e si sedette all’estremità opposta. Versando lo zucchero, lo rovesciò sulla tovaglia.

«Accidenti!» esclamò, forse un po’ troppo irritata.

Amaia aspettò che la donna lo raccogliesse e tornasse a sedersi, fingendo di concentrare tutta la sua attenzione sul caffè.

«Buonissimo», commentò.

«Sì», rispose lei, come se pensasse ad altro, e alzò gli occhi per guardarla di fronte. «Tu sei Amaia, vero? La piccola».

Amaia annuì.

«Quando sei nata tu, noi due ci eravamo già allontanate. Io ci ho sofferto tanto perché volevo molto bene a tua madre». Fece una pausa. «Le volevo bene davvero, e mi è dispiaciuto che la nostra amicizia finisse. Io non avevo altre amiche, e quando tua madre è arrivata qui siamo diventate inseparabili. Facevamo tutto insieme, passeggiare, badare alle bambine; anch’io ho una figlia, dell’età di tua sorella maggiore. Andavamo a fare spese, al parco, ma soprattutto parlavamo. È bello avere qualcuno con cui parlare».

Amaia annuì, facendole segno di proseguire.

«Così, quando ci siamo allontanate, è stato molto triste per me. Ero convinta che con il tempo avrebbe cambiato idea e magari… Ma sai bene che non è mai successo».

La donna sollevò la tazza per bere e quasi vi si nascose dietro.

«Che ragione può portare due buone amiche a separarsi in questo modo?»

«L’unica cosa che può mettersi tra due donne», rispose guardandola fisso.

«Un uomo».

Amaia ripensò al comportamento della madre da quando ne aveva memoria. Come aveva fatto a essere così cieca? La sua visione parziale di figlia le aveva impedito di vedere la madre come una donna con bisogni di donna? Era stato un uomo a far perdere l’equilibrio a Rosario, magari per il fatto di non essere libera di scappare via con lui in una società chiusa e provinciale come quella del Baztán?

«Mia madre aveva un amante?»

La donna sgranò gli occhi, sorpresa.

«Oh, no, certo che no, come ti viene in mente? No, non era quel genere di rapporto…»

Amaia alzò entrambe le mani chiedendo risposta.

«Doveva essere un gruppo di espressione corporea ed emotiva, una di quelle milonghe tanto di moda negli anni sessanta, sai com’è, rilassamento, tantra, yoga e meditazione, tutto insieme. Ci riunivamo in un casolare. Il proprietario era un uomo molto attraente, ben vestito e con una grande parlantina, uno psicologo o qualcosa del genere; non so neanche se avesse un diploma vero e proprio. All’inizio era davvero uno spasso: parlavamo di avvistamenti ufo, di rapimenti alieni, di viaggi stellari e stupidate così. Ma piano piano hanno cominciato a parlare solo di stregoneria, di magia, di simboli magici, del passato oscuro della valle. A me questo divertiva molto meno, ma tua madre era come ipnotizzata, e devo riconoscere che in effetti aveva il suo fascino. A lei piaceva tantissimo questa storia delle riunioni clandestine e delle sette segrete…»

Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Amaia aspettò qualche secondo, finché non si rese conto che la donna era finita chissà dove con il pensiero.

«Elena», la chiamò dolcemente. Lei tornò a guardarla e le sfuggì un lieve sorriso. «Cos’è successo? Cosa l’ha spinta a smettere?»

«I sacrifici».

«Sacrifici?»

«Galli, gatti, agnelli…»

«Uccidevano animali».

«No, li sacrificavano… In tanti modi diversi, il sangue aveva un’importanza incredibile. Lo raccoglievano in ciotole di legno e poi lo conservavano in bottiglia con qualche componente che lo manteneva liquido. Io non potevo sopportare una cosa simile, non mi sembrava giusto… Guarda, io sono cresciuta in campagna, è ovvio che uccidevamo le galline, i conigli, i maiali, ma non in quel modo. È stato allora che abbiamo conosciuto l’altro gruppo. Il nostro maestro, così lo chiamavamo, ci diceva che c’erano altri gruppi simili al nostro sparsi un po’ per tutta la Navarra, e spesso si assentava per andarli a trovare. Un giorno ci ha annunciato che sarebbe venuto in visita un gruppo di Lesaka di cui si sentiva particolarmente orgoglioso, e che loro ci avrebbero aiutato a completare la nostra formazione e a raggiungere il grado successivo. Saranno state una decina di persone, tra uomini e donne, e parlavano in continuazione del “Sacrificio” come se fosse una cosa molto speciale. Noi lo avevamo già fatto, che Dio mi perdoni, usando degli animaletti, e a me faceva già abbastanza impressione, perciò ho preso coraggio e ho chiesto spiegazioni. Ricordo che uno di loro mi ha risposto quasi in stato di estasi: “Il Sacrificio è il Sacrificio, un gatto o un agnello sono ‘un sacrificio’, ma ‘il Sacrificio’ non può che essere umano”. Io non sono una bigotta, ci tengo a dirlo, e avevo sentito i miei nonni raccontare storie sugli omicidi di bambini che le streghe commettevano come sacrificio prima di mangiare la loro carne, ma avevo sempre pensato che fossero delle storie inventate. Ma poche settimane dopo, il maestro è arrivato a una riunione tutto sorridente e ci ha detto che i membri di Lesaka avevano eseguito “il Sacrificio”. Io sul momento ho pensato che lo dicesse come parte del misticismo di cui amava circondarsi; accidenti, non ci credevo davvero, ma tra sapere e non sapere ho cercato sul giornale se ci fossero notizie di bambini morti o scomparsi. Non ho trovato niente, ma quella storia non mi piaceva comunque. Ne ho parlato con tua madre e le ho detto quello che pensavo e che secondo me dovevamo tirarci indietro, ma lei si è infuriata con me. Mi ha risposto che io non capivo l’importanza di quello che facevamo, il potere di cui parlavamo. Insomma, in poche parole mi sono resa conto che le avevano fatto il lavaggio del cervello. Mi ha accusato di essere una traditrice e abbiamo finito per litigare. Io ho smesso di frequentare le riunioni del gruppo, ma per mesi ho ricevuto i loro avvertimenti».

«Avvertimenti?»

«Cose che potevano passare inavvertite agli altri, ma che io sapevo bene cosa fossero».

«Tipo?»

«Qualche goccia di sangue accanto all’ingresso di casa, una scatolina con delle erbe e dei peli di animali… cose così. Un giorno, mia figlia è tornata da scuola portando delle noci che una donna le aveva dato per strada».

«Delle noci? E questo cosa significa?» chiese Amaia, ripensando alla noce che Flora aveva lasciato sulla tomba di Anne Arbizu.

«La noce simboleggia il potere della belagile, la strega. Al suo interno, che ha la forma del cervello, la strega concentra tutto il suo potere malefico. Se la noce viene data a un bambino e lui se la mangia, si ammalerà gravemente».

Amaia si accorse che la donna si contorceva le mani, in preda a una grande agitazione.

«E secondo lei perché le mandavano questi “avvertimenti?”»

«Per avvertirmi di non parlare mai del gruppo».

«E mia madre ha continuato a partecipare alle riunioni?»

«Sono sicura di sì, anche se ovviamente io non l’ho mai vista, ma il semplice fatto che non mi abbia più rivolto la parola ne è la prova».

«Potrebbe farmi una lista delle persone che partecipavano a queste riunioni?»

«No», disse con molta tranquillità. «Non intendo farlo».

«Sa se hanno continuato a riunirsi?»

«No».

«Può darmi l’indirizzo del posto in cui si riunivano?»

«Allora non ha capito! Se lo facessi, qualcosa di terribile succederebbe alla mia famiglia».

Amaia squadrò la sua espressione e giunse alla conclusione che la donna ci credeva sul serio.

«Va bene, Elena, non si preoccupi, mi è stata di grande aiuto», disse, alzandosi e percependo all’istante il suo sollievo. «Solo un’ultima cosa».

La donna si irrigidì di nuovo, in attesa della domanda.

«Nel suo gruppo sono arrivati a proporre sacrifici umani?»

La donna si fece il segno della croce.

«La prego, se ne vada», le ordinò spingendola lungo il corridoietto. «Se ne vada!» Quindi aprì la porta e la buttò quasi fuori di casa.