Itxusuria
Individuò la tomba seguendo la linea che l’acqua aveva disegnato a terra colando dalla grondaia di casa. Si inginocchiò e da una tasca interna estrasse una paletta da giardino e una minuscola zappa con cui rivoltò la superficie compatta della terra scura, che si sollevò in zolle umide e spugnose, emanando un odore buono, come di legno e muschio.
Facendo grande attenzione, cominciò piano piano a eliminare strati di pochi centimetri finché, mescolati alla terra, affiorarono brandelli anneriti di stoffa putrefatta, forse una copertina da culla.
Scavò con le mani spostando la copertina, che si sgretolò al semplice contatto, e portò alla luce il tessuto cerato che avvolgeva il corpo. Era rimasto appena un frammento della corda che lo teneva legato, qualche impronta nei punti in cui stringeva. Tolse quel che restava della corda, ridotta a una massa informe tra le sue dita, e tastò la superficie dell’involto cercando l’estremità, il primo dei molti giri di stoffa che intuiva anche senza vederli. Affondò le dita su un lato e lacerò il sudario, che si aprì come se vi avesse affondato un coltello.
Il neonato giaceva sepolto a pancia in giù quasi dormisse cullato dalla terra; le ossa apparivano ben conservate, seppur imbrattate dalla terra scura del Baztán. Stese la mano a coprire quasi tutto il corpicino, premette il torace contro la terra e senza resistenza strappò di netto il braccio destro, che staccandosi ruppe la piccola clavicola con uno scricchiolio leggero, un lamento sommesso per quel furto. Indietreggiò, come per un timore improvviso, si alzò, infilò gli ossicini sotto i vestiti e rivolse un ultimo sguardo alla tomba, prima di rovesciarci dentro la terra con i piedi.