60.
VERÓNICA
Per tutta la mattina della domenica in cui preparammo il trasloco di Laura, mio padre se ne rimase a sfogliare il giornale. Era incredibile la quantità di carabattole che si può accumulare in pochi mesi. Guardava con la coda dell’occhio me, Ángel e Laura che ci davamo da fare. Don agitava la coda. Quasi tutta l’attenzione si concentrava sui vestiti, montagne di vestiti sul letto di Laura che bisognava piegare e mettere nelle valigie e negli scatoloni. Lei aveva deciso di regalarmi i capi firmati che mi piacevano di più e, quando li stavo scegliendo, mio padre comparve sulla soglia della stanza.
Rimase a guardarci in un modo diverso dal solito. Si passò le mani sulla testa e subito dopo andò verso Laura e la abbracciò.
«Questa è casa tua», le disse. «Betty non ha mai voluto dimenticarti.»
Laura non volle conoscere suor Rebeca, l’ostetrica che l’aveva venduta a Greta e Lilí e che aveva un legame con la direttrice della sua scuola, suor Esperanza, come se tutte le persone della sua vita fossero unite da una ragnatela, nella quale alcuni vendevano e altri compravano. Disse che non voleva più immagazzinare immagini orribili, che non voleva sapere com’era quella donna, che era stufa di essere al centro di una storia così crudele. Io potevo fare quello che volevo perché anche noi eravamo vittime di quella gente, ma lei per il momento gettava la spugna.
A trovare suor Rebeca andammo io e María. L’assistente di Martunis era molto curiosa e aveva voglia di unire tutti i fili. Ci incontrammo in ufficio da lei. Indossava un montone rovesciato bordato di agnello su una tuta nera aderente e un paio di stivali con i pantaloni infilati dentro. Scendemmo nel parcheggio del palazzo e salimmo su una macchina antica ed enorme, tedesca, verde scuro. Non sembrava che fossimo su quattro ruote, scivolammo lungo l’autostrada e su una strada costeggiata da pini fino al portone della residenza. Passando cercai con lo sguardo suor Adelina. Mancava poco a mezzogiorno, era l’orario in cui a quanto pareva portavano le anziane in terrazza a fare il pieno di vitamina D. Nessuno ci fermò. Suor Adelina era in fondo a chiacchierare con altre suore e suor Rebeca era completamente sola. Aveva ragione, suor Adelina non badava a lei.
Ci avvicinammo accompagnate dal ticchettio dei tacchi sottili degli stivali di María e di quelli spessi dei miei.
«Suor Rebeca, sono Verónica, si ricorda di me? Sono venuta a trovarla qualche giorno fa per il problema di quella coppia, il nipote di suor Esperanza.»
I suoi piccoli occhi secchi lo ricordavano perfettamente; dentro di essi c’era una domanda.
«Questa è la mia amica María, mi ha dato un passaggio in macchina. Sarà lei che si occuperà di tutto, mi sono già messa d’accordo con Ana.»
«Sono stanca di stare seduta», disse la religiosa.
«Già», risposi. «A quanto pare suor Adelina è molto impegnata.»
Le lanciò un’occhiata piena di rancore. «A noi vecchi non vuole bene nessuno. Sta sempre con le giovani», constatò amareggiata.
Le giovani dovevano avere tra i settantacinque e gli ottant’anni.
«Io sono venuta a trovarla», dissi dandole il braccio per farla appoggiare. Ci avviammo verso le stanze.
María ci seguiva pazientemente.
«Non voglio già tornare in camera mia. Non ho voglia di riposarmi.»
«Non si preoccupi», la rassicurai. «Andiamo e poi la riporto in poltrona.»
Non si era resa conto della sparizione dell’agenda o aveva dimenticato che non ce l’aveva più?
«Ho chiamato suor Esperanza. Dice che non ti conosce e che non ha mandato nessuno da me.»
Entrammo nell’edificio e imboccai il corridoio dove si trovava la sua stanza. Si girò per guardarmi.
«Non voglio andare in camera.»
Le strinsi il braccio magro ma teso, nervoso. María si mise dall’altra parte.
«Voglio che María la veda.»
«Volete farmi male.»
«Che non le venga in mente di gridare perché posso romperle il braccio, e allora sì che non uscirà dalla sua stanza per molto tempo. Suor Adelina, con la scusa del gesso, ne approfitterebbe per chiuderla qui dentro almeno un mese.»
Dopo che fummo entrate, si sedette sul letto con i piedi a penzoloni. María si mise accoccolata e si dedicò a osservarla per qualche minuto. La faccia avvizzita, gli occhi duri, pratici, la bocca arcigna. Aveva finito per assomigliare alle sue azioni.
«E quindi questa è suor Rebeca», disse María. «Come ha potuto strappare dei bambini alle loro madri per darli ad altre persone?»
«Questa è una trappola», protestò la vecchia guardandosi intorno. Aveva qualcosa di una vecchia lupa solitaria. «La storia della coppia che non può avere figli è una bugia, vero? Suor Esperanza non si ricordava neanche di me. Si è sempre creduta migliore di me, ha sempre peccato di superbia, che Dio la perdoni.»
«Mia madre si chiamava Betty e lei alla clinica Los Milagros finse che mia sorella fosse morta e la diede a una certa Greta.»
Cercò di alzarsi, ma io la presi per le spalle e la spinsi un po’ di più sul materasso.
«È una bugia. L’unica cosa che ho fatto è stato dare in adozione bambini di madri che non li volevano. Ci sono ragazze che non hanno la testa a posto. Io ho fatto la volontà del Signore. Ci sono genitori meravigliosi che aspettano la benedizione di un figlio.»
Era chiaro che era più difficile comunicare con lei che con Don, e sarebbe stato impossibile farle ammettere che aveva trafficato con delle vite umane. Il suo Dio era uno scudo contro la coscienza.
«Che cosa hai fatto con i soldi?» chiese María. «Come ve li dividevate? Non vorrai che tutti qui scoprano quello che facevi. Non vorrai che venga la polizia ad ammanettarti.»
Ci guardò incredula. La vecchiaia la salvava da tutto, dalle manette e dai suoi peccati.
«Non so niente dei soldi.»
«Ma come non sai niente!» la incalzò María facendola alzare dolcemente dal letto e portandola fino all’armadio. In quel momento mi rilassai e non fui capace di prevedere quello che voleva fare. Suor Rebeca si lasciò portare, felice di alzarsi dal letto; sembrava che l’unica cosa che la atterriva veramente fosse rimanere lì.
María aprì una delle tre ante dell’armadio. Prese una delle manine magre di suor Rebeca e la mise tra lo stipite e l’anta. Suor Rebeca voleva spostarla, ma María le disse di stare buona perché le si potevano spaccare le ossa e avrebbero dovuto portarla in ospedale e ci sarebbe rimasta un bel po’. Lo sguardo di María poteva competere perfettamente con quello di suor Rebeca. Ci fu un momento in cui l’una arrivò fino in fondo agli occhi dell’altra senza battere ciglio e quello che videro fece riconsiderare loro la situazione, perché María spostò la mano della suora da quel posto così pericoloso e suor Rebeca confessò che non si ricordava di mia sorella ma che una bambina con quelle caratteristiche poteva essere stata pagata due o tre milioni di pesetas. Quel denaro non era per lei, era per coprire le spese. Pagare il medico, le infermiere, la commissione di Ana... Le dovevamo credere, non era una questione di soldi.
La riportammo in poltrona e la lasciammo lì, di fronte al sole e al gruppo di suor Adelina e delle altre suore più giovani. Ridevano allegramente mentre il sole risplendeva sui loro veli come per mortificare suor Rebeca.
Mentre guidava il suo carrarmato verso Madrid, María mi promise che si sarebbe occupata lei di quello che rimaneva da fare.
«E Martunis?» chiesi.
«È fuori città. Finché non tornerà, Martunis sarò io.»
Ricevuto. Le chiesi di lasciarmi nei pressi della nuova casa di Laura. Doveva accompagnarmi in macchina alla zona industriale per ritirare la merce. Entro breve le avrebbero dato la qualifica ufficiale di venditrice. Per il momento era la mia assistente.
Adesso il Palo lo chiamavo sempre Valentín, anche tra me e me. Se lo meritava perché si sforzava di rendere felice Laura e aveva trovato un secondo lavoro. L’appartamento era profondamente cambiato dalla notte che avevo passato lì con Mateo. Adesso era pulito e tinteggiato di bianco. Sotto la finestra del salotto c’erano vari ficus, un tronchetto della felicità e una palma. I libri erano allineati su uno scaffale di pino sul quale era appoggiata anche una cornice d’argento invecchiato con la foto di Laura da piccola. Mi guardò e io guardai lei. Un grande lampadario di carta di riso pendeva dal soffitto sopra un vecchio tavolo di legno che loro avevano scartavetrato e dipinto di rosso. C’era un buon odore e Laura mi aprì la porta con uno dei vestitini firmati che aveva recuperato nella sua vecchia casa e i capelli lunghi, lisci e brillanti come un lingotto d’oro. Mi disse entusiasta che doveva mostrarmi delle lenzuola che aveva comprato a un prezzo stracciato e, mentre la seguivo in casa, mi ricordai di mia madre e mi sentii quasi male per quanto incomprensibile, abissale, dolorosa e allegra è la vita.