32.
LAURA, L’ORA DELLA VERITÀ
Don era legato a un albero all’entrata del bar. Era seduto sulle zampe posteriori e mi accorsi che mi guardava mentre passavo, anche se non girò la testa. Non era il tipico cane su cui la gente si lancia per accarezzarlo. Corpo tozzo, zampe lunghe, pelo penzolante. Non si rimaneva colpiti a prima vista. Se fosse stato un essere umano, sarebbe stato una di quelle persone con cui bisogna avere molto a che fare perché ti piacciano o perché si inizi a volere loro bene. Uno dei nostri vicini di casa a El Olivar aveva un cagnolino bianco e senza pelo, con il muso rosa e le zampe corte, sembrava un maialino. Tutti quelli che lo incrociavano si chinavano per accarezzargli la testa e lui si fermava per ricevere quella carezza. Don non si aspettava niente. Faceva il suo dovere di stare legato all’albero finché la sua padrona non fosse uscita.
Non appena entrai feci un passo indietro. Accanto a Verónica c’era un ragazzo sui quindici anni. Fu istintivo. Sapevo che non potevo scappare, non me lo avrebbero permesso loro e non me lo sarei permesso neanch’io.
Verónica si alzò e venne verso di me. Indicò il tavolo e le sedie di legno massiccio su cui erano seduti. Quando se ne spostava una, sembrava che il locale crollasse.
«Ti ho promesso una novità ed eccola qui», disse prendendo il ragazzo per il braccio e costringendolo ad alzarsi.
Lui non voleva guardarmi, non voleva salutarmi. Non voleva stare lì, si lasciava manovrare da Verónica come un burattino. Prese un parka da una sedia. Indossava un paio di jeans e una maglia a strisce bianche e nere. Aveva le orecchie a sventola e gli occhi belli, innocenti, come se fosse passato di colpo dai tre ai quindici anni. Per Verónica si era fermato ai tre. Gli tolse il parka di mano.
«Dove credi di andare? Siediti. Lei è Laura e lui è Ángel. Angelito», disse e gli diede un buffetto affettuoso.
Ángel continuava a non guardarmi. Verónica però mi fissò dritto negli occhi. I suoi sembravano assonnati.
«Ángel è tuo fratello. È giunta l’ora della verità.»