41.
LAURA, L’AMORE È PAURA E LA PAURA È AMORE

Mi sembrò di sentire la voce di Verónica. Qualche giorno prima, quando ero uscita dalla stanza azzurra per andare in bagno, ero passata davanti agli appartamenti della mamma e l’avevo vista. Mi era sembrata un fantasma, una di quelle visioni che hanno le pazze, perciò mi ero spaventata e mi ero chiusa di nuovo nella stanza, perché lì ero al sicuro e mi sentivo come un uccello. Volavo e mi riposavo, volavo e mi riposavo. E adesso la sua voce. Sembrava proprio reale. Parlava con la mamma nell’anticamera e smisi di piangere. Era come se la voce di Verónica mi dicesse: “Non ti compatire. Sii coraggiosa e aiutati, io non posso fare più di quello che già faccio”. Mi alzai e attaccai l’orecchio alla porta. Non era un sogno e ne avrei avuto conferma se mi fossi addormentata e poi risvegliata, perciò mi misi di nuovo a letto. Non avevo più tanta voglia di piangere, qualcosa mi aveva dato forza, forse era stata la voce roca di Verónica.

Dopo si sentirono i passi rapidi di mia madre con i suoi stivali da cowboy bordati d’argento. Era arrabbiata. Non che si arrabbiasse molto, si arrabbiava se non facevo sempre quello che voleva lei, e in quel momento per colpa mia non aveva potuto fare qualcosa.

Aprì la porta con forza.

«Che hai? Non la puoi smettere di piagnucolare come un cane?»

«Mamma», dissi e, dicendolo, mi accorsi che quella parola era falsa. Le altre madri si comportavano come la mia con me? Io mi facevo carico di gran parte del lavoro al negozio e grazie a questo poteva stare molto con il suo Larry, ma quando ero piccola per lei ero stata sempre un peso e più di una volta lei e mia nonna avevano discusso davanti a me in un modo che mi angustiava, perché discutevano per colpa mia. «Mi dispiace», continuai. «Sono stanca.»

«Io sì che sono stanca di stare chiusa qui tutto il giorno. Di pomeriggio qui e di mattina in negozio, e quando vivo?»

«Non è colpa mia.»

«Sì che è colpa tua. Hai rovinato tutto. È molto brutto che tu vada in giro a chiedere chi era tuo padre e a strappare foto dall’album. A chi le hai fatte vedere? Se hai qualcosa da chiedere, chiedila a me.»

Si era seduta sul letto e muoveva le mani come se volesse portarmele al collo e strangolarmi. «Sai chi era tuo padre? Nessuno! Una scopata di una sera d’estate. Mi sarei potuta sbarazzare di te e non l’ho fatto, e a che è servito? Solo ad avere dispiaceri su dispiaceri.»

Scoppiai di nuovo a piangere e mi abbracciò. Mi accarezzò i capelli due volte, non di più, come faceva sempre.

«Non voglio che tua nonna ti veda così quando torna. In fin dei conti io sono tua madre.»

Non capii cosa volesse dire con quell’affermazione. La feci rimanere vicino a me, anche se sapevo perfettamente che voleva andare a leggere le sue riviste.

«Voglio tornare in negozio», dissi consapevole del fatto che stavo bagnando il suo maglione viola preferito. «Voglio rimettermi in salute e che tutto torni come prima.»

Finalmente riuscì a staccarsi da me.

«Non sarà facile, conosci tua nonna. Quando perde la fiducia in qualcuno...»

«Ho fatto una sciocchezza, non voglio che tu sia schiava del negozio.»

Mi guardò con un’espressione molto seria, senza credere a quello che le dicevo. «Vivevamo tranquille e adesso... non lo so... hai complicato le cose.»

«Aiutami a essere come prima.»

«Adesso, tesoro, l’ultima parola ce l’ha il dottor Montalvo. Dovrà visitarti per vedere se puoi uscire di casa.»

Mi distesi sul fianco destro, dando le spalle alla porta. Se Pascual fosse stato a Madrid avrebbe potuto aiutarmi. Gli avrei raccontato la storia di Verónica e lui, essendo uno scienziato, avrebbe saputo discernere la verità dalla menzogna. Io e Pascual però avevamo sempre meno cose da dirci, e come avrei potuto confidargli che la mia famiglia non era la mia, che quando ero nata mi avevano strappato alla mia vera madre e che adesso i miei veri familiari mi avevano ritrovato? Lui cosa avrebbe potuto fare da Parigi, dal suo laboratorio, con il suo camice bianco?

Quella sera Lilí entrò nella mia stanza, sulla sedia spinta dalla mamma. Teneva sulle ginocchia un vassoio con un piatto di minestra, pane, acqua, latte, una mela e le pillole che metteva su un cucchiaino.

«Greta dice che stai meglio.»

Mi sollevai un po’ e mia madre piegò il cuscino perché potessi appoggiarmi meglio.

«Pettinala», ordinò Lilí. «Guarda che capelli sconvolti ha. Non dirmi che hai ricevuto Carol in questo stato.»

«Non lo so», risposi. «Non mi ha detto niente.»

«Pensi sempre a Carol», disse la mamma arrabbiata. «Carol di qui, Carol di là. Il suo unico merito è che compare in televisione. Non è migliore di me in niente e neppure... di Laura.»

Lilí non rispose, non ne ebbe bisogno; Carol era al di sopra di tutto quello che sua figlia e sua nipote sarebbero mai arrivate a essere. La mamma uscì dalla stanza muovendo l’aria con la gonna e tornò con una spazzola. Mi pettinò con violenza, senza fare caso al fatto che qualche capello poteva cadere nella minestra. Certo non era come Carol, che versava il tè come una giapponese. Quando avevo già mangiato mezzo piatto, Lilí mi mise mezza pasticca in bocca. Me le infilava sempre in bocca con le sue dita corte e tozze, su cui teneva sempre le unghie un po’ lunghe per snellirle. Se avesse potuto mi avrebbe infilato la testa in bocca per vedere se le inghiottivo, ma siccome non poteva e la lingua, i denti, il palato e tutte le grinze e le cavità ai lati della lingua erano miei e nessuno poteva conoscere e dominare quel terreno, osai disobbedire a Lilí e nascondere la pasticca in un recesso della bocca. Anche se era inevitabile che si sciogliesse un po’, non avrebbe avuto lo stesso effetto che se avessi preso la pasticca intera.

«Finisci la minestra», disse Lilí.

Io non volevo parlare molto per evitare che la pasticca si muovesse o si disfacesse più in fretta.

«Non ne voglio più, sono molto stanca.»

«Sei stata tutto il giorno a letto, non puoi essere stanca.»

Lilí mi guardò con l’espressione che assumeva quando qualcosa le risultava sospetto, antipatico, quando la testa le suggeriva di non fidarsi. Per questo mi faceva sempre paura mentirle o farla arrabbiare, per l’espressione disumana del suo sguardo. Quando andavo a scuola invidiavo i miei compagni che erano capaci di mentire ai loro genitori senza preoccuparsi delle conseguenze, senza temere nessuna vera rappresaglia. Dicevano: «Mi hanno messo in punizione», senza paura, senza farci molto caso. Io non venivo messa in punizione, ma il fatto che nascondessi qualcosa a Lilí, che volessi agire per conto mio tenendola all’oscuro faceva sì che lei mi allontanasse dal mondo così incredibilmente piacevole che sapeva creare. Mi negava la sua voce canterina, i suoi abbracci, i suoi occhi neri pieni di stelline che rivolgeva alle persone che le piacevano coprendole di luce. Non piacere a mia nonna significava immergersi nell’oscurità e nella solitudine più assolute e per questo mi ero sempre sentita diversa dagli altri bambini, che non avevano una nonna come Lilí. Di solito ne avevano due e potevano metterle a confronto, e disponevano anche di un nonno e di un padre. Io non ne sentivo la mancanza e non riuscivo a immaginare come potesse essere la vita con tanti uomini in famiglia. L’esistenza di Alberto I e Alberto II mi sembrava abbastanza e quasi ero grata a Lilí per non aver permesso alla mamma di far entrare nessun Larry in casa. Al massimo li riceveva nei suoi appartamenti e da lì uscivano senza passare nelle altre stanze.

Chiusi gli occhi e appoggiai la testa sul cuscino. Non potevo muovermi senza far cadere il vassoio.

«Devi mangiare la pera», disse come per insinuare: “So che hai la pasticca in bocca, e quando l’aprirai per mordere la pera e masticarla dovrai inghiottirla, che tu lo voglia o no; non mi puoi ingannare perché sono Lilí, non sono una di quelle nonne tonte con le nipoti sveglie che fanno quello che vogliono. Non vuoi finire la minestra perché ti sei nascosta la pillola in bocca”.

«Dài, va bene così, lasciala dormire», intervenne la mamma. «Non penso che correrà fuori di casa.»

«Adesso ti preoccupi per lei», ribatté Lilí con la sua caratteristica voce infuriata, sfidandola.

Mia madre incrociò le braccia contemplando il lampadario. Lilí non la impressionava più.

«Tu dov’eri quando aveva quaranta di febbre?» chiese Lilí fuori di sé appoggiando le mani sui braccioli della sedia come se fosse sul punto di alzarsi. «E quando bisognava parlare con gli insegnanti, quando cadeva, quando bisognava cambiarle i pannolini, quando ha messo i denti? E dov’eri quando succedeva quello che succedeva? Eri a farti i fatti tuoi, con i tuoi amici, in Thailandia, a dipingere tutti questi quadri», disse riferendosi ai dipinti che adornavano quasi tutte le pareti della casa e che la mamma realizzava sempre quando tornava dalla Thailandia con mille nuove idee in testa.

Io continuavo a tenere gli occhi socchiusi e affondai ancora un po’ nel letto facendo attenzione a non far cadere niente.

«La grande idea è stata tua, non mia, io non avevo bisogno di niente.»

«L’ho fatto per te, perché non ti ritrovassi sola. Sei sempre stata un’incosciente e fuggi dalla vecchiaia, ma un giorno la vecchiaia ti costringerà a fermarti e allora ti ricorderai di tua madre e di quello che ho fatto per te.»

«Non fare la parte della madre perfetta. Tu lo hai fatto solo per te stessa. Io sono stata la tua scusa.»

«Basta così!» strepitò Lilí. «Ne parleremo in un altro momento.»

Mi accorsi che mi si avvicinava ancora di più e aprii gli occhi sentendo qualcosa di freddo sulle labbra.

«Bevi un po’ d’acqua», disse.

Le sue dita tozze e schiacciate si riflettevano in tutte le facce del vetro.

Cercai di non produrre saliva per non far sciogliere la pasticca. Quella era la mia preoccupazione principale. Sentivo parlare Lilí e la mamma mentre mi concentravo per evitare che la pastiglia si sciogliesse. E credo che mia nonna sapesse che le stavo nascondendo qualcosa.

Non potevo far altro che bere. Cercai di fare pressione sulla pasticca con il lato sinistro della lingua per evitare che entrasse in contatto con l’acqua ma in un modo che non mi obbligasse a contrarre il viso né a fare smorfie strane.

La sorsata d’acqua mise fine alle discussioni, anche se non fu sufficiente, a giudicare dall’espressione di Lilí. Aveva un sesto senso che la metteva in allarme se non aveva proprio tutto sotto controllo.

Le sorrisi leggermente, perché se avessi parlato avrei spostato la pasticca, e chiusi di nuovo gli occhi. La mamma portò via il vassoio.

«Forza, va bene così», disse.

Lo mise sulle ginocchia di Lilí, mi si avvicinò e mi diede un bacio in fronte. Mi distesi completamente e lei mi coprì con la trapunta.

Il suo bacio mi sembrò strano perché non mi aveva baciato spesso. Non era la tipica madre, c’era qualcosa che avevano le madri delle mie amiche che la mia non aveva e che non era facile da spiegare, ma comunque non era mai stata cattiva con me. Ricordo che quando ero piccola a volte metteva la musica e ballavamo e mi permetteva di darle lo smalto alle unghie. Andavamo a fare compere e al cinema se mi comportavo bene. Avevo capito molto presto che era un vantaggio comportarmi come voleva lei. Mi comprava bei vestiti perché fossi carina quando uscivamo, anche se a volte non potevo evitare di cadere, ammalarmi o uscire piangendo da scuola, e questo la faceva arrabbiare; perciò non volevo essere per niente al mondo un problema per lei. In quel momento lo ero e doveva esserne molto infastidita, ma doveva anche darle dispiacere vedermi in quella situazione.

Finalmente sentii le rotelle della sedia che andavano verso la porta e, prima di chiuderla, Lilí pensò di spegnere la luce.

«Sogni d’oro», disse come quando ero piccola, con la differenza che adesso io ero grande e lei vecchia, e non si fidava di me né io di lei.

Mi tolsi la pasticca dalla bocca con il dito e stavo per attaccarla al lenzuolo, ma ci ripensai e misi la mano sotto il materasso. Lì la pasta bianca che la pasticca avrebbe lasciato con lo sfregamento si sarebbe notata di meno. Feci in modo di passare bene il dito nella cavità in cui si era disfatta quasi del tutto. Avrei dovuto sospingerla tra le gengive e la guancia e non tra le gengive e la lingua, dove si concentra più saliva. Avrei dovuto asciugarmi la bocca e sputare; in ogni caso, avevo ingerito parte del sedativo e avvertivo un po’ di quella sensazione di benessere che ultimamente odiavo. Non era normale che non volessi sentirmi come se stessi galleggiando tra le nuvole. Non era normale che la cosa che desideravo di più fosse uscire di casa, sentirmi gelata e sola. Cosa avrebbe fatto Verónica se fosse stata nella mia situazione? Non si sarebbe mai ritrovata come me, non aveva paura di procurare un dispiacere a qualcuno. Non sarebbe stata atterrita all’idea di non ottenere l’approvazione di Lilí: sicuramente aveva discusso molte volte con sua madre. Sembrava che mai nessuno, né genitori, né insegnanti, le avesse detto cosa doveva fare.

Forse quello che avevo appena fatto con la pasticca dimostrava che ero confusa. Nessun pazzo sa di esserlo, e in fin dei conti io ero in quella stanza e a letto perché me lo aveva prescritto il dottor Montalvo, uno psichiatra. Non ero in quelle condizioni per un capriccio di mia nonna o di mia madre e non avevo motivo di sospettare del medico, e non avrei dovuto sospettare neanche di Lilí e della mamma perché quella situazione le sovraccaricava di lavoro. Di sicuro sarei stata meglio nel momento in cui avessi smesso di sentirmi costantemente minacciata e di pensare che le persone che mi amavano di più erano mie nemiche. La cosa più ragionevole sarebbe stata lasciarmi guidare da loro, ma sapevo che la mia pazzia me lo avrebbe impedito.

Mi svegliai all’improvviso. Prima di aprire gli occhi ero già sveglia. Mi accorsi del chiarore nella stanza perché le palpebre non sono abbastanza spesse per schermare tutta la luce. Su di esse notavo un bagliore rosato con un’ombra al centro, e percepii il movimento d’aria prodotto da un braccio che si muoveva. Ero distesa sul fianco sinistro, con la faccia rivolta verso la porta, l’abat-jour e quella figura. E feci quello che non avrei dovuto fare per nessun motivo: aprii gli occhi e vidi Lilí in piedi che mi osservava. Mi spaventai, per poco non gridai. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che l’avevo vista senza la sedia a rotelle. Non la ricordavo così enorme con il pigiama bianco e i capelli bianchi. Mi guardava senza battere ciglio, esaminandomi.

«Ho sete», dissi.

«Stai sognando, non hai veramente sete. Chiudi gli occhi.»

Le diedi retta. Mi girai dall’altro lato e chiusi gli occhi. Spense l’abat-jour e uscì. Io non osai muovermi, né aprire gli occhi nel buio; mi coprii la testa con la trapunta come quando ero piccola e avevo fatto qualcosa che sapevo avrebbe infastidito Lilí. Adesso sì che volevo addormentarmi: desideravo che il terribile spettacolo di mia nonna in piedi fosse solo un sogno. Non ci riuscii perché dormivo un po’ e quando mi svegliavo Lilí, alta, grande ed eretta, continuava a essere reale. E quando entrò la luce delle sette del mattino continuava a essere reale.

Mi alzai, aprii la finestra, respirai l’aria fresca e mi stiracchiai. Non avevo la testa stordita come al solito, ero confusa ma potevo muovermi, camminare, e mi consumava la voglia di uscire e di essere una delle tante persone che vanno al lavoro, a scuola, dovunque. Mi mancava il negozio e il contatto con la gente. Mi girai verso la porta, da un momento all’altro sarebbe potuta arrivare Lilí. Dormiva molto poco, si svegliava spesso. Sarebbe entrata con la sedia a rotelle o camminando? Aveva appena capito che mi aveva sempre fatto paura e che mancava poco perché smettesse di essere così. Aveva sempre pensato che si trattasse di rispetto e di un amore grandioso, ma aveva appena scoperto nella mia testa confusa che era soprattutto paura. Quante volte l’amore è paura e la paura è amore.

Non era il momento di correre fuori, non avevo abbastanza forza, non ero pronta. Non potevo buttare all’aria tutta una vita, ancora non ero capace di espormi in strada in pigiama e con i capelli arruffati, avevo sempre voluto essere perfetta. E inoltre, se non ero pazza, sarebbero state due contro una. Chiusi la finestra e tornai a letto. Non sapevo come avrei potuto sopportare un’altra mattinata chiusa lì dentro con Lilí che mi sorvegliava. Fino a quel momento non mi ero chiesta come faceva a vestirsi e pettinarsi senza di me. Normalmente lo facevo io prima di scendere in negozio e davo per scontato che Petre la aiutasse a farsi la doccia di sera prima che io tornassi dalle lezioni di danza. Adesso ritenevo assolutamente plausibile che lo facesse da sola.

Naturalmente, se Verónica non fosse entrata nella mia vita e non fosse successo niente di tutto ciò, io avrei continuato a essere la stessa, non avrei provato curiosità, non mi sarei fatta prendere dalle ossessioni, non mi sarebbe venuto un esaurimento nervoso e il mio mondo non si sarebbe sgretolato. Perché, qualunque cosa fosse accaduta, il mio rapporto con la mia famiglia non sarebbe stato mai più lo stesso, neppure con Alberto I e Alberto II, che erano andati subito a raccontare a Lilí che chiedevo di mio padre. E non potevo aspettarmi alcun aiuto neanche da Carol.

Mi rigirai nel letto fino alle otto. A quel punto iniziai a sentire Lilí che chiamava mia madre pigrona. Il negozio apriva alle dieci, ma se non si fosse svegliata non sarebbe uscita prima delle undici.

Entrò sulla sedia, che passava a stento tra il letto e l’armadio, e che manovrava lei stessa girando le rotelle. Si avvicinò alle finestre e aprì le tende con una certa violenza. Come recitava bene la parte dell’invalida, lo faceva per farmi pena? Forse quando aveva avuto il problema alle ginocchia aveva preso gusto al fatto che io l’accudissi e al doppio gioco, a sembrare più debole di quanto non fosse in realtà. Era sconcertante vederla stendere il braccio al massimo e stare così scomoda senza che ce ne fosse bisogno.

«Come hai dormito?»

Finsi di essere stordita e assonnata come quando prendevo la pasticca, senza voglia di alzarmi.

«Bene. Ho sognato di vederti in piedi accanto al mio letto.»

«Ah, sì?»

«Mi sono spaventata perché mi sembravi più alta di quando camminavi.»

«Speriamo che adesso tu non abbia le allucinazioni.»

Non dissi niente. Mi alzai per andare in bagno lentamente come quando prendevo la pasticca, appoggiandomi molto al letto e tenendo la mano sul muro mentre camminavo. Quando tornai l’armadio era aperto e Lilí stava esaminando i vestiti appesi alle grucce uno a uno. Questo mi provocò un bruttissimo presentimento. Non chiesi niente. Mi sedetti sul letto.

«Perché non cerchi di fare colazione qui?» chiese la mamma entrando come una furia e mettendo il vassoio sul tavolino rotondo accanto alla finestra, con le poltroncine imbottite di velluto rosa dove io e Carol avevamo chiacchierato mille anni prima.

Mi alzai dal letto e mi lasciai cadere sulla poltrona. Davanti a me avevo un bicchiere di latte, due fette di pane con il burro e un’arancia, oltre a un bicchiere d’acqua.

«Quanta roba!» dissi, anche se in realtà avevo fame.

«Come al solito», replicò la mamma, che indossava un vestito lungo di cotone con una grossa cintura sui fianchi e sopra un golfino abbottonato. Si era messa un paio di stivali di camoscio tra i più cari del negozio. Non le dissi niente, si supponeva che non fossi in condizione di accorgermi di quei dettagli. Quando stavo bene a volte dovevo mostrarle il prezzo di quello che prendeva al negozio. Allora si arrabbiava con me, ma io preferivo ingraziarmi Lilí piuttosto che lei.

Lilí fece un enorme sforzo per uscire e io ne approfittai per mangiare tutto di gran gusto; sembrava che stessi facendo il pieno di carburante, mi sentivo sempre più energica e in forze. La mamma si intratteneva guardando l’armadio e provandosi qualche mio vestito, anche se il mio stile non le piaceva, le sembrava troppo classico. Io però non ero capace di vestirmi come lei, come se vivessi in una roulotte a Ibiza. Quando Lilí comparve di nuovo, guardò il vassoio, dove non era rimasta neanche una briciola e mi chiese di avvicinarmi a lei. Mi piegai vicino alle sue gambe: le sue dita e le sue unghie con lo smalto rosa non mi misero la pasticca sulla punta della lingua come le altre volte, ma la spinsero fin dentro. Sentii le sue dita sulla lingua. Mi girai verso il vassoio per bere e nel tragitto di due passi feci quel che potei per spostare la pasticca dove avevo pensato. Non mi fu possibile spingerla tanto di lato, ma riuscii a chiudere quel canale con la lingua per evitare che l’acqua la spingesse fino alla gola. Ero decisa a continuare a fare la pazza, ma rendendomi conto di quello che succedeva.

Mi girai verso di lei con il bicchiere in mano.

«Bevi di più», disse. «La medicina va presa con un bicchiere intero di acqua.»

Bevvi per non farla arrabbiare e per dissipare i suoi dubbi; quando mi girai per posare il bicchiere sul tavolino spinsi la pasticca con la lingua tra le gengive superiori e la guancia, un anfratto più sicuro della parte inferiore perché la saliva ci arrivava meno. E all’improvviso incrociai lo sguardo spento di mia madre, che doveva sicuramente aver visto quel movimento della bocca. Lo avrebbe messo in relazione alla pasticca? Lo avrebbe detto a Lilí? Tenni a freno la voglia di supplicarla con lo sguardo di non dire niente, che fosse un segreto tra madre e figlia, e invece le chiesi se si sarebbe messa quello che stava prendendo dalle stampelle. Parlavo piano anche se, nonostante la pasticca, ero in condizioni di parlare quasi normalmente. Non mi rispose.

«Se ti comporti bene, forse andremo a fare un viaggio», disse Lilí dietro di me.

La mamma teneva appese sul braccio varie camicette e un maglione bianco di angora che conservavo per le occasioni speciali e che non si poteva indossare con i vestiti neri perché li riempiva di peli. Non si poteva neanche mettere in lavatrice perché si sarebbe completamente rovinato. Aveva bisogno di cure speciali che in quel momento non mi importavano niente. Al diavolo il maglione di angora.

«Non sto ancora bene», dissi guardando mia nonna e cercando di muovere la bocca il meno possibile.

«Per questo devi rimetterti in un altro posto, al sole e all’aria aperta.»

Mi lasciai cadere sulla poltrona di botto.

«Quasi non riesco a camminare.»

«Noi e il dottor Montalvo ti aiuteremo», disse mia madre prendendo a casaccio vestiti con i quali non si sarebbe potuto fare alcun abbinamento accettabile. Neanche questo importava. Non volevo che mi portassero da nessuna parte.

«Quando partiamo?»

«Quando lo dirà il dottore», rispose la mamma lasciando il mucchio di vestiti sul letto. «Vedrai, è un bellissimo posto. Sarà una bella vacanza.»

«Dio santo, Greta!» gridò Lilí con la sua voce armoniosa. «Non c’è bisogno di mettere a soqquadro la casa.»

Mi alzai e mi misi a letto, facendo cadere a terra parte dei vestiti. Si supponeva che fossi sempre mezza stordita.

«Bisognerebbe cambiare l’aria in questa stanza», disse Lilí. «Stenditi sul divano e poi ti riporteremo noi in camera.»

La mamma non volle perché da addormentata io pesavo come un cadavere: avrebbero avuto il tempo di far cambiare l’aria quando la stanza fosse stata vuota.

Ascoltai le sue parole supina a occhi chiusi, esattamente come un cadavere, con la voglia di togliermi dalla bocca quello che rimaneva della pasticca.

«Chiudi la tenda», disse Lilí.

«È uguale», replicò la mamma. «Quando si addormenta, si addormenta.»

Sospirai e per poco non mi addormentai veramente nei minuti che ci vollero loro per raccogliere i vestiti e le scarpe e uscire. Non aprii gli occhi appena sentii la porta perché mi sembrava di avvertire la presenza di Lilí, quell’energia che emanava dalla sua persona e che alla gente piaceva tanto, come se nel suo corpo ci fosse magma, magnetite. Inoltre non avevo udito distintamente le rotelle che si spostavano verso l’uscita: era un tragitto breve ma sufficiente a fare rumore. Mi sdraiai sul lato sinistro dandole le spalle e rimanemmo così circa cinque minuti. Cercavo di respirare sempre più forte mentre il mio cuore faceva quasi muovere il letto. Finalmente sentii le rotelle e di nuovo la porta e l’energia diminuì un bel po’. Eppure, prima di commettere un errore, mi girai dall’altra parte e aprii appena gli occhi. Non c’era nessuno. Mi misi il dito in bocca, tirai fuori la pasticca, la spalmai sul materasso e mi pulii la bocca come meglio potei; sputai quel che rimaneva nella mano e passai anche quella sul materasso, che era l’ultimo posto dove avrebbero guardato. Mi sciacquai la bocca con un sorso d’acqua e ripetei l’operazione. Anche se avevo un po’ di sonno, mi sentivo sempre più padrona di me. Pensai cosa mi sarei potuta mettere se fossi fuggita, perché la mamma aveva lasciato l’armadio mezzo vuoto. Non aveva chiuso le ante e vidi un paio di pantaloni di crêpe neri molto ampi, che dovevo indossare con i tacchi alti per evitare che strusciassero a terra e che non andavano bene. Per fortuna non aveva visto le scarpe da ginnastica che usavo per andare a piedi a danza. Mi alzai senza far rumore e le nascosi sotto il letto. La giornata era bellissima, con il cielo molto azzurro in certi punti e leggermente grigio in altri a causa dell’inquinamento. Le finestre delle case di fronte sembravano diamanti giganteschi. Avevo già una maglietta e un maglione e cercai disperatamente un paio di jeans: con i pantaloni di crêpe non avrei potuto correre, sarei caduta. Mi sarebbe servito anche un soprabito, un parka o il giaccone alla marinara. Non c’erano. Tirai fuori dal cassetto un paio di calzini spessi e un paio di mutande; me le cambiai e quelle sporche le spinsi sul ripiano di sopra, in un angolo. Misi i calzini nelle scarpe da ginnastica. Anche se i miei gesti potevano sembrare quelli di una folle, non mi sentivo né pazza né confusa; guardando il cielo avevo la stessa allegria di sempre e la voglia di tornare alla mia vita normale. Non mi sentivo diversa, quelle che mi sembravano diverse erano mia madre e mia nonna. Erano le stesse e non lo erano. Non mi restava da fare altro che uscire con i pantaloni del pigiama, con il maglione sopra non si sarebbero notati tanto. Erano di flanella con dei pupazzetti disegnati: erano un regalo di Lilí. E avrei avuto bisogno di soldi. Il posacenere del salotto, quello che usava Ana quando ci veniva a trovare, era pieno di monete. Appena arrivava, Ana le rovesciava e lasciava lì la sigaretta a consumarsi. E dove sarei potuta andare? Non sapevo neanche dove trovare Verónica. Avrei potuto chiamare una delle mie amiche, anche se ero sicura che l’avrei messa nei guai. Sarei potuta andare al conservatorio, ma lì conoscevano mia nonna, la adoravano e si sarebbero fatti convincere da lei che non ci stavo con la testa. Lilí era molto superiore a me. Non dovevo rivolgermi a nessuno che conoscesse anche lei. Mi dissi che mi sarebbe venuto in mente qualcosa se fossi riuscita a uscire da quella stanza, perché quando il dottore sarebbe arrivato e mi avrebbe esaminato le pupille con la sua luce ottica, avrebbe capito che non prendevo le medicine.

Ripassai bene dove avevo lasciato tutto e mi coricai con una certa sicurezza perché avevo i vestiti per uscire da lì. Adesso dovevo solo pianificare il modo di farlo. «Quando la stanza sarà vuota», avevano detto. Lì c’era tutto quello che avevo, i vestiti, i libri, la scrivania. Tutti i miei effetti personali entravano in uno spazio di quindici metri quadrati. Se me ne fossi andata, non avrei più ereditato la pelletteria e avrei buttato a mare tutto il lavoro fatto. La realtà era che lavoravo molto e mia nonna mi pagava appena con la scusa che era tutto mio. In quel momento mi resi conto che in realtà niente era mio e che se me ne fossi andata avrei dovuto ricominciare da zero. La scrivania l’avevo comprata io; era molto carina, di legno intagliato, mi dispiaceva pensare che non l’avrei rivista e che non mi sarei mai più seduta lì per tenere la contabilità del negozio o per valutare le mie allieve e preparare l’orario dei corsi. A volte mia nonna, quando passavo ore concentrata sulla scrivania, mi portava un bicchiere di latte e rimaneva a guardare quello che facevo. Avvicinava anche una delle sedie imbottite di velluto rosa alla scrivania e mi dava il suo parere, oppure si limitava a guardarmi e mi diceva: che belle dita che hai. E adesso stavo pensando come fuggire da lei, una cosa che non avrei mai immaginato potesse accadere.

Sentii la carrozzella che si avvicinava alla porta, anche se ero sicura che girasse per l’appartamento camminando normalmente. La sedia a rotelle mi faceva innervosire. Dovevano essere le dodici e mezzo e feci di nuovo finta di dormire. E quando arrivò vicino al letto finsi di svegliarmi. Mi spostai i capelli sul viso senza dare nell’occhio, perché non volevo che mi studiasse la faccia.

«Che ore sono?»

«Mezzogiorno. Vuoi un po’ d’acqua?»

Feci segno di no. Non mi fidavo. Teneva sulle ginocchia dei lunghi ferri da maglia e un gomitolo di lana bianca.

«Ti sto facendo un maglione», disse.

«Non so se mi rimane abbastanza da vivere per indossarlo», replicai separando molto le sillabe.

«Non dire sciocchezze. Tornerai come nuova e io avrò il maglione pronto.»

Non avevo idea che sapesse lavorare a maglia: non aveva mai avuto il tempo di fare la brava donna di casa, doveva provvedere a sua figlia, a me e a sé stessa e non era stato sempre facile, come il periodo in cui non si vendeva assolutamente niente e aveva dovuto abbassare i prezzi del cinquanta per cento perdendo molti soldi, finché non le era venuto in mente di farsi pubblicità su alcune guide turistiche e la vita era cambiata. E anche quella volta in cui la mamma era sparita per quattro mesi senza dare segni di vita e lei aveva dovuto prendersi cura da sola di me. Io avevo circa otto anni e una volta l’avevo sorpresa a piangere e a chiedersi a voce alta cosa aveva fatto per meritarsi una figlia così ingrata. Io avevo cercato subito di non renderle le cose più difficili e di non essere un peso per lei, per bilanciare tutti i problemi che le dava la mamma. Era tornata dopo quattro mesi come se non fosse successo niente, con una collezione di quadri dipinti da lei e con i pidocchi, che ci aveva attaccato. Non potevamo immaginare cos’era la Thailandia, le sarebbe piaciuto nascere lì e ci sarebbe rimasta a vivere se non fosse stato per noi, ci sarebbe tornata appena avesse potuto, così aveva detto. Lilí aveva appeso i quadri alle pareti e non le aveva rimproverato niente, come se non fosse successo. «Quando sarai grande dovrai prenderti cura di lei», mi aveva detto. «È un disastro, ma è la mia unica figlia e sarei capace di qualunque cosa per lei, di qualunque cosa.»

Adesso tutto questo apparteneva a un’altra vita, non aveva niente a che fare con il presente.

Lilí prese i ferri, inforcò gli occhiali da presbite e iniziò a contare i punti.

«Come quando eri piccola, ti ricordi? Tu facevi i compiti e io maglioni e sciarpe.»

Rimasi a guardarla con gli occhi spalancati: non l’avevo mai vista fare maglioni né sciarpe, non sapevo neppure che avesse quei ferri. Pretendeva che ricordassimo una scena falsa, falsa come quella che avevo davanti. A quell’epoca Lilí veniva a prendermi a scuola e mi portava al negozio; nello stanzino sul retro mi aspettava un panino avvolto nella pellicola trasparente e, mentre lo mangiavo, mi mettevo a fare i compiti. Da fuori arrivava il mormorio della clientela sovrastato dalla voce argentina di Lilí. Lo stanzino odorava di cuoio e di scatole di cartone e a volte invece di studiare mi lasciavo affascinare dalle chiusure dorate delle borse e dalle decorazioni delle scarpe eleganti. Dopo un’ora Lilí o la mamma, se non era in viaggio, mi accompagnavano a danza in macchina, dove avevo lezione fino alle nove tutti i giorni sotto la guida di Madame Nicoletta, la quale diceva che avevo un futuro come ballerina e che aveva contribuito a instillare in Lilí la fantasia di poter diventare la nonna di una delle prime ballerine del Balletto Nazionale.

Madame Nicoletta l’avevo sempre vista avvolta in turbanti e foulard di seta sui fuseaux, in modo che i capelli e il corpo quasi non le si vedevano. L’avevo sempre vista riflessa negli enormi specchi della sala come se fluttuasse, come se ascendesse fino al soffitto. Il fatto era che io, dentro di me, sapevo di non essere straordinaria, di essere piuttosto limitata, e quando avevano iniziato a respingermi a un provino dopo l’altro le avevo chiesto perché non fosse stata sincera con mia nonna e con me, e a quel punto lei mi aveva abbracciato tra i suoi foulard. «Per te è stato molto meglio così, credimi.» Alla fine era andata in pensione e io avevo preso il suo posto in conservatorio. E adesso mi sembrava di capire ciò che aveva tentato di dirmi. Lilí mi aveva trattato meglio durante il lungo periodo in cui aveva creduto che io l’avrei resa famosa come la nonna di una grande stella della danza. Quando il sogno era finito, io ero abbastanza grande per difendermi da lei.

Lilí non mi aveva mai trattato male, Madame Nicoletta esagerava, anche se evidentemente aveva visto qualcosa in lei o in me che mi sfuggiva.

«Quando partiamo?»

«Quando il dottore avrà tempo verrà a visitarti e, se sei in condizione di viaggiare, partiremo. Nel primo pomeriggio o stasera. Non importa, abbiamo già i bagagli pronti. Vedrai come sarà bello.»

Appoggiai la testa sul cuscino e chiusi gli occhi, valutando con chi mi sarebbe stato più facile fuggire. Alle cinque Greta avrebbe sostituito Lilí. Greta era più agile e non mi sarebbe stato facile arrivare alla porta; tra l’altro avrebbe anche potuto essere con Larry e in quel caso sarebbero stati due contro uno. Lilí ci avrebbe messo qualche secondo ad alzarsi dalla sedia; inoltre per il peso e l’età non sarebbe riuscita a correre. Non conveniva neanche far passare il tempo e permettere che arrivasse il dottore, perché a quel punto non avrei potuto fare niente. Petre poteva essere un problema e, anche se non si sentiva neanche un rumore, dovevo essere certa che non ci fosse.

«Petre potrebbe aiutarmi a fare una doccia prima di partire», dissi.

«Petre non c’è. Ti aiuterà Greta.»

Sarei potuta saltare giù dal letto, prendere le scarpe da ginnastica e il maglione piegato sulla mensola centrale dell’armadio. O avrei potuto alzarmi sbadigliando, mettermi il maglione, prendere le scarpe e uscire di corsa. Lilí ci avrebbe messo qualche minuto a capire che stavo fuggendo e a reagire. Io avevo voglia di saltare, di volare. Prima che potesse avvertire il portiere sarei già arrivata in strada. Mi sarei messa le scarpe mentre scendevo le scale. Forse non avrei avuto tempo di prendere le monete del posacenere del salotto, ma per come stava la situazione quello era il meno. Dovevo provarci? Dovevo alzarmi? La sedia a rotelle di Lilí era bloccata dal letto: anche se si fosse alzata di colpo avrebbe dovuto spostarla per uscire e questo mi avrebbe dato il tempo di arrivare alla porta. La cosa migliore però sarebbe stata non allarmarla all’inizio.

Scivolai verso il bordo e spostai piano la trapunta, a fatica. Il dado era tratto. Lilí mi guardava fare. Mi sedetti sul letto come se fossi sfinita per lo sforzo e con il piede tirai verso di me le scarpe. Avevo cambiato idea, me le sarei messe subito. Mi piegai e tirai fuori tranquillamente i calzini. Me le infilai. Lilí dall’altra parte non poteva vedere quello che facevo. Lasciai i calzini tra le cosce.

«Si può sapere cosa stai facendo?» chiese prendendo probabilmente in considerazione la possibilità di alzarsi.

Girai la testa verso di lei. Avevo voglia di piangere, perché mi faceva così tanta paura?

«Niente. Voglio mettermi un po’ seduta.»

Ricominciò a sferruzzare e a quel punto mi alzai di scatto e afferrai il maglione dall’armadio. Lilí lanciò un grido, diresse uno dei ferri verso di me con il braccio teso e, proprio come avevo previsto, cercò di alzarsi.

Non persi tempo con il posacenere. Aprii la porta, la richiusi e saltai volando mentre mi infilavo il maglione. Alla fine avevo lasciato i calzini a terra in camera mia. Passai camminando normalmente davanti al portiere, che mi guardò confuso. Mi chiamò, certamente voleva chiedermi se stavo meglio. Lo salutai con un cenno della mano affrettando il passo. Corsi più veloce che potei, ma non ero abbastanza in forze. Scesi lungo calle Goya correndo come se stessi facendo jogging. Sudavo e avevo paura di svenire: avevo preso tante medicine e avevo smesso di prenderle così in fretta... No, non dovevo pensarci. Una mano mi spingeva, i veli di Madame Nicoletta mi rendevano leggera come una piuma. Quanto più lontano fossi riuscita ad arrivare, meglio sarebbe stato. Magari avessi saputo dove viveva Verónica, ma non ero mai riuscita ad approfondire questi aspetti della sua vita. Avevo sete. E se avessi cercato suo padre? Si chiamava Daniel e la sua fermata dei taxi principale, a quanto mi aveva detto Verónica, era in plaza Colón. Mi voltai. Ero sicura che Lilí e Greta fossero già salite in macchina e che sarebbe stato molto facile per loro localizzarmi. Avrebbero potuto raccontare a qualunque poliziotto che ero in cura e che ero fuggita. Non avevo neanche la carta di identità con me, perciò il poliziotto non avrebbe dovuto fare altro che vedere la mia espressione per dubitare di me e dare retta a loro.

Dovetti appoggiarmi al muro del Museo delle Cere per prendere fiato e individuare la fermata. Non avevo tempo da perdere. Decisi di dirigermi verso la più vicina e praticamente mi fiondai su due tassisti che chiacchieravano con gli sportelli delle macchine aperti.

«Scusate, conoscete un tassista che si chiama Daniel? È molto urgente.»

«Daniel? Daniel? E il cognome?»

Era incredibile, Verónica sapeva tutto di me e io non conoscevo neppure il suo cognome. Feci spallucce. «È un uomo alto e di bell’aspetto, con gli occhiali. Ha una figlia che si chiama Verónica.»

«Ah, Daniel!» esclamò uno dei due.

«È un caso di vita o di morte, può trovarmelo?»

Mi guardarono dall’alto in basso e poi si guardarono tra di loro. Erano stufi delle situazioni strane e io ero strana. Mi passai le mani tra i capelli per sistemarmeli un po’.

«Devo fare una corsa», disse l’altro.

«La prego», implorai quello che era rimasto. «Voglio solo che gli dica che Laura, l’amica di Verónica, è in pericolo e ha bisogno di lui. Lui capirà.»

«Dovrei chiamare la centrale e non so se vorranno dargli un messaggio così personale.»

«È semplicissimo, se lui vuole ignorarmi lo farà», dissi guardandomi intorno, esaminando le macchine che ci passavano accanto.

Lo fece. Chiamò la centrale. Un passeggero salì sul taxi e lui mi augurò buona fortuna dal finestrino.

Non sapevo cosa fare, se nascondermi per evitare che Lilí e Greta mi vedessero o farmi vedere nel caso in cui il padre di Verónica fosse arrivato. Decisi di rifugiarmi nell’ingresso di una banca, che era abbastanza ampio da poter ospitare vari mendicanti al coperto per la notte. Era difficile sapere se la Mercedes sarebbe passata e se mi avrebbero visto, ma dovevo aspettare, dovevo sperare che Daniel volesse darmi una mano. Sicuramente anche lui era tormentato dal dubbio non sapendo se era mio padre o no, e la curiosità lo avrebbe solleticato. Ma se non fosse venuto? Avrei dovuto pensare a dove passare la notte. Sarei potuta andare a casa dei genitori di Pascual e spiegare loro la mia situazione, ma anche a Lilí presto o tardi sarebbe venuta in mente quella possibilità e sarei dovuta andare via, perché Lilí era convincente e molto sveglia e soprattutto era mia nonna, per cui non era ragionevole che qualcuno pensasse che una nonna volesse fare del male a sua nipote.

Dopo venti minuti, quando avevo praticamente già deciso di chiedere a qualcuno i soldi per la metropolitana, vidi uno che sembrava Daniel che andava da una parte all’altra lungo la fila dei taxi e corsi verso di lui. Indossava un paio di jeans, un parka sbottonato e, sotto, una camicia bianca.

«Daniel?» dissi quando gli arrivai vicino.

Mi guardò dall’alto in basso, come i suoi colleghi, molto serio, un po’ spaventato.

«Laura?»

Gli tesi la mano, gelata, per il freddo e perché non mi scorreva il sangue nelle vene. In ogni caso aveva smesso di spaventarmi l’idea di vedere arrivare la Mercedes verso di me.

Daniel si tolse il parka e me lo mise sulle spalle.

«Ho il taxi alla fine della fila. Andiamo.»

Camminammo in silenzio e velocemente. Quando arrivammo mi tolse la giacca e la mise nel portabagagli. Mi disse di sedermi davanti perché non poteva smettere di lavorare. Chiuse gli sportelli e si girò verso di me.

«Tu sei...?»

«Sì, sono Laura. Verónica dice che potrebbe essere mia sorella e che lei potrebbe essere mio padre.»

«Non so se ti ha detto anche che io non sono d’accordo con questa teoria. I miei figli sono Verónica e Ángel. Mi piacerebbe che questo fosse chiaro prima di proseguire.»

Annuii.

«Vedo che hai bisogno di aiuto. Cosa ti è successo?»

Gli chiesi di andare via di lì perché mia nonna avrebbe potuto individuarci da un momento all’altro.

Mise la macchina in moto. «Io non ho ancora mangiato e sicuramente neanche tu.»