17.
VERÓNICA VUOLE SAPERE
Era un ufficio piccolo, con i séparé di cartongesso, dipinto di grigio e bianco. Sulla scrivania della segretaria c’era una stella di Natale su un piatto di ceramica con un po’ d’acqua. Su un tavolino pieghevole, una macchina del caffè e delle tazze; di fianco un archivio metallico con la chiave nella serratura. Alcune foto della stessa segretaria sull’archivio.
L’investigatore capo si chiamava Martunis ed era difficile che potessi incontrarlo senza appuntamento. Chiesi alla donna se era la sua segretaria.
«María, la sua assistente», rispose.
Potevo raccontarle di cosa si trattava e mi avrebbero contattato loro.
Le dissi che mi chiamavo Verónica, che ero la figlia di Roberta Morales e che volevo solo salutare l’investigatore. Mi ascoltava senza smettere di lavorare al computer con le mani grandi e forti. Forse stava consultando la scheda di mia madre.
«Salutarlo?»
«Sì, mi piacerebbe conoscerlo.»
Mi guardò apertamente per la prima volta, con occhi che non si capiva se erano castani, verdi o azzurri. Non erano brutti, ma non avrei neanche osato dire che erano belli.
«Va bene, siediti un attimo lì», disse indicando due poltroncine grigie accanto alla parete. «Vedrò cosa posso fare.»
Davanti alle poltroncine c’era un tavolo basso con qualche rivista e questo significava che evidentemente a volte i clienti dovevano aspettare e forse si sentivano a disagio a incontrare un conoscente in un posto del genere. Sull’altra poltroncina c’era un uomo con due ciuffetti di capelli ai lati della testa. Indossava una polo granata e dalle maniche uscivano due braccia bianche e grassocce, senza neanche un po’ di peli. Portava un orologio grande come un pugno e i jeans indicavano che quello per lui era un giorno di vacanza. Aveva la fede. Le riviste erano così rovinate che forse erano state sfogliate anche da mia madre anni prima, mentre ripassava ciò che avrebbe detto all’investigatore o all’assistente.
La donna fece una telefonata e parlò a voce così bassa che era impossibile capire quello che diceva. Non aveva neppure bisogno di coprirsi la bocca con la mano. Quando riagganciò, si alzò dalla scrivania e venne verso di me con un paio di scarpe con delle strisce di pelle argentata e un tacco sottile che affondava nella moquette, jeans elasticizzati aderenti e un top rosso semiaperto sulla schiena, sui fianchi e sul petto. Camminava con una postura eretta e sembrava felice che, mentre si muoveva, i capelli lunghi, neri e ricci le finissero su una spalla e sul viso e le si impigliassero nella spallina del reggiseno. Come se lottasse contro quella forza della natura che era parte di lei.
Probabilmente quando arrivò davanti a me io la stavo seguendo a bocca aperta, con una rivista tra le mani sulla poltroncina grigia. Rimase a guardarmi con le gambe distanziate sui tacchi argentati come se stesse per colpirmi. Sicuramente con quelle grandi mani aveva impugnato più di una pistola e sapeva sparare; sicuramente si ricordava di mia madre.
«Sarà qui tra mezz’ora. Puoi andartene e tornare.»
«Credo che aspetterò», dissi.
Si spostò i capelli di lato e li legò in un nodo setoso. Le stavano meglio sciolti che raccolti: facevano sembrare la sua faccia più piccola e le nascondevano un po’ la mascella.
«Forse sarà più di mezz’ora», aggiunse. «Ti annoierai.»
«Ho molte cose a cui pensare», replicai con sincerità. Avevo bisogno di stare in un posto che non mi ricordasse niente e in cui la mente facesse il suo lavoro senza distrazioni.
«Come vuoi», concluse, e tornò alla scrivania sciogliendo il nodo e lasciando che la chioma le fluttuasse sulla schiena. Era orgogliosa del suo corpo e avrei giurato che quando non era in ufficio era in palestra o a rimirarsi allo specchio.
I miei genitori si erano conosciuti in spiaggia casualmente, non si erano mai visti prima. Le loro vite non avevano niente in comune. Mio padre studiava per diventare operatore turistico e mia madre lavorava al centro commerciale. Le loro famiglie venivano da posti molto diversi. Quella di mio padre dalle Canarie, quella di mia madre dal Levante. Quante cose si erano dovute incastrare nell’universo perché loro esistessero e poi si incontrassero e nascessimo io e mio fratello. Quanti milioni di occhi, di bocche, di ossa, di cellule, quante migliaia di milioni di persone erano state necessarie perché venissimo al mondo e, prima di loro, quante migliaia di milioni di animali, di batteri, di anni, di tenebre... e di attesa che arrivassimo. Che senso poteva avere, allora, la morte di una bambina?
Basta con le divagazioni. Con un’assistente del genere, e visto che si chiamava Martunis, mi ero fatta l’idea che l’investigatore fosse robusto, con un accento dell’Est e le braccia tatuate. Non avevo mai parlato con una persona così, per cui dovevo usare parole molto precise. Frasi concise e chiare, senza mescolare la tragedia e il dolore, i miei sentimenti con le informazioni obiettive. L’uomo che aspettava accanto a me si alzò.
«Ho promesso ai miei figli di portarli allo zoo. Rischio di fare tardi. Torno domani», disse passandosi le mani tra i ciuffetti di capelli.
Non appena fu uscito, María mi fece un cenno e passammo dall’altra parte del pannello divisorio, che doveva essere l’ufficio del capo. «Non sopporto gli uomini gelosi», disse, e mi chiese di parlare con lei come se fosse Martunis, perché lui non sarebbe tornato prima di quindici giorni.
«Credo che mia madre vi abbia incaricati di cercare mia sorella.»
Si prese una mano con l’altra dando una sensazione di forza e fiducia in sé stessa. Le mani erano l’anima del suo corpo come per altri lo sono gli occhi o la bocca.
«Mi pare di capire che tua madre non sappia che sei venuta.»
Feci cenno di no con la testa. María aveva un bello strato di trucco che le copriva le cicatrici di vecchi brufoli.
«Volevo solo chiedergli se mia sorella è morta alla nascita o è viva. Il signor Martunis lo sa?»
«Perché non lo chiedi a tua madre?»
«Crede che io non sappia niente. L’ho scoperto per caso. A quanto ne so io, in questo momento solo lei, neanche mio padre, è sicura che sia viva e che gliel’abbiano portata via dopo il parto.»
«È una questione privata, di confidenza tra padri e figli, tra marito e moglie. Non posso metterci becco. Il nostro compito è raccogliere informazioni e consegnarle ai nostri committenti.»
«E avete consegnato a mia madre la foto di una bambina sui dodici anni con un pallone tra le mani?»
Si stava spazientendo.
«Mia madre è in ospedale. La opereranno al cuore, è una questione di vita o di morte. Devo aiutarla. Se sua figlia è morta vorrei aprirle gli occhi con qualche prova, perché entri tranquilla in sala operatoria.»
«Fai molta attenzione», disse. «L’intuizione di una madre è quasi sempre un dato obiettivo e io, per quello che so, direi che la ragazza è più viva che morta. Purtroppo non abbiamo potuto continuare a indagare. Abbiamo cercato di farci bastare il denaro il più possibile, ma questo è un lavoro. E quando dico lavoro non mi riferisco a chissà quale giro di affari, ci dà appena da vivere.
«Non posso affermarlo con certezza», proseguì, «ma probabilmente eravamo riusciti a individuare la scuola della bambina, si chiamava Laura.»
«E le avete scattato la foto.»
«No, quella gliel’ha fatta tua madre. Passava tutta la giornata aggirandosi intorno alla scuola, osservandola durante la ricreazione, chiedendo ai professori, finché qualcuno fece scattare l’allarme e ritirarono la bambina da un giorno all’altro, il che ci diede la conferma che eravamo sulla pista giusta. Avremmo potuto continuare a indagare, ma tua madre ci chiese di fermarci, non poteva sostenere le spese e inoltre era uno straccio dal punto di vista emotivo, come se non sapesse cosa fare con la verità.»
«Come si chiama la scuola?» chiesi impaurita.
Alzò lo sguardo verso il soffitto cercando la risposta. «Non me lo ricordo. Dovrei leggere il rapporto.»
Si alzò e diede uno sguardo a un orologino da polso con un bracciale d’oro sottile. Scosse la testa, era più tardi di quanto pensasse.
La ringraziai con la sensazione del nocciolo di pesca che mi saliva e scendeva nella gola.
«Sapete più cose sul conto di mia madre di quante ne sappia io. Credo che abbiate avuto più fiducia in lei di mio padre.»
«Non essere troppo severa con te stessa, so cose incredibili di molta gente. Cose che non potresti neppure immaginare. Ma conoscere una persona è molto più difficile. La si conosce nel cuore, non nella testa», disse sedendosi al suo posto.
Apprezzai la franchezza di María e il fatto che fosse leggermente sentimentale. Dovetti andare in bagno a fare pipì, a rinfrescarmi la faccia e a guardarmi allo specchio per tornare in me in qualche modo. Costeggiai la sua scrivania avviandomi all’uscita. Stava parlando al telefono e le feci un cenno di saluto con la mano, ma a quel punto lei allungò la sua e me l’afferrò per il polso senza smettere di parlare. Verificai che la sua mano era davvero forte.
Mise in attesa per qualche secondo chiunque fosse all’altro capo della linea.
«La scuola si chiama Esfera. Questo è l’indirizzo.»
E proseguì con la conversazione.
Aveva già smesso di ascoltarmi quando la ringraziai.
La Esfera doveva essere la scuola dove ci aveva portato nostra madre quel pomeriggio d’inverno, forse a gennaio, di sette anni prima. Né io né Ángel sapevamo cosa ci facessimo lì. Mia madre era rimasta a contemplare il campo di basket per un’ora come in trance. Era stato un pomeriggio strano, una di quelle situazioni che occupano per sempre un posto nella mente perché non assomigliano a nient’altro. Una pazzia, che adesso aveva acquistato pienamente senso. Quanti pazzi e quante pazzie ci sono che solo con una semplice spiegazione diventerebbero normali... Cercai la strada sulla mappa. Si trovava dietro il parco San Juan Bautista, per cui avrebbe potuto benissimo essere quella di quel pomeriggio. Allora non avevo badato al percorso, ma solo al fatto che eravamo entrati in metropolitana all’inizio del pomeriggio e ne eravamo usciti di sera. Dalla metropolitana alla scuola mia madre camminava con un’idea fissa e noi camminavamo al suo fianco come due soldatini, e il freddo ci avvolgeva in quel ricordo.
Adesso era settembre, i giorni passavano e la temperatura era molto piacevole, fresca nel crepuscolo, ma niente in confronto al vento gelato di quella sera lontana. Il solo ricordo faceva sì che tornassi a sentire il freddo triste che penetra negli ossicini dei bambini come acqua, anche se adesso avevo una pelle più dura e potevo combatterlo con tutto il mio grasso e i miei muscoli. Per intraprendere quel viaggio nel passato mi misi una giacca che mi avevano regalato i miei per l’ultima Epifania. Era di un marrone invecchiato, con fibbie e cerniere sulle maniche, che aperte lasciavano vedere le braccia o le maniche della camicia. Me la mettevo con le scarpe da ginnastica e cercavo di non usarla molto per non rovinarla. Era stata una magnifica sorpresa, perché era piuttosto cara. Mia madre mi aveva detto che me la meritavo. Quel Natale avevo lavorato impacchettando regali al Corte Inglés e, con quel che avevo guadagnato, avevo comprato doni per tutti. Una boccetta di Chanel N° 5 per mia madre, una cintura per mio padre e una raccolta di libri di avventura per Ángel. La mamma aveva detto che non voleva abituarsi a profumi così cari, ma poi aveva scoperto che era un buon biglietto da visita con le clienti e non dimenticava mai di metterselo tutte le volte che usciva. Eppure non lo aveva ancora finito.
Ángel si ricordava di quel pomeriggio? Non volevo ancora raccontargli niente. Perché complicargli i ricordi e la vita? Era già un ragazzino abbastanza strano anche senza conoscere quella storia. Mi sembrava di vederlo nel finestrino della metropolitana e vedevo anche me stessa e mia madre, con lo sguardo perso nell’oscurità del tunnel, senza poter immaginare che anni dopo avrei cercato quell’immagine in un vagone simile. Cambiai linea, e riconobbi vagamente quel trasbordo nel mio ricordo. Quasi correvamo dietro la mamma, più Ángel che io, con la sua corsa trascinata perché gli facevano sempre male le gambe.
In un modo o nell’altro l’infanzia mi aveva abbandonato e ne sentivo la mancanza, in quel momento più che mai. Le vacanze estive ad Alicante, correre solo perché lo si può fare. Ridere e piangere per il puro gusto di ridere e piangere. Forse non sarei mai più tornata a vivere il presente e solo il presente; adesso pensavo molto al futuro, a quello di mia madre e a quello della mia famiglia, un futuro nel quale io avrei perso un anno di corsi all’università. Avrei trovato un grande amore? Le mie amiche adoravano i film romantici. Io no, perché uscivo tristissima dal cinema. Mi facevano molto male i baci che si davano gli attori e i loro sguardi pieni di passione, come se li avessero strappati a me per tutta la vita.
Quando mi mancavano due fermate per scendere, un ragazzo mi si avvicinò e mi diede un invito per andare al concerto che il suo gruppo avrebbe tenuto in un locale. Si chiamava BJ3436, come un pianeta appena scoperto. Mi guardava senza battere ciglio e senza cercare di dissimulare; mi disse che gli sarebbe piaciuto molto vedermi lì e anche che gli avrebbe fatto piacere accompagnarmi per un tratto dovunque stessi andando in quel momento. Gli risposi che quello era un viaggio molto speciale e che preferivo farlo da sola, ma che, se avessi potuto, sarei andata a sentirlo al concerto.
«Non verrai», ribatté senza distogliere lo sguardo dal mio.
«Perché?»
«Perché se adesso che stai facendo un viaggio noioso in metrò non vuoi sapere niente di me, non verrai di certo in culo al mondo per vedermi. Te ne dimenticherai. Prendi il mio numero», disse afferrandomi la mano e segnandomelo sul dorso con una penna.
Scese alla mia fermata.
«Se vieni, chiamami così ti cerco dopo il concerto. E se non vieni, chiamami lo stesso.»
«Non chiedi il permesso per scrivere sulle mani altrui?»
«Quando non c’è tempo, no.»
Insieme al numero aveva scritto «Mateo».
Che inopportuno. In un altro momento della mia vita mi sarebbe piaciuto che fosse così diretto e che fosse apparso proprio quando stavo pensando all’amore impossibile. Aveva i capelli lunghi quasi come me e molto disordinati, non portava orecchini ma all’anulare destro aveva un anello con un cobra, grande, di argento annerito. E sui jeans stretti portava una maglietta nera. Non mi piaceva il pizzetto, ma quella era una cosa a cui si poteva rimediare. Il particolare più inquietante erano gli occhi un po’ assonnati, da poeta, sgranati sotto le palpebre che sembravano volersi chiudere. Non ero mai stata con un artista, ma non era il momento di pensare a una cosa del genere.
Costeggiai il parco lentamente, come quel giorno, ma con la luce del sole della tarda estate. Forse gli odori erano gli stessi; eppure, io ero molto diversa e in me era cambiato tutto. Quella sera qualunque odore, qualunque rumore era più grande di me. Invece adesso io ero un gigante che andava verso il passato con un trentotto di piede e passi di un metro. Però c’era qualcosa che mi diceva che quello era il posto e quello era il cancello di ingresso della scuola. Era un’immagine impressa nella memoria fatta di una moltitudine di piccoli dettagli. Sulla facciata di mattoni compariva il nome dell’istituto in filo di ferro nero. Nella zona del campo sportivo stava tramontando il sole e, come allora, c’erano ragazzi e ragazze che giocavano a basket e a tennis. La balaustra su cui si appoggiava mia madre per guardare era la stessa del mio ricordo, anche se non ne rammentavo con chiarezza il colore. Adesso era verde.
Mi sedetti sulla panchina di pietra. Un gruppo di bambine indossarono i pantaloni della tuta sui pantaloncini corti da basket, si infilarono le felpe, si misero i borsoni in spalla e sfilarono davanti a me ridendo. Anch’io qualche volta ero stata completamente felice, quando riuscivo a dimenticarmi di tutto. Attraversai il cemento rosso verso il padiglione centrale: c’era ancora movimento in segreteria.
Una donna sui cinquant’anni, con i capelli tinti di biondo platino e una lunga frangetta sul lato destro degli occhiali di metallo dorato, era molto indaffarata a riporre delle cartelline sotto chiave. Stava per andare via. Mi ricordava la mia professoressa di biologia, che aveva accettato un incarico direttivo ed era così oberata che un giorno aveva iniziato a perdere colpi e avevano dovuto ricoverarla in una clinica.
Quando le parlai, girò la testa verso di me spaventata, pensando che non avrebbe potuto chiudere e andarsene.
Le dissi che cercavo una vecchia alunna di circa sette o otto anni prima e che era un caso di vita o di morte perché sua madre era malata e non riusciva a trovarla. Fece un gesto di esasperazione. E dovevo cercarla proprio ora che lei stava per andare a casa?
«Gli impiegati dell’amministrazione arrivano alle nove di mattina. Dirò loro di darti una mano. Io sono la segretaria d’istituto. Otto anni fa non lavoravo qui.»
Al ritorno feci la stessa strada e, anche se avevo camminato di buon passo, il viaggio in metropolitana poi mi sembrò interminabile. Stavo ritornando al presente.
Andai a trovare mia madre. Le dissi che avevo molto lavoro, che alla facoltà di medicina i corsi erano già iniziati e che non avevo avuto il tempo di passare prima. Mi guardò con gli occhi pieni di gioia: le piaceva sentire che mi stavo costruendo una vita. Alzò la mano di duecento anni e mi scostò i capelli dal viso.
«Come sei bella.»
Non avevo mai dato peso al fatto che mia madre mi considerasse bella. Era mia madre e io ero sua figlia, sangue del suo sangue. Quel giorno, però, era come se mi illuminasse con la luce profonda e misteriosa con cui mi stava guardando. Mi stava benedicendo, mi stava concedendo un dono. Mi stava facendo essere bella e tutto ciò che voleva.
«Come va all’università?»
Le raccontai ciò che immaginavo mi sarebbe capitato se avessi assistito davvero alle lezioni. Le parlai dei compagni, dei professori e delle lezioni di biologia. Mi vergognavo. Mi faceva male fingere e mentirle, ma non avevo altra scelta. La verità era deludente e non volevo che si preoccupasse per me. Prima o poi avrei fatto ciò che avrei dovuto fare in quel momento: stavo semplicemente anticipando gli avvenimenti.
«Sono molto contenta, mamma. Andrà tutto bene.»
Sospirò. Parte del suo lavoro – io – era ben avviato.
Il sabato sera dissi a mio padre che sarei andata a un concerto e che sarei tornata tardi. Lui rispose che avrebbe cenato con Betty, che sarebbe rimasto con lei finché non le avessero portato il succo delle undici e che il giorno dopo avrebbe trascorso lì tutta la mattinata leggendo con lei i quotidiani e i supplementi domenicali. Le avrebbe portato anche qualche rivista e un paio di libri tascabili. Si sentiva più tranquillo stando con la mamma in ospedale piuttosto che a casa, seduto sul divano, a chiedersi se sarebbe guarita e con i pensieri che non gli davano tregua. Mi tranquillizzava che mio padre fosse insieme a mia madre. Se stava accanto a lei, guardandola e parlandole, non poteva succedere niente di male.
Mi vestii come il pomeriggio in cui Mateo mi era venuto incontro in metropolitana mentre andavo alla scuola Esfera. Mi misi anche il piercing al naso e mi truccai gli occhi con il kajal e uno dei mascara usati di Dior che mi regalava Ana. Si poteva dire che mi ero messa tutto il meglio che avevo.
Per arrivare al locale dove si sarebbero esibiti i BJ3436 bisognava attraversare tutta Madrid. Ci misi più o meno un’ora. All’ingresso c’era gente simile a me e altri che erano decisamente punk. Aleggiava un odore intenso di marijuana. Un ragazzo con le unghie nere mi staccò il biglietto. «Puoi farti dare una lattina di birra», disse. La ordinai a un bancone di lamiera, sfiorando spalle e braccia più sudate del dovuto. Sul palco, Mateo provava qualche accordo con altri tre musicisti. Aveva la stessa maglietta, gli stava molto bene. Una delle volte che guardò davanti a sé sembrò che mi avesse visto, ma poi spostò di nuovo lo sguardo sulla chitarra. Il locale si stava riempiendo di creste, schiene tatuate e altri personaggi più normali. Mia madre era in un altro mondo, e anche mio padre. Per arrivare fin lì, oltre alla città, avevo dovuto attraversare le nostre vite. Mi sedetti fino a quando iniziarono a suonare. Non erano male. Suonarono canzoni loro. Durante il secondo pezzo Mateo si tolse la maglietta e perse un po’ di fascino, ma cantò una canzone d’amore piuttosto bella. Intorno a me si conoscevano quasi tutti. Dovevano essere assidui frequentatori di quei concerti, amici del gruppo. Perché io ero più grande di tutti gli altri? Non riuscivo a entusiasmarmi completamente, non potevo dimenticarmi di tutto. Durante una pausa uscii a fumare una sigaretta. Qualcuno mi passò una canna. «Per chi sei venuta?» mi chiese. Era un ragazzo alto e magro come un palo.
«Per Mateo», risposi.
«Ah!» esclamò. «Anch’io.» Facemmo qualche altro tiro. Iniziavo a sentirmi meglio. «Dobbiamo sostenerlo fino alla morte.»
Io avevo ancora il suo nome e numero di telefono scritti sul dorso della mano, anche se l’inchiostro si era scolorito e sembrava un tatuaggio.
Lo sguardo obliquo del ragazzo si diresse verso di me. «Da quanto lo conosci?»
Feci un altro tiro con la canna e rientrai. Me ne andai senza rispondere, non avevo voglia di dare spiegazioni.
Quando Mateo e gli altri tornarono sul palco li applaudimmo, rumoreggiammo e fischiammo perché si sentissero a loro agio. La seconda parte del concerto mi sembrò un po’ troppo lunga. A un certo punto guardai dietro di me e vidi il Palo che mi osservava nella penombra. Portava i capelli lunghi con la riga in mezzo e gli si vedeva solo la metà degli occhi, del naso e della bocca, ma io sapevo che mi stava guardando. Era curioso di sapere chi fossi. Dopo gli ultimi applausi, fischi e grida il gruppo scese dal palco e si avvicinò al bancone, circondato dai fan. Anch’io mi avvicinai: stavo andando da Mateo quando una principessa punk si mise tra me e lui. Aveva dei bellissimi capelli biondi, corti, che finivano con una piccola cresta. La pelle era traslucida e gli occhi azzurri, come se fosse appena uscita da una provetta, come se non fosse mai stata toccata da un raggio di sole, come un essere formatosi in un utero d’oro. Le lunghe gambe erano coperte da fuseaux neri che finivano in un paio di anfibi. Una delle gambe della Principessa si strinse intorno a una delle gambe di Mateo. E lui la baciò sulla bocca di fragola. Nonostante quello spettacolo non indietreggiai. Avanzai fin quasi a toccare le punte dei suoi stivali con le mie scarpe da ginnastica consumate. Non guardai la Principessa. Era stato lui ad avermi agganciato in metropolitana, ad avermi invitato, ad avermi esortato ad andare fin lì e a investire due ore del mio tempo per ascoltare la sua musica immatura.
Rimase paralizzato: non mi aveva riconosciuto?
«Sei venuta», disse.
«Suonate bene», commentai io. «E c’è molta gente.»
Si divincolò dall’abbraccio della Principessa e la indicò.
«Lei è Patricia.»
«Verónica», feci io, che non ricordavo di avergli detto il mio nome.
Io e Patricia non avevamo nessuna voglia di conoscerci e lei si strinse ancora di più a Mateo, prendendolo per la vita. La Principessa dalla cresta dorata mi stava indicando, come poteva, l’uscita.
«Ehi», dissi perché lei mi sentisse, «non credo che l’altro giorno tu mi abbia abbordato nel vagone della metropolitana, mi abbia detto che saresti venuto con me in capo al mondo e mi abbia invitato qui per tenermi in piedi a guardare la tua faccia da stronzo.»
Lei lo guardò e poi guardò me. Io guardavo solo lui, lui solo me.
«Credevo che mi avresti chiamato», rispose portandosi una lattina di birra alla bocca.
«Chiamarti, venire, parlare con te... mi chiedi un po’ troppo, no?»
Allora lui fece un cenno di assenso con la testa e mi prese per mano.
«Vieni.»
Non ebbi dubbi su cosa fare perché in quella situazione era meglio che succedesse qualcosa piuttosto che non succedesse niente. Il Palo e altri che non conoscevo ci guardarono uscire in strada.
«Aspetta», disse. «Ho lasciato dentro l’impermeabile.»
«Non posso aspettare. O io o l’impermeabile.»
Esitò un secondo e procedette rapidamente verso una moto, tirò fuori un paio di caschi e, senza dire neanche una parola, salimmo in sella. Guidò per circa dieci minuti e si fermò vicino a un bar in una piazza davvero brutta. Quando mi tolsi il casco mi baciò, senza darmi il tempo di reagire. Improvvisamente mi ritrovai davanti la morbidezza delle sue labbra, della sua lingua. Sentivo il suo corpo, la fibbia della cintura con un teschio di metallo nella mia pancia. Sentii le sue mani sotto la giacca e rimanemmo così finché la piazza non iniziò a girare nell’universo molto lentamente. E quando Mateo mi propose di entrare nel bar a bere qualcosa, tutto era diverso, noi eravamo diversi. Lui mi stringeva per le spalle e io gli dissi che mi dispiaceva che avesse avuto freddo in moto perché non gli avevo permesso di andare a cercare l’impermeabile. Mi confessò che quell’impermeabile era uno dei pochi ricordi che aveva di suo padre e che lo portava sempre con sé come un talismano, così potevo immaginarmi quanto contavo per lui se aveva accettato di rischiare di perderlo. Nel bar c’era una luce abbagliante e ci sedemmo accanto a una vetrina da dove si vedeva la penombra della piazza. Il nostro buio, la nostra piazza, il nostro bar. Il cameriere disse che avrebbe chiuso entro mezz’ora. Ordinammo due birre senza smettere di guardarci.
«Un giorno potrò dirti tutto quello che provo per te, adesso non posso», disse scostandomi una ciocca di capelli dal viso come di solito faceva mia madre.
Lo capivo, anch’io non riuscivo a dirgli quanto mi piaceva stare con lui. Solo fino a un’ora prima non lo sapevo, né lo immaginavo: ancora non esisteva il mondo di noi due.
«Perché mi hai portato in questo posto?»
«Non so», rispose. «Volevo guardarti. Non potevo aspettare.»
Bevemmo un’altra birra e ce ne dovemmo andare. Quando uscimmo il cameriere ci disse: «Grazie, piccioncini».
Sulla soglia cercammo di individuare un altro locale aperto, ma non ce n’erano. Non volevo tornare a casa. No, non ancora.
«Con te è come se fossi ubriaco. Non mi importa di niente.»
Doveva riferirsi alla Principessa, all’impermeabile, al concerto e a tutto quello che non sapevo di lui.
«è lo stesso anche per me.»
Salimmo di nuovo sulla moto cercando un posto dove poter continuare a guardarci e a baciarci. Ci fermammo vicino a delle luci verdi. Era un pub frequentato quasi solo da uomini. Prendemmo altre due birre, estranei a tutto.
«Se oggi te ne fossi andata, la vita sarebbe continuata uguale.»
«E se tu non ti fossi avvicinato a me in metropolitana non saremmo qui, in questo posto così strano.»
Quasi tutta la conversazione girava intorno a noi a partire dal momento in cui ci eravamo conosciuti, il passato non contava. Era come se fossimo venuti al mondo in quel vagone della metropolitana e avessimo vissuto solo da allora in avanti, fino a quel momento.
«Quando ci rivedremo?»
«Ti chiamerò», dissi. «Questa volta ti chiamerò.»
Insistette per portarmi a casa con la moto, anche se gli avevo spiegato quanto vivessi lontano.
«Ma morirai di freddo», protestai sentendomi sempre più idiota per non avergli permesso di tornare dentro a recuperare l’impermeabile.
«Non importa», replicò prendendo dallo schienale di una sedia una giacca da uomo blu mare con i bottoni con le ancore. «Se può permettersi quei cocktail, potrà comprarsene un’altra», disse mentre uscivamo.
Per lui era enorme, ma grazie a quella giacca poté portarmi a casa per una strada della nostra notte, tra le ombre degli alberi e il pallore della luna. Io, attaccata alla sua schiena, sentivo l’odore della giacca di quell’altra persona, un uomo corpulento, che senza saperlo ci aiutava a stare insieme un altro po’.
Scendemmo dalla moto e facemmo fatica a separarci. Avevamo paura che la volta seguente non sarebbe stata più così, che quell’incantesimo sarebbe finito. Lui mi guardava un po’ spaventato con quell’enorme giacca addosso.
«Adesso sei la mia ragazza. Non ti farò scappare.»
Non gli dissi niente, rimasi muta, perché ormai ero vicino a casa. Mio padre doveva già essere tornato dall’ospedale, la vita di prima del vagone della metropolitana mi schiacciava di nuovo come un carro armato. Non gli dissi che non avevo il tempo di essere la ragazza di nessuno, che non avrei potuto seguirlo nei suoi concerti, né aspettare che mi chiamasse. Ci avrei provato, ma sapevo già che non avrei potuto portare a termine quel compito.
Non smisi di pensare a lui né da sveglia né da addormentata. La sua presenza mi stava attaccata addosso come una seconda pelle, una seconda ombra, una seconda vita. Non dovevo neppure richiamarlo alla mente: lui era lì quando prendevo il caffè e andavo dai clienti. Pensai che una moto come quella di Mateo mi sarebbe stata utilissima: mi sarebbe risultato tutto più facile e avrei potuto fare così tante cose che sarei anche riuscita a essere la sua ragazza, ma sapevo che non era neanche il caso di avanzare la proposta. Mia madre era assolutamente contraria all’idea che io e mio fratello fossimo motorizzati e mio padre non si sarebbe perdonato di agire alle sue spalle, nel caso mi fosse successo qualcosa mentre lei stava come stava. Così non potevo fare altro che andare in giro carica di prodotti e dividermi gli appuntamenti secondo un rigoroso ordine geografico. Quel giorno mi toccava il quartiere di lusso, con le recinzioni alte, i cani rabbiosi, le strade silenziose. Le case sembravano conventi dietro le alte mura da cui spuntavano le cime dei pini. Lasciavo sempre per ultima quella della Vampira perché era una vendita sicura, era come un buon dessert dopo un pranzo ordinario.
Non mi sbagliavo. La Vampira rispose al videocitofono e mi aprì. Trovai la porta di casa aperta. Lasciai nell’ingresso, sul pavimento di marmo, la valigetta con i prodotti che non erano per lei e proseguii con l’altra valigetta. Dall’atrio partivano delle scale, anch’esse di marmo, simili solo a quelle che avevo visto nei film degli anni Quaranta. Alzai lo sguardo: c’erano stanze che costeggiavano il corrimano, che era dello stesso mogano del tavolo della nostra sala da pranzo. Avanzai timidamente cercando di ritrovare il salone. Per niente al mondo avrei voluto aprire una porta sbagliata e vedere qualcosa che non volevo vedere.
Alla fine sentii la sua voce.
«Entra, per favore.»
Per la prima volta la vidi vestita, senza quelle vestaglie di seta che le cadevano da tutte le parti. Parlava a voce bassa e fumava.
«Che mi hai portato oggi? Non ti aspettavo.»
«Se vuole, torno in un altro momento. Non voglio disturbare.»
«Che carina sei», disse. «Tua madre deve essere molto contenta.»
Tirai fuori una crema con particelle d’oro che costava una fortuna. Lei la prese con le mani fresche di french manicure. Doveva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, ma ne dimostrava al massimo quaranta. Sessant’anni di massaggi, creme e pavimenti di marmo.
«Quando avevo la tua età non facevo niente di utile. Non studiavo, non lavoravo. Mi sarebbe piaciuto fare la parrucchiera o dedicarmi alla cosmetica come te. Me ne pento molto. Non so fare nulla.»
Non mi sembrò opportuno chiederle come mantenesse il suo stile di vita.
«O magari avrebbe potuto occuparsi di moda», dissi. «Ha molto gusto, molto stile.»
Mi guardò con un sorriso passato attraverso molte amarezze. «La prendo.»
«L’ingrediente principale è l’oro...»
«Va bene. Mi serve. Che altro hai?»
In cinque minuti le vendetti prodotti per cinquecentomila pesetas.
«Aspetta. Vado a prendere i soldi.»
Spense la sigaretta in un posacenere d’argento così pulito e lucente che faceva male a vedersi. Non l’avevo mai vista senza vestaglia e adesso il suo fisico mi appariva più definito sotto i pantaloni e la camicia. Era magra ma formosa. Cosce, seno, sedere. Forse faceva nuoto o ginnastica. Ci mise un po’ a tornare. All’inizio mi preoccupavo che non trovasse i soldi per pagarmi, perché mia madre mi aveva avvertito di non accettare assegni. Dopo un quarto d’ora un suono, come il lamento di un uomo, attirò la mia attenzione. Era il solito uomo? E poi rumori di mobili come se stessero buttando a terra dei cassetti. Passeggiai nervosamente da una parte all’altra dell’enorme salone su tappeti persiani che era un peccato calpestare. C’era un mobile bar con un’infinità di bottiglie e bicchieri. C’erano tavolini addossati ai muri pieni di vasi di vetro con fiori veri. C’erano molte foto incorniciate sulla mensola del camino, quasi tutte della Vampira e di una bambina che forse era sempre lei. Le veneziane alle finestre erano quasi del tutto abbassate e dalle fessure si intravedeva il verde del giardino. Doveva esserci bisogno di un esercito di collaboratori per tenere in ordine quella casa e perché non ci fosse neppure un’impronta su tanto vetro, eppure non si vedeva nessuno.
La Vampira tornò un po’ sudata e si accese una sigaretta con le mani tremanti. Non le si vedeva nessun livido sulle braccia. Aveva una camicetta senza maniche, leggermente scollata. Fece un tiro e poi respirò facendo un cerchio con la sigaretta in mano. Tirò fuori i soldi dalla tasca dei pantaloni e si sedette.
«Scusami, non ricordavo dove li avevo messi.»
Mi pagò in biglietti da duemila. E le feci regolare fattura.
«Con questo lotto è a posto per un bel po’.»
Non sentì quello che dicevo, stava pensando ad altro. Indicò la fattura con la sigaretta.
«Scrivi l’orario della vendita. Così i tuoi capi sapranno che non perdi tempo.»
Quello che mi chiedeva non aveva senso, perché all’azienda importava solo la fatturazione e per loro era indifferente che concludessi la vendita in dieci minuti o in dieci ore. Perciò non avevo intenzione di scrivere l’orario finché non vidi che aveva lo sguardo fisso sulla fattura. Sulla fattura e su di me, su di me e sulla fattura. Scrissi: ora della vendita 12.00. Sospirò sollevata. Le diedi una copia, che piegò e conservò nella sua borsa. Mi colpì che non la mettesse in un cassetto.
«Vado in centro», disse. «Tu non sei in macchina, vero? Vuoi che ti dia un passaggio? Posso lasciarti dove vuoi. Mi piace moltissimo guidare.»
Tutto nella Vampira mi sembrava confuso, losco. Avevo l’impressione che mi stesse mettendo in un pasticcio, ma per arrivare all’istituto Esfera ci avrei messo come minimo un’ora dovendomi trascinare dietro le valigette.
Le diedi l’indirizzo.
«Devo fare una commissione in quella scuola.»
La Vampira lanciò sul sedile posteriore la giacca che aveva tirato fuori da un armadio invisibile dell’ingresso. Accese la radio. Aveva una Mercedes con la tappezzeria di pelle beige. Non l’avevo mai vista così rilassata. Le mani sul volante non le tremavano. Ci stese sopra le braccia ferme, setose; sicuramente si era spalmata la crema alla polvere di perle. Era così cara che di solito si usava per la prima notte di nozze.
«Non dovresti portare tanti pesi», disse. «Finirai per rovinarti la schiena.»
«Sarà ancora per poco», risposi. «Fra tre mesi compio diciotto anni e potrò guidare.»
«Sei un incanto. Io non ho avuto figli. Solo uomini.»
Mia madre mi aveva avvertito che le clienti hanno sempre voglia di parlare e che dovevo ascoltare senza dire niente, anche se avrei voluto.
«Hai il fidanzato?» chiese.
«Più o meno. Non lo so, sono stata con lui solo una volta.»
«Adesso voi giovani sapete vivere. Ai miei tempi l’amore era una bugia.»
La fissai. Non si era ritoccata il viso, grazie ai nostri prodotti aveva una pelle morbida e vellutata.
«Non si è mai innamorata?» chiesi infrangendo la regola di ogni buona venditrice.
«Sono stata una schiava dell’amore. Adesso», disse alzando il volume della musica, «mi sento libera. È finita.»
Mi sorprese il suo modo di parlare, la sua tranquillità, la sua felicità. Non aveva niente a che vedere con la donna delle vestaglie di seta.
«È sposata?»
«No, bella. Ho vissuto nel peccato tutta la vita.»
Fui felice di arrivare a scuola e di non continuare a fare domande. Cosa poteva essere successo nelle stanze del piano di sopra qualche momento prima?
Mi disse che poteva aspettarmi. Aveva un appuntamento alle due e mezzo per pranzo e niente da fare fino a quel momento.
«Mentre ti aspetto, non butterò soldi», mi rassicurò.
Era meraviglioso non dovermi trascinare dietro le valigette e poter contemplare la scuola con la piena luce del sole. Sembrava più grande e più nuova. Il pavimento rosso del campo di basket brillava in alcuni punti. Attraversai il cortile fino all’edificio principale. I ragazzi erano in classe, tranne alcuni che vagavano qui e là come frastornati. Mi ricordava grosso modo la mia scuola, e pertanto l’esistenza di Laura non doveva essere stata tanto diversa dalla mia. Cosa importava che avesse vissuto con una o l’altra famiglia? La vita in fondo doveva essere stata la stessa. Andare e venire da scuola o dal liceo, mangiare, dormire, parlare con i genitori, ingannarli sulle cose importanti, amarli, sognare e non sognare, a volte noia, a volte divertimento. Per mia madre però non era la stessa cosa, e sicuramente neanche per mio padre, anche se voleva voltare pagina.
Mi rivolsi a un impiegato dell’amministrazione. Gli dissi che avevo parlato con la segretaria dell’istituto e gli raccontai la stessa cosa che avevo raccontato a lei, che una madre malata stava cercando la figlia. Mi guardò senza capire e senza voler capire. Aggiunsi che si chiamava Laura e che era stata iscritta a quella scuola fino ai dodici anni, sette anni prima.
«I dati di sette anni fa non sono stati informatizzati. E, senza cognome, è del tutto impossibile.»
Aveva uno sguardo neutro e lineamenti ordinari che non attiravano l’attenzione. Aveva deciso di non volersi complicare la vita con i problemi altrui. Voleva tenere in ordine i fascicoli e i documenti, fare quello che doveva, e dopo il lavoro uscire con gli amici o la fidanzata e vivere davvero. Quella non era la vita e io facevo parte di quel niente.
«Forse c’è ancora qualche insegnante di quel periodo: in questo caso non dovremmo scartabellare tra i documenti. Sicuramente qualcuno si ricorderà.»
Sorrise leggermente per proteggersi da qualunque tipo di empatia.
«Non so chi sia rimasto di quell’epoca.»
«Ci saranno insegnanti nuovi e insegnanti vecchi. Mi piacerebbe parlare con uno dei vecchi.»
«Non è così facile. Non posso darti quest’informazione.»
Lo ringraziai, non volevo inimicarmelo, anche se la facilità con cui si era sbarazzato di me lo lasciò in un pericoloso stato di sospetto. Finsi di andarmene e, quando chinò la testa, mi addentrai in un corridoio alla ricerca della sala professori. Aprii e salutai. Due teste, di un uomo e di una donna, si alzarono da alcuni fogli allo stesso tempo per guardarmi. Anche se mi rivolsi a entrambi, mi concentrai più sull’uomo, che era il più anziano dei due. Aveva una folta chioma di capelli canuti pettinati frettolosamente, grossi baffi e occhiali e vestiti senza tempo. Riuscivo a immaginarlo seduto nello stesso posto sette anni prima.
«Scusate per il disturbo. La segretaria dell’istituto mi ha dato il permesso di entrare e di chiedervi se dieci anni fa avete conosciuto una bambina di circa dieci anni che si chiamava Laura. È stata qui fino ai dodici anni.»
«Uff!» sbuffò la professoressa giovane, proprio come mi aspettavo. «Dieci anni fa non mi ero neppure laureata. Ho lezione, arrivederci.»
Se ne andò abbracciata ai fogli, con le sue scarpe basse e una gonna a pieghe che le arrivava a metà polpaccio. Magrolina come una bambola.
«Laura?» chiese il professore. «Mi dice qualcosa. Che le è successo?»
«È quello che vorremmo sapere. Dopo aver lasciato questo istituto, per una serie di circostanze familiari che sarebbe lungo spiegare, l’hanno separata da sua madre. Adesso la madre è tra la vita e la morte e la cerca, vuole vederla un’ultima volta.»
Mentre gli parlavo, il professore aveva fatto mente locale. La memoria da elefante dei professori, che si ricordano di particolari incredibili.
«Aveva una nonna con un carattere molto forte e i capelli bianchi con una sfumatura azzurrina?»
Non potevo dirgli che non lo sapevo, per cui annuii.
«Come si chiamava?» chiese a sé stesso. «Quando veniva al ricevimento dovevo tenerla a bada.»
«Proprio quella nonna l’ha separata da sua madre. Questioni legali, cose di famiglia...»
«Mi sembra di ricordare che se ne andò prima della fine dell’anno.»
«E non sa qual era il suo indirizzo? Ormai è grande e ha diritto di conoscere alcuni aspetti della sua vita.»
Mi guardò attentamente. Così come io avevo visto tanti professori simili a lui nel corso della mia vita, lui aveva visto molte alunne simili a me nel corso della sua. In un certo senso eravamo vecchi conoscenti. Stava per chiedermi chi ero io.
«Mi prendo cura di sua madre. Ha sofferto molto perdendola e cercandola, e si merita di poterle dare un bacio per l’ultima volta. È una brava persona, mi creda.»
«Un’informazione del genere dovrebbe essere autorizzata dal direttore. Come comprenderai, non posso divulgare notizie sugli alunni.»
«Sappiamo entrambi che il direttore dirà di no, non vorrà complicazioni. Nessuno le vuole, e per questo ci sono tante ingiustizie nel mondo.»
Adesso mi avrebbe chiesto come mi chiamavo.
«Mi chiamo Verónica. Si ricorda i cognomi di Laura?»
Allarme negli occhi infossati sotto le grosse sopracciglia.
«Non sai quali sono i suoi cognomi?»
«Sicuramente sono falsi.»
«Oddio! E sì che ne ho viste di cose strane... E devo già sopportare di tutto con questi zoticoni.»
Eravamo arrivati al momento esatto in cui sarebbe stato controproducente fargli pressione. Mi alzai dalla sedia su cui, senza neanche rendermene conto, mi ero seduta a un certo punto della conversazione e gli tesi la mano. Lui non me la strinse, si limitò a fissarmi e a fare spallucce.
«Dammi il tuo numero. Ti chiamerò quando saprò qualcosa.»
C’era un raggio di speranza in mezzo alla sensazione che si stesse sbarazzando di me. Avevo quasi dimenticato che la Vampira mi aspettava quando attraversai rapidamente l’ingresso e il cortile.
Era scesa dalla Mercedes: stava fumando e aveva gli occhiali da sole, come un’attrice caduta in disgrazia. Non mi disse niente, ma non pareva arrabbiata: sembrava che avesse pianto. Forse aveva avuto il tempo di pensare alla sua vita.
«Mi dispiace», dissi. «Ci ho messo più di quanto credessi.»
«Che posto è questo? Non capisco niente.»
Parlava per sé, parlava a sé stessa di sé stessa, e mi meravigliava che io la capissi così bene.
«Ha tutto a che fare con l’amore. L’amore è la nostra maledizione. Ci rende felici, ci fa schiavi, ci corrompe, ci insegna a odiare. Tutto si fa o non si fa per amore. Sembra una cosa buona, ma in verità ti dico che se non esistesse l’amore non ci sarebbero le guerre.»
Si asciugò una lacrima sotto gli occhiali con un’unghia perfettamente smaltata.
A quel punto finalmente seguii le indicazioni di mia madre e non dissi niente.
Mi lasciò in centro con le due valigette e mi salutò da dietro il finestrino senza togliere gli occhiali scuri. Sentii qualcosa dentro, come se la conoscessi da tutta la vita e non dovessi vederla mai più.
«Mi dispiace lasciarti, ma alle due ho appuntamento dal parrucchiere», disse.
Prima mi aveva detto di avere un appuntamento per il pranzo e adesso dal parrucchiere. Dove doveva andare? In nessun posto importante. Avrebbe parcheggiato la macchina in qualche centro commerciale e si sarebbe dedicata a fare compere e a dimenticare qualunque cosa dovesse dimenticare.
Rimasi paralizzata di fronte alla cartella di pelle di coccodrillo. Non poteva essere. La foto di Laura non c’era. Infilai la mano varie volte in tutti gli anfratti della cartella, poi tornai all’armadio e tirai fuori la coperta in cui era avvolta. La scrollai sul copriletto a fiori e ci passai sopra la mano per verificare che non fosse nascosta tra i petali e le foglie. Mi veniva da piangere, sentivo il nocciolo di pesca in gola che mi impediva di deglutire. Cos’era successo alla fotografia di Laura? Andai a cercare la scala per poter infilare la testa nell’ultimo ripiano dell’armadio. A quel punto mi sorse la speranza che fosse caduta più in basso, dov’erano riposte le scarpe. Le tirai fuori tutte e ne approfittai per pulire con un panno il fondo, poi le misi di nuovo a posto. Ero esausta perché avevo passato quasi un’ora in ginocchio a terra tra scarpe basse, con il tacco, con il mezzo tacco, i mocassini di mio padre, scarpe con i laccetti, scarpe da ginnastica, e ricordando mia madre con quelle bianche, quelle nere e le ultime che aveva comprato, le rosse. La mamma non buttava niente e tantomeno le scarpe, che conservava in perfetto stato, fino a che le vecchie tornavano di moda. Mi alzai barcollando. Non avevo la forza per continuare a cercare, mi era appena venuto in mente che forse la foto poteva essere andata a finire sotto il letto, ma se mi fossi chinata per guardare anche lì avrei dovuto spostare gli scatoloni pesanti pieni di libri e vestiti e poi rimetterli a posto, e alla fine sarei stata esausta. Perciò mi limitai a sollevare leggermente il copriletto e a lanciare un’occhiata ai piedi del letto. Non c’era niente e mi stesi a riposare su quell’aiuola di petali e foglie a cui mancava solo l’aroma. Sentii una pace immensa. Da sotto il cuscino arrivava il profumo della camicia da notte di mia madre. La vita bella era molto ingiusta. Chiusi gli occhi; come stavo bene così, respirando e sentendo quella calma in quel momento della sola vita che avevo. Mi sentii sprofondare in una coperta di foglie. Anche se era molto piacevole lasciarmi cadere senza nessuna resistenza od ostacolo, il fatto di sprofondare non mi pareva un buon segnale: c’era qualcosa nel mio sogno che mi diceva di stare in guardia e mi svegliai per non continuare a cadere.
Guardai l’orologio sul comodino. Era passata quasi un’ora da quando mi ero addormentata e non ricordavo che sotto di me ci fosse un materasso, né casse di libri e vestiti, né pavimento, solo l’oscurità dell’universo che mi portava verso qualche posto. Ero fredda come un cadavere e dovevo andare a trovare mia madre. Dovevo arrivare dall’altra parte del mondo, dovevo entrare nel portone dell’ospedale, camminare fino agli ascensori in fondo, entrare in uno di essi, pigiare il bottone del quarto piano, salire e infilare il corridoio di destra fino alla stanza. Attraversare l’odore di antibiotici e disinfettante e attraversare lo sguardo delle persone che aspettavano in corridoio, attraversare la loro impazienza e la loro angoscia. E in quel momento, proprio nel momento in cui misi i piedi sul pavimento freddo e vidi come in un film Ana del cane che cercava la cartella di coccodrillo quel pomeriggio che aveva avuto la casa tutta per sé, nel momento in cui la vidi in punta di piedi che passava la mano sull’ultimo ripiano e tirava la coperta verso di sé, in quel momento squillò il telefono e andai in salotto a rispondere. Era Mateo.
«Non riesco a smettere di pensare a te e all’altra sera. Non potevo aspettare che mi chiamassi tu.»
Provai un’immensa gioia e un grande rimorso perché la provavo, e balbettai qualche parola deludentissima per lui e anche per me.
«Che ti succede? Sei pentita di essere pazza di me?»
Non poteva neanche immaginare quant’era normale e innocente. Pensava che per il fatto di avere un teschio sulla fibbia e un cobra sul dito, di frequentare i concerti con la Principessa d’oro, di baciare bene, di essere più grande di me e di avermi letteralmente preso di forza tra le sue braccia, poteva stare tranquillo con me.
Molte volte, quando mi svegliavo la mattina, rimanevo per un po’ a letto con le mani sotto la testa guardando il soffitto e immaginando che un ragazzo come Mateo mi dicesse ciò che mi stava dicendo lui in quel momento. Era una cosa che succedeva a molte ragazze, soprattutto nei film, e che sarebbe potuta accadere anche a me un giorno. Quel giorno era arrivato, ma in un brutto momento.
«Mi ha fatto molto piacere che tu mi abbia portato a casa con la moto e... tutto il resto. Hai restituito la giacca?»
«Non ci pensare. L’ho buttata in un cassonetto. Volevo conservarla per ricordo, ma mi occupava tutto l’armadio.»
Feci una risatina un po’ stupida.
«Che fai adesso?»
«Devo lavorare. Stavo proprio uscendo.»
«E domani?»
«Ti chiamo io. Te lo prometto.»
Rimasi in silenzio un secondo con il desiderio di dirgli che ancora non riuscivo a credere a quello che mi era successo con lui e che se fosse stato per me non mi sarei staccata dalla sua maglietta nera neanche un minuto. Lo avrei seguito ai concerti e lo avrei abbracciato mentre eravamo in gruppo tutti insieme, come aveva fatto la Principessa prima di me, e non avrei pensato a niente che non fosse guardarlo ancora, ancora e ancora fino a stancarmi. Gli avrei detto che di lui mi piaceva anche quello che non mi piaceva, come il pizzetto.
«C’è qualche problema?» chiese.
«Non è niente, è che ho fretta. Prima finisco, prima potrò chiamarti.» Abbassai un po’ la voce. «Ho molta voglia di vederci.»
Non dissi di vederti, ma di vederci. Mi sembrava meno compromettente.
Riagganciai con la sensazione di essere stata troppo fredda e di aver rovinato tutto, pur di non raccontargli che stavo per andare in ospedale a trovare mia madre e che cercavo una sorella fantasma. Per me Mateo era legato alla musica, ai ragazzi del suo gruppo, alla moto e alla voglia di baciare una ragazza come me in una piazza buia, e volevo che io per lui fossi legata ai sogni che aveva fatto su di me. Non volevo toglierglieli così presto. Non volevo passargli, come se si trattasse di uno spinello, i problemi della mia vita, perché in quel caso non mi avrebbe più trattato nello stesso modo e non avrei potuto provare l’allegria che provavo in quel momento dirigendomi verso la stanza 407. «Ho bisogno di vederti», mi aveva detto. La sua voce era un po’ dolce e un po’ aspra, e forse era quel tono ad averlo spinto a cantare.
Quando arrivai in ospedale sentii voci conosciute. Mi provocarono gioia e fastidio. Erano mio padre e Ana del cane. Non sapevo se sarei riuscita a guardarla in faccia, con quello che sospettavo di lei e della cartella di coccodrillo.
Mi chinai a baciare mia madre per non dover salutare Ana. Mi piegai su di lei e rimasi così per qualche interminabile minuto, finché mio padre non richiamò la mia attenzione.
«C’è Ana.»
Mio padre era uno stupido: che m’importava di Ana? L’unica che contava era mia madre.
«Ah», dissi senza riuscire a dissimulare il mio disappunto e guardandola appena.
«Be’, devo andarmene», disse Ana. «Mi fa piacere trovarti meglio.»
Notavo la sua espressione sconcertata: forse si stava chiedendo se avessi già scoperto che la foto di Laura non era nella cartella. Mio padre disse che siccome c’ero io poteva andarsene anche lui e uscì dietro di lei, dietro il vestito verde perfettamente aderente alla sua figura. Mio padre le sfiorò la schiena per invitarla a uscire, in quel gesto cavalleresco senza senso che fanno gli uomini. Lei aveva un grande foulard violetto appeso al braccio e una borsa dello stesso colore.
Sembrava uscita da una rivista. E in quel momento la testa mi ordinò di raggiungerla in corridoio.
«Ana!» Si girò. «Come sta Gus? Dove lo hai lasciato?»
Sorrise sollevata. O forse era solo la mia immaginazione.
Sicuramente non c’è nessun figlio al mondo che non abbia pensato almeno una volta che i suoi genitori non sono molto intelligenti, che possono sbagliare o fare valutazioni errate, e questo fu ciò che successe a me con mio padre. Iniziai a sentirmi arrabbiata perché non credeva alla storia di mia madre, e delusa perché non si rendeva conto di niente. Lui voleva solo che fosse tutto normale, che sua moglie non fosse malata, che Laura fosse un’illusione, che Ángel diventasse più robusto ad Alicante e che io maturassi gradualmente. Io però non riuscivo a liberarmi dall’immagine mentale di Ana che rubava la foto di Laura. Stavo iniziando a diventare gelosa. Non riuscivo a togliermi dalla testa il vestito verde aderente sulla schiena dritta e la mano di mio padre appoggiata lì mentre uscivano dalla stanza dell’ospedale. Così quella sera stessa, quando tornai a casa, gli raccontai che era sparita la foto e che sospettavo di Ana, perché era stata un pomeriggio da sola in casa ed era l’unica che avrebbe potuto portarla via.
Stavamo cenando davanti alla televisione accesa. Io non avevo fame, avevo comprato delle crocchette già fatte e dei panini per non andare a letto digiuna e conservare almeno il rito della cena e, soprattutto, per informarlo di quello che avevo scoperto. Mio padre aveva preso una confezione da sei lattine di birra al supermercato all’angolo. Io non ne volli. Beveva già lui per tutti e due.
«È incredibile che pensi queste cose di Ana. È uno dei pochi sostegni che abbiamo. A Betty fa molto piacere vederla. Oggi ne è stata contentissima.»
Una matassa attorcigliata di pensieri. Il bene, il male, i sospetti, la realtà, la verità, la menzogna.
«Papà, non c’è altra spiegazione.»
Stava iniziando a innervosirsi. La vita non era più come voleva lui.
«Sarà caduta. Non posso immaginarmi Ana» – indicò con un braccio il centro del salotto – «Ana che fruga in casa. Perché dovrebbe volere la foto?»
«Non ne ho idea, ma è stata lei.»
«Sono stufo di quella foto del cavolo. Sono stufo che abbiamo buttato a mare la nostra vita perché un giorno ci è capitata una cosa che non abbiamo potuto controllare allora e che non possiamo certo controllare adesso.»
«A tutti succedono cose che non vogliono. Non siamo gli unici, e la cosa migliore è affrontarle perché smettano di essere fantasmi. Ti chiedo solo di stare attento con Ana. Non raccontarle niente, non fidarti di lei.»
«Proprio oggi Betty le ha chiesto di non dimenticarsi di noi. Le ha chiesto di dare una mano a te e di accompagnare me al cinema ogni tanto.»
La voce gli tremava e per parlare doveva bere un sorso dalla lattina. Gli misi in mano un panino.
«Forza, mangia. Non andare a letto a stomaco vuoto.»
«Ad Ana quella foto non interessa assolutamente. Ha sempre saputo che Betty delirava con l’idea che la bambina fosse viva. Ha sempre saputo tutta la storia.»
«Ma non sapeva che la mamma avesse una foto fino al giorno in cui gliel’ha mostrata. L’ho vista aprire la cartella davanti a lei.»
«Finirai per impazzire. Che vuoi fare, continuare con questa storia o aiutare tua madre?»
«Voglio aiutarla», dissi con il nocciolo di pesca in gola.
«La aiuti molto lavorando al posto suo, perché così non rischia di perdere il lavoro. Questo le fa davvero piacere. Ma non la aiuti mettendoci contro la sua migliore amica.»
Rimasi ancora un po’ davanti alla televisione vedendo passare le immagini. Anche la luna passava alla finestra. Sebbene mio padre non volesse accettarlo, Ana aveva preso la foto. Non bisognava fidarsi di lei, anche se ancora non sapevo perché. In ogni caso avrei setacciato di nuovo la camera dei miei genitori: speravo di sbagliarmi, di essere solo una saputella e di poter tornare a credere che mio padre fosse il gran protettore.
Mio padre. Tra milioni e milioni di uomini, uno era mio padre. E, per il solo fatto che era mio padre, io davo per scontato che dovesse essere nobile, intelligente, coraggioso, generoso, retto, forte, affettuoso e simpatico. Gli mancavano forza e coraggio, si innervosiva nei momenti critici. Ana lo aveva chiamato a mezzogiorno per farsi portare a Santander. Avrebbe potuto prendere qualunque taxi, ma aveva preferito far fare a lui una corsa così allettante. I soldi ci facevano comodo, non sapevamo quali cure sarebbero servite a mia madre. Bisognava riconoscere che Ana faceva molto e si preoccupava sempre per noi. Aveva trovato un lavoro alla mamma e se doveva andare a Santander in taxi chiamava mio padre. E mia madre giudicava positivamente tutto ciò che la sua amica faceva. Ero io, solo io, che non riuscivo a smettere di pensare a lei accanto a mio padre in taxi, con il suo vestito verde e le sue ginocchia perfette, che gli accendeva una sigaretta e gliela metteva tra le labbra. Solo io le avevo visto negli occhi una luce molto diversa dalla sua luce normale. Una luce allegra e bramosa, come se avesse trovato per strada un milione di pesetas. E quella luce aveva moltissimi watt in più del bene che ci faceva. Cercai di non pensare a lei e al fatto che avrebbe passato la notte a Santander con mio padre, che era il marito della sua amica Betty, ammalata in ospedale e con una figlia scomparsa. Adesso la credevo capace di qualunque cosa e, allo stesso tempo, speravo con tutto il cuore che mio padre avesse ragione.
Il giorno dopo mi aspettavano quattro visite ai clienti per le quali non avevo bisogno di essere molto in forma: mi sarebbe bastato dormire tre o quattro ore. Così mi feci la doccia. Erano le otto di sera e chiamai Mateo. Potevo andare ad assistere alle sue prove e poi saremmo potuti andare nella nostra piazza. Quel giorno non avevo fretta. Avevo tutto il tempo e la casa per me. Avrei potuto dirgli di entrare. Mi batteva forte il cuore; a volte mi batteva forte anche quando mi avvicinavo all’ospedale, ma adesso batteva per allegria, felicità e rimorso, perché provavo un sentimento del genere in un momento così amaro. Mateo era un altro oggetto fuori tempo e fuori luogo ed era impossibile incastrarlo con mia madre e il mistero di Laura. Mentre componevo il numero, la testa mi si riempiva della sua voce e quella voce immaginaria per metà dolce e per metà aspra mi faceva venire voglia di correre e volare. Aspettai un attimo, uno squillo, due, tre, quattro, cinque... e riagganciai. Forse era sotto la doccia, per cui richiamai e... niente. Niente.
Ero stata troppo fredda, e lui era rimasto deluso e mi aveva dimenticato.
Un attimo prima il sole mi aveva illuminato e riscaldato e un attimo dopo si era raffreddato e si era spento. Accidenti.
Mi vestii in fretta per fare un giro veloce nel parco, per prendere un po’ di fresco e sbarazzarmi della malinconia, della tristezza e della rabbia prima di andare a dormire. Quando arrivai in strada, però, invece di dirigermi al parco andai verso la metropolitana. Scesi fino alla banchina e mi ritrovai a precipitarmi al locale dove Mateo provava. La cosa più probabile era che fosse lì e la cosa più probabile era che fosse felice di vedermi. In fin dei conti era ciò che voleva, che stessimo insieme e che io lo seguissi di concerto in concerto.
Mi specchiavo nei finestrini del vagone e mi sorprendeva il fatto che anche stavolta, meccanicamente, mi fossi vestita come quando l’avevo conosciuto in metropolitana. Per andare dalle clienti di solito mettevo abiti più classici: bluse, camicie, pantaloni eleganti, gonne. Mateo non mi avrebbe riconosciuto in quel modo. Adesso indossavo la giacca con la fibbia, i pantaloni aderenti e le scarpe da ginnastica, e portavo i capelli sciolti. Non abbandonai neanche per un attimo l’idea di vederlo.
Il Palo e un altro tizio erano appoggiati alla porta e fumavano. Mi guardarono come un’apparizione, ma non per qualche motivo particolare, solo perché vivevano in stato confusionale.
Li salutai ed entrai.
Si sentivano degli accordi e una voce. Non era quella di Mateo. Non era sul palco. Forse si trattava di un altro gruppo. Rimasi in piedi: alcuni degli spettatori seduti mi lanciarono un’occhiata, poi spostarono di nuovo lo sguardo. C’era poca gente, erano soprattutto amici e fidanzate. Dov’era Mateo? Avevo intenzione di chiederlo al Palo, perciò mi diressi verso l’uscita quando incrociai una raffica dorata.
«Ciao», disse. «Cerchi Mateo?»
«Dov’è?»
Era la Principessa. Mi stava di fronte, più alta di me, e mi osservava dall’alto in basso con degli occhi azzurri così azzurri che non sembravano veri.
«Sono giorni che non si fa vedere.»
«E», dissi resistendo all’impulso di andarmene, «non hai sue notizie?»
«Non credo che ti cercherà di nuovo.»
Sentii una stretta allo stomaco. Dovetti infilare le mani nelle tasche per aggrapparmi a qualcosa.
«Se non te lo ha raccontato vuol dire che non siete così amici.»
«Non sono esattamente sua amica. Perché dici così?»
Avevo già visto quella luce speciale in altri occhi. Nonostante il buio del locale mi accorsi di quello sguardo da cui sembra che nel cervello ci sia stato un cortocircuito: ero intrappolata nei suoi riflessi.
Si accarezzò la pancia.
«Qualcosa è cambiato. Mateo sarà padre. Compreremo una roulotte per vivere insieme. Lui continuerà a suonare e lavorerà per suo padre. Io lo aiuterò, sono bravissima con i programmi informatici. Sono molto felice», disse aprendo le braccia. «Magari ci sposeremo. Non penso che Mateo abbia la testa per parlare con te in questo momento. È venuto a cercare l’impermeabile, l’ha lasciato qui l’altra sera.»
Io non riuscivo a smettere di guardarla, era sempre più alta. I loro figli sarebbero stati bellissimi, dei veri angeli.
Mi sembrava inutile chiederle l’indirizzo di Mateo, non me lo avrebbe mai dato.
«In ogni caso, mi piacerebbe che gli dicessi che sono venuta a cercarlo e che volevo parlargli.»
«Certo», rispose.
Uscii svuotata dentro. Quel pomeriggio avevo sentito molto e adesso non sentivo assolutamente niente. L’importante erano mia madre e il lavoro del giorno dopo. E quel lungo viaggio di ritorno a casa mi sembrava del tutto assurdo. Lento, interminabile. Aprii la porta, esausta. Mi tolsi dalla mente l’idea di qualche ora prima di entrare in casa con il vecchio Mateo e bere una birra o anche un whisky dal mobile bar a specchio del salotto. Vidi quell’idea volare via, come una mosca, e mi preparai qualcosa da mangiare.
Mio padre chiamò da Santander; avrei preferito non sentirlo, né sentire Ana dietro di lui che gli diceva chissà cosa. Continuai a masticare svogliata, ma con forza, triturando l’insalata, le olive e l’uovo sodo come se avessi i denti di pietra.
C’è qualcuno che sa come spegnere la coscienza senza dover morire? Mi misi a letto con uno dei libri su cui in quel momento avrei dovuto studiare. Era molto interessante, e la mia vita avrebbe potuto essere piena di futuro.
Non dovevo pensare all’amore né a Mateo. Dopo la delusione della sera prima, era fuori dalla mia vita. Era come se mi fossi solo bagnata i piedi in riva al mare con la schiuma di un’onda. Pensavo che non avrei saputo più niente di lui: che fosse felice con la sua nuova vita in roulotte. E quando, in qualche momento di distrazione, mi veniva in mente, compariva anche la Principessa dorata che lo nascondeva completamente. Mi misi un paio di orecchini di perle di mia madre e mi raccolsi i capelli. Scelsi una camicetta bianca e mi spalmai un po’ di crema con le microparticelle di madreperla. Avevo riscontrato che quando avevo un aspetto bello e sano i clienti compravano molto di più. Dicevo loro che usavo la crema che avevamo davanti e funzionava quasi sempre. Sistemai i prodotti nelle valigette e controllai l’agenda. Cartina alla mano, ordinai gli indirizzi e lasciai alla fine quello più vicino all’ospedale. Cercavo di andarci di pomeriggio per far credere a mia madre che dedicavo la mattina all’università, ma quel giorno le avrei detto che iniziavo a mezzogiorno il giro delle visite.
Stavo per uscire quando squillò il telefono. E quella chiamata me la sarei aspettata addirittura meno di una di Mateo.
Era il professore della scuola di Laura.
Iniziò dicendo che non sapeva perché avesse deciso di prestarmi ascolto e che la scuola era obbligata a vigilare sulla privacy degli allievi e delle loro famiglie, perciò avrebbe sempre negato che l’informazione che stava per darmi proveniva da lui e dalla scuola. Sarebbe stata la sua parola contro la mia.
La bambina si chiamava Laura Valero Rivera. Il suo indirizzo sette anni prima era calle de los Ríos numero 24, El Olivar, Madrid. Mi diede anche il numero di telefono. El Olivar era una zona residenziale piuttosto esclusiva a circa quindici chilometri a nord. Era stata edificata intorno a un centro urbano di cinquecento abitanti, e con il tempo le sue ville con piscina avevano smesso di venire usate solo durante i fine settimana per trasformarsi in abitazioni vere e proprie.
Mi chiese di fare buon uso di quell’informazione.
«Insegno da quarant’anni e penso di saper distinguere le brave persone dalle cattive. Credo che meriti la mia fiducia.»
Cercai di rassicurarlo e lo ringraziai, anche se in verità non mi sembrava che fornirmi quei dati comportasse un rischio così grande per lui.
Mi affrettai a chiamare il numero che mi aveva dato.
«Laura Valero?»
«Come dice? Non vive più qui», rispose una donna di mezza età. «I vecchi inquilini si chiamavano così, ma hanno lasciato la casa sette anni fa e sono subentrata io.»
Per un bel po’ di tempo aveva continuato ad arrivare lì la posta indirizzata a loro. Andavano a prenderla ogni tanto finché avevano smesso di farlo, e allora lei la restituiva al postino. Non sapeva altro, né tantomeno dove vivevano adesso.
La donna aveva voglia di parlare e non si trattenne dal chiedermi cosa volessi da quella famiglia. Le risposi che ero una compagna di scuola di Laura e che mi era venuta una gran voglia di ricontattarla.
«Magari la padrona di casa sa qualcosa.»
Mi fece aspettare un bel po’ e alla fine mi diede nome e numero di telefono.
Mi ero sorbita le prediche del professore per niente. In quel modo non avrei ricavato poi molto; ma era pur sempre qualcosa. Sarebbe stato così facile chiedere a mia madre cosa sapeva di Laura e iniziare la mia ricerca da dove aveva interrotto la sua...
La padrona della vecchia casa di Laura in calle de los Ríos era mezza sorda ed era molto difficile capirsi al telefono. Le chiesi se potevo andare a trovarla e lei accettò tutta contenta. Viveva anche lei a El Olivar, in una villa che lei stessa definì grande e poi addirittura lussuosa, perché non sbagliassi.
Non mi portai dietro le valigette, ma solo un bloc-notes per prendere appunti. Era un peccato non avere la foto di Laura da mostrarle. I piani erano cambiati completamente: sarei andata prima a trovare la mamma, poi avrei mangiato qualcosa e da lì sarei andata alla stazione Chamartín. Sarei arrivata più o meno alle quattro e mezzo a El Olivar, un orario adeguato per far visita.
Non appena scesi dal treno suburbano calò il silenzio. Evidentemente gli abitanti non c’erano o stavano dormendo. Si sentivano solo gli uccelli e il suono di qualche irrigatore. I muri di recinzione e le porte di ferro seppellivano le case dietro i pini. Era molto difficile vedere qualcosa, nelle strade strette arrivavano solo grappoli di fiorellini pendenti e odore di terra bagnata che annunciava una pioggia lontana, come se una persona odorasse di profumo qualche ora prima di metterselo.
La signora viveva in via Rododendro numero 3, e in effetti era stata quasi modesta nel definirla villa, perché il suo muro di recinzione di pietra rosa occupava metà della strada. Dal cancello sarebbe potuto passare un esercito di elefanti. E non appena mi avvicinai alla villa, il cane della signora e quelli del vicinato, tutti insieme, si lanciarono contro le porte. Il quartiere tremò.
«Vieni pure. Non fanno niente», disse una cameriera con un’uniforme a quadretti rosa.
Ai cani, due dobermann neri, gocciolava la saliva dai canini. Però capirono subito che mi erano indifferenti. Loro stavano al loro posto e io al mio. Mia madre diceva sempre che aveva già abbastanza da fare per poter portare anche il cane a fare pipì, così non ne avevamo mai avuto uno. Mi ero limitata a giocare con qualche cane al parco e ad accarezzare quelli dei vicini e Gus.
«Rispettiamoci a vicenda», dissi loro.
La donna con la divisa a quadretti mi lanciò un’occhiata, i due cani mi stavano attaccati e grugnivano.
«Come ti ho detto non fanno niente», ripeté.
Per un attimo mi immaginai quella brava donna che se la vedeva brutta con i due cani prima di riuscire a fare in modo che prendessero confidenza con lei. E qualcosa dentro di lei la spingeva a verificare se al resto degli esseri umani succedesse lo stesso.
«Se adesso avessero voglia di aggredire qualcuno, non aggredirebbero me. Sanno che non voglio che succeda loro qualcosa di male e che non mi fanno neanche paura.»
«Parli con gli animali?»
Il suo tono risultò ironico e leggermente amareggiato.
«Non c’è bisogno. Loro, anziché vedere occhi, bocca e orecchie, vedono paura, codardia, coraggio, bontà e cattiveria. Hanno un cervello diverso.»
Non riuscì ad aggiungere qualcos’altro di ciò che la rodeva dentro perché ci venne incontro la padrona di casa. Sulle spalle portava uno scialle frangiato fatto all’uncinetto che la avvolgeva completamente. Era truccata pesantemente, come se lo avesse fatto al buio.
«Tu sei...»
«Sì», dissi. «Abbiamo parlato al telefono...»
«Entra.» Guardò i cani. «Ti danno fastidio?»
«Tranquilla. Non mi fanno paura.»
«Dovrebbero. Sono qui per questo.»
Parlava a voce molto alta e mi obbligava a fare lo stesso. Le nostre parole rimbombavano nel soffitto a volta dell’ingresso. Le dissi che aveva una casa molto bella.
«Ma se non l’hai neanche vista», replicò, e capii che con quella donna dovevo essere molto precisa, quasi scientifica nelle mie osservazioni.
Entrammo in un salone che dava su una parte del giardino con così tanto prato e fogliame che la tappezzeria, i vasi e i mobili sembravano un po’ verdi. Era molto piacevole, molto bello e molto solitario. Ci sedemmo su un divano di pelle morbida che praticamente mi risucchiò. Se non fosse stato per il tono frastornante della voce della donna e per il fresco che si godeva tra quelle mura, mi sarei addormentata.
La signora aveva i capelli corvini e cotonati in cima alla testa. Rimasi a guardarla assonnata e i cani fecero lo stesso.
«Quella lì», disse indicando la mensola del camino, «sono io, quando ero giovane, bella e forte.»
Sopra il marmo verdastro della mensola era appeso l’enorme ritratto di una ballerina di danza classica.
Le dissi che era davvero giovane, bella e forte per non peccare in eccesso o difetto con i complimenti. Annuì e girò la testa verso la porta.
«Mari!» gridò in un modo che svegliò sia i cani che me.
Mari arrivò subito con un vassoio d’argento, un servizio da tè d’argento e tazze di porcellana. Si capiva che pesava un accidenti e, mentre lo posava sul tavolo, sospirò sollevata.
Pensavo che il salone più lussuoso che avessi visto in vita mia fosse quello della Vampira, ma al confronto di quello della signora sembrava un tugurio. Mi pentii di aver lasciato le creme a casa. Ero certa che sarei riuscita a venderle quella con i diamanti e quella con l’oro.
«Deve idratare e nutrire la pelle», dissi rischiando che mi scacciasse dalla sua solitudine.
«Ma no.» Si accarezzò il viso e disse che arriva un’età in cui, che si abbia la pelle migliore o peggiore, non si smette di essere vecchia.
Approfittai della parola «vecchia» per nominare la nonna di Laura.
«Sì, la casa che avevo affittato alla sua famiglia è a tre strade da qui. Sono passati quasi vent’anni. Della bambina non mi ricordo bene, era una bambina normale, a modino, non dava fastidio. La nonna era grossa, aveva la pelle bianchissima e i capelli azzurrini, molte signore anziane all’epoca ce li avevano così oppure rosa. La mamma della bambina venne qui solo una volta. Era la classica mezza hippy. Era bruciata dal sole e aveva i capelli lunghi e aggrovigliati, un disastro.»
E non sapeva dove vivevano adesso?
Fece segno di no. Per proteggersi dal fresco del salone la brava donna si rimise lo scialle grande, nero e luccicante che le arrivava quasi ai piedi, ma io non volevo fare alcun gesto che le facesse pensare che volevo andarmene.
Accarezzò la testa di uno dei due cani.
«Pagavano con una precisione svizzera. Di solito veniva la nonna con la nipote e mi dava i soldi in contanti. A me andava benissimo perché così non dovevo fare prelievi in banca. E un giorno se ne andarono e non tornarono mai più. Non ricordo il nome della nonna né della mamma», aggiunse come se si stesse sforzando di ricordare. «La nonna si chiamava Lilí, donna Lilí, ti dice qualcosa? E la mamma della bambina aveva il nome di una vecchia attrice. A volte la nominava citando quel nome, ma non riesco a ricordarlo.»
«E il padre? Lo ha mai visto?»
Mi lanciò un’occhiata sospettosa: quella domanda non coincideva con l’idea che si era fatta di me.
«A nessun bambino piace essere diverso dagli altri e la hippy era una ragazza madre, questo me lo ricordo.»
Uscii contenta, avevo qualcosa in mano: una chioma azzurrina, un nome e la promessa di un nome. Andai tre strade più in là in cerca della villetta affittata, come la chiamava la signora con lo scialle dalle lunghe frange. Senza le valigette dei prodotti mi sentivo leggera come una piuma. Stavo facendo una cosa che nessuno mi aveva chiesto di fare ma che dovevo fare. In fondo temevo che mia madre avesse ragione e che mia sorella fosse viva, persa da qualche parte. Quella possibilità doveva spaventare molto mio padre, i miei nonni, Ana, e tutti quelli che durante tutto quel tempo si erano allontanati da lei.
Tetto di ardesia, alberi di cinque metri, pergolato, piscina, barbecue di pietra. Era a metà tra una villa e una villetta. Anche lì c’era un cane, in questo caso marrone e irrequieto.
Mi aprì un uomo stanco, con la barba di due giorni, e mi portò da sua moglie, in una zona in pieno sole chiusa dai vetri della veranda.
Era minuta, avvolta in una tuta rosa di ciniglia. Portava vari anelli d’oro e delle catenine sottili al collo e i capelli corti quasi come la barba di suo marito. Sfogliava lentamente le pagine di «Hola».
Le fece piacere che le dicessi che aveva una casa molto bella. Anche se mancava una fontana tra il cancello e la veranda, cosa che secondo lei annullava la bellezza dell’insieme.
«Porta qualcosa da bere alla ragazza», disse al marito.
Rifiutai. Le spiegai che ero appena stata dalla padrona di casa e che avevo preso il tè.
«Una donna antipatica, ma faceva la ballerina e ha...» Fece un gesto con le dita per dire che aveva molti soldi.
«Volevo solo ringraziarla per aver soddisfatto le mie curiosità al telefono.»
«Non c’è di che. Qui le giornate sono molto lunghe, si possono fare tante cose.»
Era una donna piena di energia, senza vezzi. Il marito si aggirava lì intorno come un fantasma grigio.
«Guarda, ho trovato un paio di cose che quella famiglia ha lasciato qui quando siamo subentrati nella casa.»
Si alzò senza pigrizia: all’inizio arrancò un po’ e poi quasi si mise a volare tra i mobili.
Tornò con una scatola rossa fatta di cartapesta. Si notava la mano di un bambino nella rifinitura. All’interno c’era la scritta: per la mia mamma.
«Mi dispiaceva buttarla. Se vuoi, prendila tu: gliela darai quando la vedrai. Ne sarà contenta. Le cose di quando eravamo bambini fanno sempre piacere.»
«Si ricorda l’indirizzo delle lettere?»
«Uff! È passato tanto tempo e credo che fossero quasi tutte della scuola, indirizzate ai genitori di Laura. Il cognome era...»
«Valero, forse?»
«Sì, una cosa del genere.»
«E non le dissero mai dove vivevano?»
Fece cenno di no.
«In centro. Ricordo che la nonna parlava di quanto fosse difficile uscire dal centro di Madrid in macchina.»
«Mi sembra che la madre della bambina avesse il nome di una vecchia attrice...» dissi.
«Erano visite molto rapide, a dire il vero.»
Uscii comunque contenta di lì con la scatola rossa in mano, fatta forse da mia sorella o forse da un altro bambino, chissà. Con il pretesto che il giardino era molto bello feci un giro dove forse Laura aveva giocato, e osservai i tronchi per vedere se su uno di essi fosse stato inciso un nome. Non mi meravigliava che mio padre non volesse entrare in quel gioco della speranza, era morboso ed era facile e angosciante immaginare mia madre che passava, come me in quel momento, di illusione in illusione e di disillusione in disillusione.
Avrei messo la scatola nella mia stanza.
Si era fatto tardi. Dovetti aspettare il treno locale più di mezz’ora: tra una cosa e l’altra, arrivai che erano quasi le nove. Per fortuna non c’erano chiamate in segreteria, e questo significava che in ospedale la situazione non era cambiata. Sul tavolo della cucina richiamavano l’attenzione due bicchieri con un residuo di vino. Si notava che le sedie erano state spostate e che qualcuno aveva portato un posacenere del salotto su un angolo del tavolo. In cucina non c’erano mai posacenere per non mescolare il fumo all’odore delle cose da mangiare. Dentro c’era la cenere intatta di una sigaretta. Mi si strinse lo stomaco al pensiero che Ana fosse stata lì, anche se almeno mio padre era presente e probabilmente non aveva potuto mettersi a frugare. Dovevano aver bevuto, mio padre diventava stupido con Ana, anche se sicuramente a mia madre non avrebbe dato fastidio perché tutto quello che faceva la sua amica le sembrava ben fatto.
Gettai la cenere e lavai i bicchieri.
Sul tavolo di mogano del salotto c’era un biglietto con la grafia di mio padre: Vado a fare un giro con Ana, non mi aspettare per cena. E all’improvviso sentii l’impulso di andare a controllare nella sua stanza da letto. Aprii l’armadio e verificai che si era messo la giacca più bella che aveva: era di velluto a coste blu scuro e gli piaceva molto. Mia madre gliel’aveva regalata al compleanno e la teneva da parte per le occasioni speciali. Mi addolorò pensare a mio padre con quella giacca e alla mano di duecento anni di mia madre. La vita era uno schifo fatto di piccoli schifi che volevo togliermi dalla testa.
Meno male che chiamò Ángel e mi tranquillizzai. La sua presenza spegneva qualunque fuoco. Sembrava che fosse venuto sulla terra per osservare e capire i terrestri e per portare sul suo pianeta un rapporto stilato senza pregiudizi né malintesi. Come si faceva a essere così? Lo ammiravo profondamente. Non assomigliava a nessun altro.
Non diede importanza alla faccenda di Ana. Disse che era meglio che papà si divertisse perché così avrebbe dormito bene e non avrebbe avuto distrazioni in taxi. Naturalmente lui non sapeva della foto e di Laura, non sapeva che il modo di comportarsi di nostra madre non era frutto del suo carattere ma di un grande dolore. E dovevo mordermi la lingua perché ero sicura che quei problemi e particolari puzzolenti che si putrefacevano nella mia testa lui non avrebbe saputo come incastrarli nell’animo umano in generale e nel mio cuore in particolare.
«Hai mai desiderato avere uno di quei cani marroni con il pelo lucido?» gli chiesi.
Mio padre, come sempre, si alzò all’alba. Sentivo la macchina del caffè in lontananza e lo scroscio dal rubinetto del bagno. Quando calcolai che doveva essersi vestito e probabilmente stava facendo colazione, andai in cucina.
Gli chiesi di Ana e lui tagliò corto, fu evasivo, non si aspettava di vedermi così presto né di dovermi dare spiegazioni.
«Era venuta a prepararci la cena e siccome tu non tornavi siamo andati a fare un giro.»
Non ebbi il coraggio di dirgli che quando ero andata a letto lui non era ancora tornato. Come potevo chiedere a mio padre se avesse una relazione con Ana? Come potevo anche solo pensare una cosa così perversa? Con quale diritto potevo instillare in mio padre il più sordido dei miei pensieri?
«Ana mi ha offerto da bere e poi sono stato a prendere un po’ d’aria per conto mio: ho fatto il giro del parco due volte. Betty e Ana hanno fatto un paio di viaggi insieme. È incredibile che abbiano delle vite così diverse. Se non avessi incrociato la sua strada, se non ci fossimo sposati, vivrebbe in un altro modo e non sarebbe in ospedale.»
«Se la mamma fosse Ana io non esisterei. E neanche Ángel, né... Laura.»
«Non cominciamo», disse. «Cercherò di passare tutto il pomeriggio in ospedale. Spero che tua madre non tiri fuori la storia dell’università, è un grande sacrificio per me non dirle la verità.»
Come fui felice di non aver detto a mio padre nessuna cattiveria. Voleva bene a mia madre e a noi, e Ana era un anello mancante nella nostra vita. Non tornai a letto. Mi misi i fuseaux e le cuffie e andai a correre al parco.
Vidi salire il sole tra gli alberi, i primi bambini che andavano a scuola, e non potei reprimere un’allegria che era fuori di me e che mi dominava, che non potevo smettere di provare come non potevo evitare che i raggi che scendevano dal cielo mi illuminassero il viso. Il cielo azzurro. Come si potrebbe spiegare cos’è a qualcuno che non l’ha mai visto? Non mi stancavo e feci ancora qualche giro. Passai davanti alle spalliere di lillà, davanti alle altalene dei bambini, dove mia madre aveva trascorso ore a osservarci e controllarci. Non ci aveva lasciato quasi mai con altri come facevano tante madri, che facevano a turno per essere più libere. Diceva sempre che i suoi figli non sarebbero mai stati così importanti per qualcun altro quanto lo erano per lei. Finalmente capivo perché era così ossessionata dalla nostra sicurezza. C’era odore di terra bagnata e di foglie.
Mentre mi facevo la doccia mi sembrò di sentire il telefono e tirai fuori la testa dalla tenda di plastica. Pensai subito all’ospedale e saltai fuori correndo dalla vasca, lasciando impronte bagnate per tutto il corridoio e il salotto e grondando acqua. I capelli mi gocciolavano sulla schiena. Era il dottor Montalvo che voleva chiedermi di mia madre, e provai un immenso sollievo: significava che alla mamma non era successo niente fuori dal normale e che quindi la vita non sarebbe peggiorata. Poi mi chiese se mi ero tolta quelle sciocchezze dalla testa, perché non avrebbe voluto per niente al mondo che mi ammalassi come Betty. «L’ossessione è un bozzolo», ripeté come il primo giorno, «e se non la curi potresti non trovare mai la via d’uscita», disse seriamente preoccupato. Io gli risposi che non ero sicura che fosse soltanto un’ossessione e che quando avessi avuto prove a sufficienza che mia sorella era ancora viva sarei andata a trovarlo. Sentii un brivido. Lui disse: «Uhm!» e riagganciò.
Non rimasi soddisfatta della conversazione o, per meglio dire, mi inquietò. Stavo impazzendo? Magari era un fatto ereditario, un’anomalia familiare, e lui stava indagando. Forse il dottor Montalvo mi conosceva meglio di quanto mi conoscessi io stessa. Era il primo psichiatra con cui avessi mai parlato e non avevo assolutamente idea che si preoccupassero tanto per i pazienti. O forse solo per quelli che erano in pericolo. Mi misi di nuovo sotto la doccia per riscaldarmi. Vidi che le gambe erano toniche dopo la corsa e mi ripromisi di non smettere di correre tutti i giorni perché, qualunque cosa fosse successa, dovevo essere forte e pronta a tutto. Avevano tutti bisogno di me, compreso mio padre.
Anche se i giorni passavano in fretta, quando non mi veniva in mente come continuare a cercare Laura sembrava che il pianeta si paralizzasse, che la vita della mia povera madre si paralizzasse. Così dovevo procedere a qualunque costo, anche se i miei tentativi andavano a vuoto la maggior parte delle volte. Per questo, senza un appuntamento né un’idea precisa di cosa avrei detto, andai dall’investigatore. Erano le undici di mattina e portavo con me una delle due valigette con l’essenziale per fare tre visite, che anche così pesava un accidenti. Sapevo che Martunis, se finalmente fossi riuscita a vederlo, non sarebbe stato ben disposto nei miei confronti perché non lo avevo assunto regolarmente, ma avevo la speranza che gli scappasse un’indicazione, un consiglio. Soprattutto avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi capisse, a cui non avrei dovuto raccontare tutta la storia, che non sarebbe rimasto sorpreso, che non avrebbe pensato che fosse un racconto fantastico, qualcuno che sapesse per esperienza che a questo mondo c’è gente capace di tutto. All’assistente di Martunis non sembrava assurdo che a mia madre avessero portato via la bambina. Era abituata a ogni genere di stranezza e al fatto che le cose più incredibili fossero normali. Mi imbattei in lei all’ingresso, nelle sue mani grandi e nella sua chioma nervosa. Era appena rientrata e appoggiò la borsa sulla sedia dall’altro lato della scrivania. Tintinnò come se fosse piena di monetine. Si sedette appoggiando una coscia alla scrivania: i jeans misero in risalto muscoli allungati e altri più rotondi. Scosse la testa e la chioma le ricadde sul seno sinistro. Indossava un maglione nero a collo alto completamente aderente alla pelle. Accanto a lei mi sentivo sicura, molto più che con mio padre, che era un uomo alto e forte. Lei era come i chirurghi, come gli psichiatri, come gli astronomi, a conoscenza di cose che la gente normale non vede nella vita quotidiana.
«Hai fatto qualche progresso?» chiese usando un tono professorale.
«Non lo so, per questo volevo parlare con il signor Martunis.»
Si mise in ginocchio sulla scrivania e allungò il collo oltre il paravento. Sarei stata a guardarla tutto il giorno. Dai pantaloni aderentissimi ai tacchi come stuzzicadenti, alla schiena dritta e massiccia. Quando alzò la testa, una cascata di capelli venne verso di me.
«Non so quando arriverà», disse lasciandosi cadere sulla sedia dalla scrivania e mettendosi a scrivere a tutta velocità sul computer come se i tasti pensassero da soli.
«Sai sparare?» chiesi, sorpresa da quello che stavo dicendo.
Alzò un po’ lo sguardo e la sua risposta mi lasciò sconcertata. «Non credere a tutto quello che ti raccontano.»
Stavo per dirle che nessuno mi raccontava niente e che il problema era proprio quello.
«Sei sola in questa storia, vero? Stai attenta, non fidarti di nessuno, non sai che tipo di gente ti ritroverai davanti. Quelli che hanno fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare, e che possono essere scoperti, hanno un vantaggio.»
«Quando ero piccola, mia madre mi diceva spesso che non dovevo fidarmi di nessuno», dissi sedendomi sulla poltroncina che era davanti alla sua scrivania.
«E perché te lo diceva?»
«Allora pensavo che dipendesse dall’apprensione. Adesso credo che me lo dicesse per mia... per Laura. Se è vero che le hanno portato via una figlia, è normale che non si fidi di nessuno.»
«Non immagini neanche tutto quello che ho visto seduta su questa sedia», disse togliendosi l’orecchino dall’orecchio destro. Un grosso cerchio dorato che doveva darle fastidio quando parlava al telefono. «La gente è capace di qualsiasi cosa innanzitutto per soldi, poi per odio e infine per amore, ma a volte, anche se crediamo di essere molto diffidenti, non lo siamo abbastanza. Nelle poche occasioni in cui tua madre è venuta qui mi è sembrata una persona con una grande ferita, ma anche un po’ ingenua. In fondo le faceva paura la crudeltà. Aveva scoperto che esisteva, ma non dov’era.»
Sinceramente, mi sarebbe piaciuto che mi abbracciasse e che mi dicesse che si sarebbe occupata lei di tutto, di quello che io non sapevo fare, di quello che mia madre non aveva potuto fare, di quello che le avevano fatto, di unire i fili staccati della nostra vita, di fare in modo che il mondo girasse come doveva. Da qualche parte devono pur esistere persone che sistemano tutto.
«E io?»
«Tu non sei tua madre. Non sei accecata dai sentimenti.»
«Vorrei mostrare a Martunis le informazioni che sto raccogliendo, chissà che non possa dirmi come trovare una scorciatoia e arrivare prima alla verità.»
«Ah, la verità, la verità...» disse appoggiandosi il telefono all’orecchio senza orecchino. «Vedrai che arriva un momento in cui i pezzi iniziano a incastrarsi da soli, senza che tu debba forzare le cose. L’acqua trova sempre una via d’uscita, per microscopica che sia. Quanti più dati hai, meglio è, perché arriverà un momento in cui ciascuno di essi cercherà e troverà il suo posto. È quello che facciamo qui, far sì che i dettagli trovino il loro posto e che l’acqua ci conduca alla sua via d’uscita. Pensi troppo. Gli riferirò che sei passata.»
Fu tempo perso. Non avevo ricevuto nessuna informazione chiara: María si era limitata molto educatamente a tenermi lontana dal suo capo. Perché non davo loro una parte del milione di pesetas lasciando che fossero dei professionisti a trovare Laura? Mi sembrava strano che mia madre avesse tagliato i ponti con l’investigatore con tanti soldi da parte, e questo significava che voleva destinarli ad altro.
Bighellonai un po’ dirigendomi verso la metropolitana. Nel quartiere c’era ancora qualche piccolo negozio che gli dava un’aria familiare: una macelleria, un fruttivendolo e una cartoleria. In vetrina erano esposte delle penne molto belle. Mi ricordai di un pomeriggio – avevo nove anni – quando, all’uscita di scuola, io e mio padre avevamo comprato a mia madre una cartolina dalla quale, quando la si apriva, usciva un mazzo di rose profumatissimo. E in seguito la proprietaria della cartoleria, tutte le volte che entravo a prendere qualcosa, mi chiedeva di mio padre.
Non entrai in metropolitana, continuai a camminare fino a un bar e mi lasciai cadere su una sedia di legno massiccio che mi si conficcava nella schiena, ma almeno mi permetteva di riposarmi dopo essermi trascinata dietro la valigetta. Con il caffellatte mi portarono anche dei dolcetti. Ero l’unica cliente. Ogni cinque minuti un cameriere mi chiedeva se volevo qualcos’altro. Di fronte c’era una piazzetta alberata e alcune pedaliere accanto alle panchine per fare ginnastica. Due anziani pedalavano e gli uccelli uscivano dai rami degli alberi come se l’aria stesse per strapparne le foglie. Non sapevo cosa fare. Forse stavo cercando la mia sorella fantasma per dimenticarmi del problema reale: la vita di mia madre era appesa a un filo. E la cosa più mostruosa era che io potevo godermi la vita, e anche gli anziani che stavano pedalando. Era quella la cosa più strana di tutte. Una signora entrò canticchiando con il carrellino della spesa. La vita poteva essere meravigliosa.
Notai la presenza del cameriere davanti a me. Perché doveva essere stata Ana a prendere la foto di Laura dalla cartella di pelle di coccodrillo?
«Desidera altro? Si sente bene?»
Poteva anche essere stato mio padre. Era stufo che una persona che non esisteva ci avvelenasse la vita. Evidentemente dava la colpa alla povera Laura del fatto che mia madre si fosse ammalata. Dare a qualcuno la responsabilità di ciò che ci succedeva era un sollievo, e mio padre doveva pensare che parte della colpa fosse di quella maledetta foto. Per questo lui non aveva dubbi su Ana.
Chiesi un altro caffè. Il lavoro che aveva fatto il cervello in quei minuti mi aveva spossato. Per un istante il cameriere dovette pensare che fossi una drogata o una tipa strana. Mi ero messa la valigetta tra le gambe, appoggiata a terra, come mi aveva consigliato la mamma. Quando sei in metropolitana, quando prendi un caffè, quando ti fermi a parlare con qualcuno, non perdere il contatto con la valigetta, perché se te la rubano ti rubano mezzo milione di pesetas. Perciò agli occhi del cameriere ero assonnata, un po’ fuori di testa e tenevo una valigetta tra le gambe. Anche se non gli sembravo pericolosa, la situazione lo sorprendeva. Sicuramente voleva che me ne andassi.
Pagai e feci visita a tre clienti che già mi conoscevano e per i quali mi ero vestita di tutto punto. Mi liberai della lecitina di soia, delle perle di enotera, di una crema all’oro e di varie confezioni che pesavano un sacco. Mangiai un panino nella stanza di mia madre. Le dissi che quel giorno non avevo avuto lezione e che la trovavo meglio, ma non era vero. Era smunta.
«Tuo padre è dimagrito.»
Le risposi di non preoccuparsi, che mangiava bene.
«Adesso sei tu quella che conta», aggiunsi. «Non conta nessun altro. Noi» – e mi riferivo anche a Laura, anche se lei non lo sapeva – «stiamo bene.»
Mi guardò con occhi resi straordinariamente grandi dalla magrezza.
«Tu credi?»
«Ne sono sicura. Il fatto che tu non veda che stiamo bene in ogni secondo non significa che non sia così.»
Lo dissi con una convinzione totale, cercando di fare in modo che quella frase fosse come un’iniezione che arrivasse fino al centro della sua ossessione per Laura. Volevo che capisse che anche lei stava bene.
«Sì», replicò. «Forse è colpa mia. La mia mania di controllare, di sapere tutto.» Sembrò rilassarsi. «Quanto hai ragione: la vita continua e non sono certo io a farla andare avanti. Non si sa mai cos’è il meglio per una persona. E neanche tuo padre ha colpa del fatto che io non sappia tutto.»
Annuii e le risistemai le lenzuola. Mia madre iniziava a pensare che forse la sua figlia fantasma aveva una bella vita anche senza di noi.
«Chissà», sospirò.
«Non possiamo sentirci responsabili di quello che non è in nostro potere. Si fa quel che si può», dissi anche per me stessa.
Tirai fuori dalla valigetta una delle creme e la usai per farle un massaggio al viso. Le rimaneva ben poca pelle sulle ossa.
«È quella ai diamanti?»
Gliela lasciai nel cassetto del comodino.
«Queste qui le vendo come se fossero caramelle.»
Sorrise. Era orgogliosa di me. Continuò a sorridere fin quando uscii dalla stanza, non so se dopo continuò a farlo ancora un po’.
Era terribile, ma iniziavo ad abituarmi a quell’andirivieni, alla mia nuova vita, alla casa senza mia madre. Non ero felice, ma sopravvivevo e mi rendevo conto che non sarei potuta uscire da quella prigione finché non mi fossi sentita in pace. Perciò quando la domenica mattina Mateo bussò alla porta non mi scomposi.
Mio padre aveva appena finito di fare colazione e stava per andare in ospedale. Era il secondo fine settimana che faceva così. Avrebbe comprato i quotidiani e qualche rivista all’edicola dell’ospedale e avrebbe passato la giornata a leggerli con la mamma. Se lui era lì, io mi dimenticavo di tutto per un po’. Mentre caricavo la lavatrice progettavo di andare a correre al parco, fare una quindicina di chilometri o di più, finché le gambe avessero retto. In quel momento suonò il campanello. Mio padre si stava mettendo il portafogli in tasca quando aprì la porta. Rimasi paralizzata nella lavanderia sentendo quella voce, che mi provocò un milione di sensazioni. Me lo immaginai. Doveva avere un paio di pantaloni corti e una maglietta, una coda fatta senza guardarsi allo specchio. Sentii i passi di mio padre.
«Dice di essere un tuo amico, è un certo...»
«So chi è. Digli di aspettare in salotto.»
Quando mio padre uscì, chiusi la porta della cucina – davanti alla quale Mateo doveva passare per forza per arrivare al salotto – dove doveva essere tutto in disordine. Mi sembrava molto insolente che si presentasse così a casa mia, di punto in bianco. Per caso io ero andata a casa sua? Non sapevo neppure dove abitava. Mi sistemai i capelli come meglio potei, specchiandomi in un vassoio di alluminio, e mi cambiai la maglietta prendendone una dal cesto dei vestiti puliti. Mi lavai la faccia. E perché mi prendevo tanto disturbo?
Quando entrai in salotto vidi che stava osservando la collezione di classici sulle mensole. Indossava il suo abbigliamento di sempre: aveva la maglietta nera e teneva in mano l’impermeabile ricordo del padre che usava per andare in moto.
«Ciao», dissi.
Quando si girò mi venne voglia di sorridere, di lasciarmi andare. Mi faceva piacere vederlo, ma mi trattenni. Da quando vendevo i cosmetici e i prodotti dietetici, sapevo che non è bene lasciarsi trasportare e che non bisogna perdere di vista gli obiettivi, per quanto ci stiano simpatici i clienti.
«Quello era tuo padre?» chiese ammirato come tutti quelli che lo vedevano per la prima volta. «E tua madre?»
«In questo momento non c’è.»
Mi si avvicinò e mi prese il viso tra le mani. Sentii il freddo dell’anello. Mi baciò. Chiusi gli occhi per fare finta che fosse notte come la prima volta, ma, anche se si chiudono gli occhi, dalle palpebre filtra sempre un po’ di luce. Non fu la stessa cosa: eravamo a casa mia e non riuscivo a non pensare a niente.
«Mi meraviglia che tu sia venuto. Non so che dirti», dissi mentre la saliva che mi aveva lasciato sulla bocca si asciugava.
«Avevo bisogno di vederti. Avevo pensato di chiamarti, ma poi sono salito d’istinto in moto ed eccomi qui. Vuoi fare un giro?»
«Va bene. Vado a cambiarmi. E non mi seguire, per favore.»
Non avrei sopportato di vederlo nella mia stanza, anche se in fondo mi sarebbe piaciuto infilarmi nel letto con lui.
Andammo con il motorino al parco Casa de Campo e ci fermammo vicino al lago. Era una mattinata grigia e minacciava pioggia. Non c’era tanta gente. Le canoe scivolavano veloci, occupate da uomini che sembravano avere solo il busto, e le carpe nelle vetrine dei ristoranti avevano un’aria smorta, come se fossero fuori stagione. La vicinanza di Mateo, il suo odore mi facevano immensamente felice. In quel momento la vita era e non era meravigliosa.
Ci sedemmo il più vicino possibile all’acqua, su dei massi. Il Palo gli aveva detto che ero passata al locale qualche giorno prima.
«Sono stato molto male, ho avuto la bronchite acuta. Credo che mi sia venuta quando ti ho riaccompagnato a casa senza impermeabile.»
Gli dissi quello che mi aveva raccontato la Principessa. «Vivrete in una roulotte.»
Rispose che aveva molta immaginazione e che prima di conoscermi forse lo avrebbe fatto, ma adesso era tutto diverso.
«Patricia è una manipolatrice», aggiunse irritato. «È quasi riuscita a rovinarmi le cose belle che mi sono capitate ultimamente.»
«Ma il bambino? Mi ha detto di essere incinta.»
«Non credere a niente. È capace di qualunque cosa pur di non perdermi. Sono stufo.»
Mi attirò a sé e ci baciammo. Era di nuovo come quella sera nella piazzetta. Era come se stessimo marcando un posto dopo l’altro. La sua lingua, la sua bocca, le sue mani su di me. Troppo meraviglioso.
«Come può dire una cosa del genere se non è vero?»
«Ha molta fantasia. È una vita che parla di questa storia della roulotte. E dove la dovremmo parcheggiare poi? Voglio stare con te tutto il giorno, oggi non ho le prove.»
«Se vuoi possiamo mangiare qui e fare una passeggiata. Poi potremmo andare al cinema.»
Da lì si vedevano gli edifici lontani di plaza de España che sembravano fossili.
«Perché non andiamo a casa tua, in camera tua?» chiese avvicinando la testa alla mia e intrecciando i capelli con i miei.
«C’è mio fratello», risposi, pensando che Ángel si era perfettamente sistemato ad Alicante.
«Possiamo chiudere la porta a chiave.»
Mi alzai. Il masso mi si era conficcato nel sedere.
«Mi piacerebbe, mi piacerebbe molto stare con te, ma la porta della mia stanza non si può chiudere a chiave.»
«È per Patricia.»
Gli dissi di no, ma finimmo per discutere. Gli chiesi di portarmi a casa. Iniziava a piovigginare.
Mi pentii di non aver portato Mateo nel mio letto quando lo vidi mettere in moto e alzarsi il bavero dell’impermeabile. La pioggia era aumentata e già non lo si vedeva più. Mi pentii durante i due giri di corsa del parco, mentre aprivo il cancello e la porta di casa, tiravo fuori i panni dalla lavatrice e li stendevo. Perché no? Perché non mi ero permessa di godermi quel momento?
Non riuscivo a smettere di pensare a quanto sarei stata felice con Mateo, il ragazzo che più mi era piaciuto dai tempi dell’asilo.
Non sapevo come sfogare la rabbia che provavo verso me stessa e mi misi a cucinare; così avremmo avuto da mangiare per tutta la settimana. Avremmo dovuto solo scongelare le pietanze o scoperchiare i Frigoverre. Polpette al sugo, pasta al forno. Andai al supermercato a cercare gli ingredienti per fare un baccalà con l’uva passa, verdure lesse, stufato di carne e crocchette. Quando ebbi finito, non ero ancora abbastanza stanca e misi a posto i prodotti delle valigette. Feci i conti con precisione e me li segnai in maniera scrupolosa. Misi in ordine il mio armadio come non era mai stato in tutta la sua esistenza e siccome non riuscivo a essere così esausta da potermi riposare distesa sul divano, mi feci la doccia, mi vestii come quando avevo conosciuto Mateo in metropolitana e mi avviai verso il locale delle prove.
Ci avevo pensato su, e adesso volevo davvero stare con lui. Se non poteva essere la mia stanza, avremmo cercato un altro posto; la sua, per esempio.
Arrivai verso le undici. Avevo dimenticato di cenare e, invece di essere stanca per tutto il lavoro che avevo fatto, mi sentivo leggera, come se volassi tra le persone sulla soglia e le ombre di dentro. La musica era alta e sembrava sempre la stessa canzone. Il Palo mi portò una birra. «Ti ho visto fuori», disse. Io non guardai nessuno per non sentirmi osservata. Mi sarebbe piaciuto essere invisibile per tutti tranne che per Mateo. Gli chiesi quando avrebbe finito di suonare.
«Mi ha detto di dirti di aspettarlo.»
«Davvero?»
Mi sorprendeva che avessero già parlato di me. La birra mi si stava rivoltando nello stomaco.
«Digli che lo aspetto fuori.»
Mi allontanai dal forte odore di spinelli dell’entrata. Stavo per vomitare. A vari metri da lì il fresco della notte mi fece bene. Cercai la moto di Mateo e mi sedetti. Appoggiai le braccia al manubrio e la testa sulle braccia. Avevo molte cose in mente e niente nello stomaco. C’erano mia madre, le stelle, Mateo, la Principessa incinta, mio padre, l’università che non stavo frequentando e i professori che non avevo, la Vampira con il livido sulla spalla e la sua vita fatta di lussi, c’era tutto: quello che meno mi preoccupava era Ángel. E c’era Laura, il centro dell’universo. C’era la luna tra raffiche di fumo.
Sentii una mano sulla spalla.
«Ciao», disse la Principessa d’oro.
Non scesi dalla moto. Ero stufa di lei e dei suoi piagnistei, delle sue manipolazioni. Era quel genere di ragazza che sembra avere più diritto degli altri a tenersi quello che le piace.
«Sto aspettando Mateo.»
«Lo so e non mi importa. Non andiamo più a vivere in roulotte.»
«Perché?»
«Vuole vivere in una casa normale.»
Rimasi assorta in fondo ai suoi occhi azzurri. C’erano pesci e castelli, barche perdute, coralli.
«In quale casa normale?»
«In una che ci regalano i miei a cinquanta chilometri da qui. Potremo prendere dei cani e un cavallo.»
«Sanno del bambino?»
«Sono al settimo cielo, ma io non sono sicura di volerlo tenere.»
«Perché? In quella casa sarà molto felice.»
«Vedremo», rispose.
Mi sistemai meglio sul sellino, non avevo intenzione di andare via.
«Mateo finirà per farti soffrire, credimi.» Mise uno stivale sul parafango. «Sa essere molto egoista.»
Stavo per dirle che qualche ora prima mi era venuto a cercare a casa, ma riuscii a non cadere nel suo gioco.
«Non mi dà quest’impressione.»
«Non ti dà quest’impressione?» Sorrise. «Non ti dà quest’impressione. Sei una bambina, anche se sembri un’adulta.»
Ero sempre sembrata più grande di quanto fossi in realtà: all’ultimo anno di scuola media tutti pensavano che frequentassi il liceo e al liceo pensavano che andassi già all’università. Adesso avrei potuto avere figli e quasi trent’anni. Lei invece dimostrava molti meno anni di quelli che aveva sotto l’azzurro degli occhi e della pelle trasparente. Non era ingenua, non era tenera come un agnellino.
«Credo che sia egoista con te, non con me. Credo che non ti ami.»
Mai e poi mai avrei creduto di essere capace di uscirmene con un’affermazione del genere.
«Non ama neanche te», ribatté addolorata, togliendo il piede dalla moto.
Cosa faceva, a parte inseguire Mateo? Studiava?
«Anche tu ti occupi di musica?» le chiesi, realmente interessata.
Fece cenno di no con la testa.
Le punte morbide della cresta si mossero come l’erba di un campo.
«Cosa studi?»
Si allontanò. E quando stavo per chiederle se lavorava non c’era più. Se ne andò a grandi falcate, che era il modo che aveva di distruggere la sua eleganza naturale. Iniziai a sospettare che forse non faceva niente, che la sua missione fosse essere innamorata di Mateo e che pertanto avrebbe dedicato tutte le sue forze a quell’impegno e io non avrei mai potuto competere con lei. E mentre aspettavo Mateo iniziai a sentirmi sempre più ridicola e provai una grande stanchezza. L’unica cosa che mi rincuorava era che era stato lui a venirmi a cercare e che avevo molta voglia di vederlo.
Quando scesi dal sellino per andarmene di corsa da lì, comparve venendo in fretta verso di me. Nell’oscurità mi piaceva infinitamente di più. Nell’oscurità era tutto ciò che volevo.
Non mi diede il tempo di parlare.
«Andiamo!» esclamò mettendo in moto.
Mi strinsi alla sua schiena. Avevo fatto bene a venire. Se non mi fossi decisa, non avrei avuto quel momento.
Non pensavo a niente. Non andavamo verso casa mia e non avevo motivi per preoccuparmi. Ci fermammo accanto a un portone con le sbarre di alluminio. Non c’era l’ascensore e salimmo in silenzio per tre piani, respirando ogni volta più forte. Mateo tossì, fumava molta erba.
«È la casa di un amico, dello spilungone che sta sempre davanti alla porta del locale.»
Cercai di non pensare allo spilungone, che per me era il Palo, né al fatto che gli avesse lasciato la casa. Cercai di non guardare le lenzuola. Mi concentrai su Mateo: preferivo vederlo nudo per la prima volta al buio e che facessimo l’amore di notte, in una casa sconosciuta e in un letto che in seguito avrei visto solo nei miei ricordi. Era come se non stesse succedendo, come tutto quello che ci piace e che sembra un sogno. Anche se la luce era accesa, non era come di giorno, era un desiderio che si realizzava. Preferii tornare a casa in taxi e Mateo non insistette per accompagnarmi.
Durante il tragitto, mentre le ombre della notte accarezzavano il mio viaggio, non riuscivo a smettere di guardare l’anello che Mateo aveva tirato fuori dalla tasca dell’impermeabile. A quanto pareva era venuto a casa mia con l’intenzione di darmelo, ma poi con la litigata gli era passata la voglia. Era una copia del cobra che portava lui. E siccome mi stava un po’ largo, me lo misi al medio.
Mi mancava Mateo, soprattutto quando andavo a trovare mia madre. Quando ero con lei me ne dimenticavo, ma all’uscita mi ritornava in mente. Lui era la vita meravigliosa. Era una settimana che non lo vedevo e non sapevo niente di lui, e quando mi veniva la tentazione di andare al locale capivo che non dovevo farlo perché quel desiderio si era realizzato e non dovevo forzare niente. Se la vita voleva che ci ritrovassimo ci saremmo ritrovati. Volevo che per una volta il destino si occupasse un po’ di me, e non sempre io del destino. Così come mi aveva concesso una sorella fantasma, poteva concedermi Mateo, anche se sapevo, in qualche modo sapevo, che Mateo non sarebbe sopravvissuto nelle mie altre vite, quali che fossero le vite che in quel momento non potevo avere.