4.
LAURA, RACCOGLI LE TUE COSE
La mia prima scuola si chiamava Esfera, ma quando ci trasferimmo da El Olivar all’appartamento sopra la pelletteria mi iscrissero a un istituto di suore.
Eravamo a metà di una lezione di geografia quando era entrato il direttore. Il professore era rimasto a guardarlo con il gesso in mano. Era una visita inattesa che in genere si verificava solo quando succedeva qualcosa di grave, come la morte di un familiare o un allarme bomba. L’insegnante si era avvicinato al direttore con un’espressione spaventata. Avevano parlato a bassa voce e, a mano a mano che la conversazione procedeva, il professore aveva raddrizzato la schiena: non stava accadendo niente di grave. Ci aveva osservato da sotto le folte sopracciglia, aveva percorso la classe con il suo sguardo cupo e lontano e lo aveva fissato su di me.
«Laura, raccogli le tue cose, sono venuti a prenderti», disse.
Trenta teste si voltarono verso di me. Non reagii. Stavano aspettando tutti che dicessi qualcosa, che chiedessi spiegazioni; volevano capire.
«Laura, ti stanno aspettando», ripeté il professore, che indossava sempre pantaloni di velluto a coste con un gilet coordinato, che a fine giornata erano completamente ricoperti di polvere bianca.
Feci ciò che ci si aspettava da me, piena di vergogna perché ero l’unica. Chiusi il libro e lo misi nello zaino, insieme ai quaderni e all’astuccio con le penne e le matite. Senza scambiare neanche uno sguardo con nessuno dei miei compagni, arrivai all’altezza del terzo bottone del gilet del professore.
«Vai in direzione», disse lui girandosi verso la lavagna.
Non ritenne che fosse necessario aggiungere altro. Ero una bambina di dodici anni che doveva accettare la vita così com’era. Finché non fossi stata grande, non avrei potuto lamentarmi e protestare.
Con lo zaino in spalla mi diressi verso il temutissimo ufficio. Avevo i jeans con le stelline argentate sulle tasche e la felpa rossa, i miei vestiti portafortuna. I capelli mi arrivavano a metà schiena: erano lisci e biondi perché Lilí me li schiariva con la camomilla. Ero più o meno così quando vidi mia nonna seduta di fronte al direttore.
«Bene, eccoti qui», esordì lui alzandosi. «Mi dispiace molto che tu debba lasciarci, sei un’alunna modello.»
Mia nonna si alzò con il suo miglior sorriso. Indossava un cappotto di lana bianca che la faceva sembrare più alta. Piegò la testa di lato per parlargli.
«È una scuola meravigliosa», disse, «perché è guidata da un direttore eccezionale.»
Lui le baciò la mano e ci fece strada in corridoio. «Spero proprio che qualche volta possa venire a trovarci», concluse accomiatandosi.
Mia nonna rise con la sua tipica risata che ti penetrava nelle ossa. «Che gentile, che gentile.»
Quando salimmo in macchina, Lilí cambiò espressione. Non doveva più cercare di essere ammaliante. Adesso era tutta assorta nei suoi pensieri e non la si poteva distrarre.
Io non ero un’alunna modello. Tutti i giorni, dopo la scuola, dovevo dedicarmi per quattro ore alla danza e riuscivo a malapena a fare i compiti. Potevo studiare a stento. Di mattina, quando mi avvicinavo al cancello della scuola e vedevo il nome – ESFERA – sulla facciata, mi veniva il mal di pancia. Supplicavo il vento e il sole che a nessun professore venisse il ghiribizzo di chiedermi qualcosa.
La cosa migliore erano gli allenamenti di basket in cortile. Li avevamo due volte a settimana ed era l’unico momento in cui non pensavo a niente: correvo, saltavo e mi prendevo a spintoni con le mie compagne. Volavo e mi sentivo felice.
«Domani andremo a vedere la tua nuova scuola.»
Mi misi a piangere. Non volevo cambiare, perché una scuola era sempre una scuola, e almeno quella la conoscevo già. Non pensavo di essere in grado di ricominciare da zero. Lilí mi disse di piangere pure quanto volevo, di sfogarmi.
Stavo ancora singhiozzando quando entrammo nel nuovo appartamento, sopra il negozio. La mamma era in Thailandia e Lilí si lamentò di dover fare tutto da sola. Piansi in bagno e nella mia stanza. Non so quanti litri di lacrime versai. All’inizio uscivano dagli occhi, ma poi risalivano dalla pancia, come se la pancia fosse un lago.
Lilí disse che la nuova scuola era più vicina a casa e che sarei stata contenta del cambiamento perché c’erano delle suorine tanto carine.