25.
VERÓNICA TORNA ALLA CARICA
La aspettavo all’angolo e, non appena uscì, Laura mi vide e venne verso di me. Doveva passare da casa per prendere lo scialle di sua nonna: in negozio, con la porta che si apriva e si chiudeva in continuazione, c’erano correnti d’aria. Mi appoggiai al muro pronta a continuare ad attenderla lì, e a quel punto lei mi disse: «Vieni, se vuoi».
Era un’opportunità unica per conoscere la casa di quella che poteva essere mia sorella. Il mio cuore accelerò un po’, come se sapesse qualcosa in più di me. Il portone era accanto alla pelletteria.
«Mia nonna e mia madre non ci sono, sono appena scese in negozio», disse per tranquillizzarmi e tranquillizzarsi.
«E tra l’altro non mi conoscono», aggiunsi io. «Potrei essere una tua amica. Avrai qualche amica, no?»
Era un palazzo signorile vecchio come il cucco con un enorme portone per far entrare le carrozze con i cavalli; in fondo c’era un giardino.
«Entra prima tu e di’ al portiere che vai allo studio dentistico. Sali al primo piano, poi vengo io.»
Ci ricongiungemmo su un pianerottolo con il pavimento di marmo bianco e nero e una vetrata da cui nei giorni di sole doveva entrare una luce molto piacevole. La casa odorava di incenso. L’incenso doveva essere una cosa di Greta e i mobili, che sembravano di ottima fattura, della nonna. Erano dello stesso genere del tavolo di mogano del nostro salotto. Ce n’erano troppi: due tavoli da pranzo, due tavolini, molte sedie e poltrone. Sicuramente avevano dovuto fare posto ai mobili della casa di El Olivar quando l’avevano lasciata.
«È sopra il negozio. Quando non ci sono molti clienti, si sente la sedia a rotelle di Lilí.»
L’appartamento era grandissimo, con fiori di gesso sul soffitto, porte scorrevoli e lampadari di cristallo. La seguii per un corridoio interminabile fino alla stanza della nonna, che era tutta bianca: copriletto, tende, pareti. Aprì una cabina armadio e prese uno degli scialli bianchi ordinati per dimensioni.
«Qual è la tua stanza?»
«A destra, svoltato l’angolo. Lì ci sono le stanze di mia madre», disse indicando una saletta con kilim appesi al muro e cuscini in stile etnico.
«Che bello!» esclamai sulla soglia.
«Ha una saletta per ricevere gli ospiti, la stanza da letto», disse facendomi entrare, «e un bagno. A lei piacciono queste cose. Tutto quello che vedi lo ha portato dal Marocco. I quadri li dipinge lei.»
Sembravano opera di un bambino, ma i colori erano vivaci. Mi guardai intorno e me la immaginai distesa sui cuscini con le sue gonne lunghe. C’erano dei tavolini bassi intagliati molto belli e fu allora che mi accorsi di una cosa che mi era molto familiare: la cenere intera, non spezzata, di una sigaretta in un posacenere di argento inciso. Era una cosa che avevo visto solo in casa mia, quando ci veniva a trovare Ana.
«Tua madre fuma?»
Laura si mise a camminare molto in fretta.
«Farò tardi al conservatorio», disse.
«La cenere di quel posacenere è di tua madre?»
«In casa la mamma fuma solo qualche volta uno spinello con Larry. Mia nonna fa il diavolo a quattro.»
«Oggi tua madre ha avuto visite?»
«Non lo so», rispose mentre attraversavamo il salone principale, pieno di mobili scuri. «Forse è venuta Ana. Lei fuma Marlboro Light.»
Ana fumava Marlboro Light. Era o non era un caso? Che ci faceva Ana lì?
Scesi le scale confusa. Se era la stessa Ana, non poteva essere un caso. Attraversai la strada e aspettai che Laura desse lo scialle a sua nonna. Poi venne correndo verso di me e ci dirigemmo verso il conservatorio. Iniziò a parlarmi delle sue allieve, aveva riposto molte speranze in una di nome Samantha, di un’eleganza incredibile, fresca, perfetta.
«E tu? Perché non fai la ballerina?»
«Ci ho provato, ma io non sono speciale, non sono come Samantha.»
Mi fermai per guardarla, era due o tre centimetri più bassa di me e con gli stivali la superavo di tutta la fronte.
«Questo te lo ha fatto notare qualcuno?»
«Non ce n’è bisogno, uno se ne rende conto da solo. Un ballerino sa perfettamente cosa gli manca.»
A un certo punto della mia vita avrei dovuto pensarci, non avevo mai considerato le cose da quella prospettiva. Non mi ero mai chiesta se fossi perfetta per qualcosa, credevo che gli altri fossero imbranati proprio come me.
«Quella tizia, Ana, l’amica di tua madre, ha un cane che si chiama Gus?»
«Mi sembra che abbia un cane, ma non lo porta mai, a mia nonna non piace.»
«Ed è alta, bel fisico, mora con qualche ciocca bianca che sembra tinta apposta e ha un amante in Thailandia?»
«Proprio così. Lei e la mamma sono state molte volte in quel paese, lo adorano. Devo prendere l’autobus, sto facendo tardi e non voglio dare un cattivo esempio alle mie allieve.»
La lasciai alla fermata vicino al parco, in mezzo all’oscurità, con la luna tra i rami alti e le luci di qualche lampione.
«Aspetta!» gridò quando mi ero già allontanata di una decina di metri. «Come fai a conoscere Ana?»
Proseguii per la mia strada. Meno ne sapeva Laura, meglio era. Non sapevo fino a che punto sarebbe stata capace di tacere, di mentire. Mi preoccupava che non sapesse fingere e ingannare la sua adorata nonna. Le avevano chiuso la testa con una chiave d’oro. Nessuno poteva deluderla perché lei si adattava a tutti.
Adesso i pezzi stavano iniziando a incastrarsi e prima o poi avrebbero formato un quadro completo della verità. Se avessi raccontato quella storia alla mamma sarebbe rimasta di sasso. Sicuramente Ana conosceva Laura da molto tempo, era amica di sua madre fino al punto da andare con lei in Thailandia. Mia madre non era arrivata a scoprirlo, si fidava di Ana, le raccontava i suoi progressi nella ricerca. Adesso ero certa che Ana avesse rubato la foto di Laura dalla cartella di coccodrillo perché non avessimo nessuna prova della sua esistenza. Avrei dovuto insistere con Laura perché non raccontasse assolutamente niente di me e dei miei sospetti. Avrei dovuto ammonirla di essere forte con la nonna e di non lasciarsi piegare dalla sua voce. Mi sembrava capacissima di farsi scappare qualcosa e a quel punto l’avrebbero convinta a non darmi ascolto, a ritenermi pazza, e tutto sarebbe finito lì.