18.
LAURA, PARIGI TI CHIAMA

Provavo nostalgia per quell’inverno in cui, come se fosse la cosa più normale del mondo, comprai un biglietto aereo per Parigi con i soldi che avevo risparmiato da quello che mi dava Lilí per il lavoro al negozio. Era poco, ma io non ero una commessa, ero la futura padrona, e sarebbe stato assurdo togliere il denaro a me stessa. A dire il vero, però, non avevo molte spese. Qualche biglietto del cinema, qualche cena al ristorante, qualche serata in discoteca; i vestiti me li comprava Lilí, e non badava a spese perché voleva che sua nipote fosse elegante sia dentro che fuori dal negozio. Le scarpe e gli accessori li prendeva da lì e gli abiti li sceglievamo insieme quando uscivamo a fare compere. A mia madre piaceva lo stile hippy, orientale, etnico, un po’ sopra le righe, e non ci accompagnava mai.

In aeroporto mi aspettava Pascual. Aveva chiesto un permesso al laboratorio per venirmi a prendere e ci mettemmo due ore per arrivare a casa sua perché abitava in un quartiere periferico, Montreuil. Era un po’ lontano dal centro, ma la metropolitana era veloce e la città meravigliosa. Mi piaceva tanto il modo in cui Pascual parlava francese con le persone e mi piaceva vederci seduti in uno di quei caffè all’aperto del Marais. Mi immaginavo di uscire dal mio corpo per mettermi a osservare quella coppia di innamorati. Lui più grande di lei, ventotto anni, con un cappotto di lana blu mare e una sciarpa enorme avvolta intorno al collo con quattro giri o che lasciava cadere fino ai piedi. Capelli nerissimi e barba incolta come se cercasse di essere già un vecchio saggio, parlava con entusiasmo della vita e del suo lavoro mentre si rollava una sigaretta. Lei stava molto bene, appoggiata a lui e con il viso affondato nella sciarpa, aspirando l’odore di lavanda dell’acqua di colonia che Pascual usava sempre. Lui, una volta preparata la sigaretta, le metteva il braccio sinistro sulle spalle e con la mano destra si portava la sigaretta alla bocca e poi la allontanava, tirando lunghe boccate.

Lo avevo conosciuto alla festa di compleanno di una compagna di scuola. Era il fratello del suo fidanzato e la mia amica mi disse che appena ci aveva visti insieme aveva capito che saremmo andati d’amore e d’accordo. Quello che voleva dire era che io ero uscita con ben pochi ragazzi e anche lui aveva avuto poche esperienze. Io perché stavo sempre con Lilí e lui perché era molto timido e perché la cosa che lo preoccupava di più era il suo futuro. Avevamo iniziato a frequentarci subito. Veniva a prendermi in negozio o andavo io a prenderlo all’università, fin quando non aveva vinto la borsa di studio all’Institut Pasteur. Ero molto orgogliosa di tutto ciò che faceva Pascual e di avere un fidanzato scienziato e non un fannullone. Né Lilí né la mamma dicevano niente, ma quando era partito credo che Lilí ne fosse contenta. Mi aveva detto che anch’io dovevo pensare al mio futuro.

A Parigi, però, era tutto diverso. Mi sentivo completamente libera. Mi ricordavo a stento del negozio e della mia famiglia e, quando me ne ricordavo, provavo rimorso per averli dimenticati così in fretta, mi sentivo un mostro senza sentimenti, un mostro felice. Non mi importavano i viaggi interminabili in metropolitana, né che la casa fosse tanto piccola e buia, perché succedeva tutto dentro un’avventura, la mia avventura. Non mi rendevo neanche conto che vivevamo di niente. Gli amici di Pascual si offrirono di cercarmi delle lezioni di danza e io iniziai a propormi come insegnante nei centri culturali del quartiere. Mi meravigliava quanto fosse facile lasciarsi qualcosa alle spalle, quanto sarebbe stato facile rimanere a vivere lì e non tornare mai più. E iniziavo già a pensare come comunicare a Lilí e alla mamma che mi sarei trattenuta per un periodo per imparare il francese, quando ricevetti una telefonata che stroncò il progetto più fantastico di tutta la mia vita.

Era mia madre, chiamava per dirmi che dovevo tornare a casa perché Lilí era caduta. Le ginocchia avevano ceduto ed era in ospedale. La mamma non poteva pensare al negozio e prendersi cura di Lilí, non poteva occuparsi di tutto e mi disse di tornare subito. Non me lo chiese, me lo ordinò; non c’era alternativa.

Quando Pascual ritornò a casa quella sera, mi trovò che facevo la valigia. Un suo amico mi aveva trovato delle lezioni di due ore per tre volte a settimana, e quello era solo l’inizio. Non volli sentire altro, non volevo immaginare la mia meravigliosa vita a Parigi: la caduta di Lilí mi aveva strappato tutti i sogni.

Dopo soltanto due giorni ero di nuovo a Madrid. Mia nonna era già uscita dall’ospedale e mi aspettava prostrata su una sedia a rotelle. Mi accolse piangendo. Le lacrime le scorrevano lungo il viso bianco, il viso tondo. Io non avevo voglia di piangere. Ero un soldato che avrebbe fatto il suo dovere. I venti giorni trascorsi a Parigi erano stati tutta una vita che avrei potuto vivere.

Tornai a farmi carico del negozio e dopo pochi giorni la mamma partì per un viaggio. Disse che non ce la faceva più, che doveva staccare. Io ero giovane, avevo più forze, lo capivo, non potevo fare diversamente, non potevo essere irresponsabile come lei.