20.
LAURA E LA RAGAZZA DEL COBRA
«Vorrei provare quegli stivali di pitone.»
Era una ragazza con i capelli neri e ricci che le arrivavano alle spalle, pelle chiara, pallida, occhi marrone scuro e una giacca di cuoio consumato lungo le cuciture, con una fibbia che ballava sui jeans. Si notava che era forte e dura, e tutti i vestiti che indossava erano a un millimetro dallo starle stretti. Mi piacque il suo stile. Portava anche un anello con un cobra che le arrivava alla nocca del medio destro.
«Sono perfetti per te», le dissi mentre andava da una parte all’altra del negozio provando gli stivali. Ci aveva infilato dentro i pantaloni, ed erano ancora più belli che in vetrina. La ragazza mi era familiare, l’avevo già vista. Fronte spaziosa e sopracciglia folte. Dove l’avevo incontrata? Che fosse un personaggio televisivo?
«Credo che li prenderò», disse sedendosi di nuovo e tenendo lo sguardo fisso sulle punte come se parlasse con loro. Adesso mi ricordavo. L’avevo vista in negozio. Non era la prima volta che entrava. Era una di quelle persone che ti rimangono in testa anche se le guardi appena. Con alcune devi fare uno sforzo sovrumano per ricordarne il viso o il nome, e invece altre ti sembra di averle conosciute in un’altra vita più intensa. Non era quello che si dice una bella ragazza, e neanche brutta, ma tutto quello che aveva era molto forte: la brillantezza dello sguardo, la lucentezza dei capelli, la forma del naso, le guance, il rosa della bocca, l’ombra marcata delle occhiaie, le spalle, le mani, le cosce tese sotto i jeans, la voce roca come quella di una cantante nera. L’energia che sprigionava era così densa che si poteva vedere e toccare.
«Hai già comprato qualcosa qui in passato? Sei nostra cliente?» chiesi mentre la aiutavo a togliersi gli stivali.
La ragazza rimase com’era, assorta nelle squame della pelle, che andavano dal grigio azzurro al grigio scuro e che si sarebbero adattate a qualunque tipo di abbigliamento e a qualunque occasione. Mia nonna credeva che non saremmo mai riuscite a vendere un paio di stivali così cari e stravaganti; be’, invece era stato già venduto, e non vedevo l’ora di dirglielo.
«Sono entrata in qualche occasione.»
«Mi sembrava infatti.»
La ragazza mi guardò in faccia per la prima volta. Gli occhi le brillavano, come se fosse sul punto di piangere. Tirò fuori la carta di credito dallo zaino che aveva in spalla e pagò. Quando si stava dirigendo verso la porta tornò indietro.
«Se a casa cambio idea posso restituirli, vero?»
Poi si fermò a guardare le borse, dei portafogli di Chanel scontati e altre scarpe. La seguivo con la coda dell’occhio mentre guardava gli scaffali, per sistemare se avesse messo qualcosa fuori posto. Non mi importava. Era una mattinata relativamente tranquilla. La ragazza, prima di uscire, tornò ancora una volta da me.
«Ciao», disse. “Quanta poca voglia ha di uscire in strada”, pensai. E quello era destinato a essere il momento più trascendentale della mia vita. Fino ad allora avevo pensato che i momenti importanti lo sembrassero anche, che fossero rumorosi come tuoni e rossi come il sole, solenni. Non sempre è così: a volte una sciocchezza, un evento assolutamente normale, implica un prima o un dopo. Che sia un bene o un male, lo si capisce più tardi, quando la vita si è trasformata in una montagna che non può disfarsi. Perciò quando la ragazza del cobra se ne andò, non ripensai più a lei perché ancora non capivo cosa significasse quella visita. Subito dopo dovetti servire un’adolescente corpulenta con il quarantatré di piede, la cui madre era disposta a spendere qualunque cifra purché alla figlia non venissero i complessi. La donna arrivava alla spalla della figlia e aveva una folta chioma bionda e unghie lunghe e squadrate. Dallo splendido orologio di brillanti che portava al polso e dalla statura della figlia mi feci l’idea che fosse la moglie di un famoso giocatore di basket. In negozio entravano funzionarie che lavoravano nei ministeri dei dintorni, dirigenti di banche e assicurazioni che approfittavano della pausa pranzo per andare in palestra e fare shopping, e le mogli di calciatori e tennisti, che avevano tutto il giorno a disposizione per farsi belle. La donna dalla chioma bionda mi guardò così angosciata, supplicandomi di tirare fuori dal cilindro un paio di scarpe carine numero quarantatré, che scesi in magazzino sperando che si compisse un miracolo, ma la realtà era la realtà, come diceva sempre mia nonna; tornai a mani vuote e rimasi a guardarle uscire dal negozio. La madre prese la figlia per mano, mentre sembrava che un vento improvviso stesse per strapparle da terra.
Provai un po’ di nostalgia nel vederle insieme, forse perché ormai ero troppo grande perché mia madre mi prendesse per mano o perché non ricordavo un suo sguardo simile a quello che la bionda aveva rivolto alla figlia, anche se probabilmente, visto che non avevo il quarantatré di piede, non era mai stato necessario. Il tempo era trascorso, l’infanzia era passata e così anche l’adolescenza, e adesso avevo diciannove anni e mia madre sessantadue, anche se lei diceva cinquanta, e mia nonna venti di più.
A volte dal negozio si sentiva il cigolio della sedia a rotelle al piano di sopra. Vivevamo tutte e tre lì, sopra la pelletteria, in un appartamento grande e antico che avrebbe avuto bisogno di una ristrutturazione completa perché vi entrasse più luce. Missione impossibile: mia nonna riteneva che i suoi tappeti, le sue lampade e i suoi mobili scuri fossero intoccabili, pezzi da museo. Da un po’ di tempo dovevo fare un grande sforzo per non deprimermi quando entravo in casa e vedevo tutte quelle anticaglie e mia nonna sulla carrozzella in corridoio. Era una donna con l’ossatura pesante e dovevo fare uno sforzo enorme per aiutarla ad alzarsi e a vestirsi. Aveva l’artrosi alle ginocchia e acciacchi dell’età, e mi amava alla follia. Le pesava andare a fare una passeggiata se non era con me. E non voleva coricarsi prima che io tornassi a casa. Non voleva che andassi a vivere da sola prima che morisse perché non avrebbe sopportato di non vedermi tutti i giorni. Morire era una delle parole che usava di più da quando le erano iniziati i dolori. E io mi sforzavo continuamente di tirarla su e di toglierle quelle idee dalla testa canuta.
Avrei dato qualunque cosa perché mia nonna tornasse indietro a quando veniva a prendermi a scuola, camminava bene e parlava con le professoresse con la stessa voce mielosa con cui mi diceva: «Forza, Laura, pettinami, andiamo a fare una passeggiata».
Nessuno riusciva a resistere a quella voce. Sembrava che cantasse. Perché risultava così piacevole? Melodiosa, argentina e allegra, anche se esteriormente era seria o arrabbiata. Un dono. Nei tempi in cui era lei a gestire il negozio si vendeva il doppio, perché riusciva a fare in modo che ogni cliente credesse che lei parlava in quel modo solo con lui. A quell’epoca il parrucchiere cominciò a farle un riflesso azzurrino alla folta chioma bianca, che finì per sembrare una nuvola d’agosto. Di solito indossava pantaloni bianchi con camicie bianche: si vestiva di bianco affinché nessuno potesse farle il malocchio o farle del male. Mi ero abituata al fatto che fosse una figura bianca. L’unica cosa colorata erano i gioielli: orecchini, anelli, collane di smeraldi, brillanti, oro, che un giorno avrei ereditato io perché sua figlia, mia madre, era un disastro con i soldi. Poi, nel giro di un anno, si ammalò, e io e mia madre ci facemmo carico del negozio. Anche se, a essere sincera, il peso ricadeva tutto su di me.
Tutti la chiamavano Lilí, comprese noi, sua figlia e sua nipote. Alla sua voce adesso si erano uniti anche la sedia e il rumore delle rotelle. Così, dovunque fosse, non passava inosservata: raccoglieva sempre intorno a sé vari devoti che facevano appena caso a mia madre o a me. La mamma ormai ci si era abituata ed era arrivata a vivere in un altro mondo, dove Lilí non esisteva.
Alle sette feci un cenno di saluto a mia madre. Non volevo fare tardi al conservatorio. Lei stava assistendo di malavoglia una coppia di coniugi che non la finivano più di provare scarpe. Ne approfittai per infilarmi rapidamente nello stanzino sul retro e prendere la borsa. Non volevo scambiare nessuna occhiata diretta con lei per evitare che mi chiedesse di rimanere ancora un po’. Mia madre non sopportava il negozio e men che meno i clienti dubbiosi, pesanti. Probabilmente aveva voglia di fumarsi una Marlboro nello stanzino o per strada. Lilí mi diceva che prima o poi mi sarei dovuta occupare da sola del negozio perché sua figlia era una buona a nulla. A volte mi infastidiva che fosse così dura con sua figlia: dimenticava che era mia madre e che io le dovevo più rispetto che a chiunque altro. Sulla porta inspirai profondamente il profumo di terra bagnata proveniente da molto lontano. Lo portava il vento. Era così forte che quasi mi trascinò via. Tutti camminavano un po’ sbilenchi, stringendo forte qualunque cosa potesse volare via, e i tendoni bianchi delle terrazze moltiplicavano l’effetto, come se le case stessero per saltare in aria. Si sentiva il rumore del vento che passava tra le torri di appartamenti gridando, singhiozzando e fischiando. E pensai che quel giorno avrei fatto una verifica per controllare il livello delle mie allieve. Davo lezioni di danza a bambine dai sei ai dodici anni e avevo riposto tutte le mie speranze di insegnante nella più grande, Samantha.