43.
LAURA CON SUO PADRE
Entrammo in un ristorantino con una nicchia verde per il menu all’ingresso e una finta tettoia. Mi sentivo nuda, senza soldi, senza niente, mi sembrava che tutti mi stessero guardando e gli chiesi di sederci in un angolo.
Le persone del ristorante lo conoscevano e mi guardarono con curiosità, o almeno così mi sembrò. Avevo la sensazione che tutta l’umanità, il sole e i pianeti avessero occhi soltanto per me, perché indossavo i pantaloni del pigiama con i pupazzetti, ero senza calzini, spettinata e con la faccia da malata.
Andai in bagno mentre Daniel chiedeva i menu. Mi lavai le mani e la faccia e cercai di pettinarmi con le dita.
Daniel si era seduto con la faccia rivolta al bagno, io all’entrata. Sul tavolo c’erano un cestino con dei panini invitanti e un piatto di olive. Mi versò l’acqua. Era fredda e buona, e immediatamente ci portarono una minestra di verdure fumante.
«Mangiamo la minestra e poi parliamo. Ti farà bene.»
Ne assaporai una cucchiaiata dopo l’altra.
«Immagino che sia stata Verónica a metterti in questo pasticcio.»
«È più che un pasticcio, tutta la mia vita è sottosopra.»
Daniel non poteva avere idea di come fosse di solito il mio aspetto. Mai e poi mai avrei immaginato me stessa al ristorante conciata in quel modo. Sembrava uno di quegli incubi in cui mi vedevo sulla banchina della metropolitana nuda dalla vita in giù.
«Le sembro pazza?»
«Non lo so. Ti sembra logico quello che fai?»
«Non c’è niente di logico. Non è logico che un giorno sia comparsa Verónica dicendomi che la mia famiglia è un’altra e che fino ai diciannove anni ho vissuto in una menzogna.»
«Fino a quel momento non eri mai uscita per strada in pigiama?»
Dopo averlo detto sorrise e anch’io mi misi a ridere.
Con il secondo mi sentii molto meglio. Mangiai tutto il pesce, l’insalata, e non lasciai neanche un panino. Non riuscivo a capire se fosse per fame o per istinto di sopravvivenza: non sapevo cosa ne sarebbe stato di me per il resto della giornata e non dovevo sprecare niente.
«Sono scappata», dissi alla fine, assaporando una fetta di torta ai mirtilli. «E non mi è chiaro se sono fuggita da loro o da me stessa.»
«Ti staranno cercando.»
«Oggi volevano portarmi fuori Madrid, in campagna, in un manicomio, credo. Ho deciso di scappare prima.»
«Non starai esagerando un po’?»
«Su questo no. Avevano i bagagli pronti e aspettavano solo che arrivasse il dottor Montalvo.»
Era chiaramente sorpreso. Dovetti ripetergli il nome del medico.
«Il dottor Montalvo è uno psichiatra, ed è lui che ha avuto l’idea di farmi rinchiudere in una casa di riposo. A mia madre e a mia nonna sembra una buona idea, l’unica che non è d’accordo sono io.»
Era pensieroso. A volte si alzava, abbassava gli occhiali e si passava la mano sulla faccia.
«Avete un’amica che si chiama Ana?»
Assentii.
«E ha un cane che si chiama Gus?»
Assentii.
«Cosa facevi prima di diventare una vagabonda?»
Ridemmo di nuovo sommessamente.
«Mi occupo del negozio. Una pelletteria in calle Goya, si chiama...»
Annuiva come se avesse già vissuto tutto quello che gli raccontavo.
«Sono anche un’insegnante di danza», aggiunsi chiedendomi se prima o poi sarei potuta tornare in conservatorio. Almeno quei soldi non li gestiva Lilí.
Lo sorpresi a guardarmi i capelli e le orecchie. Abbassò lo sguardo verso la tazza di caffè. Io ne presi due, dovevo svegliarmi completamente.
Quando uscimmo non avevo più tanto freddo e mi sembrava di essere appena venuta al mondo. Avevo appena ricevuto la prima boccata d’aria e il primo raggio di sole senza l’ombra degli scialli bianchi di Lilí. Adesso ero come qualunque ragazza della mia età, come qualunque altra persona.
«Ti porterò a casa, io devo lavorare. Se siamo fortunati troveremo Ángel: a quest’ora teoricamente dovrebbe essere lì a studiare.»
Mi guardò sorridendo.
Ángel arrivò insieme a noi tirandosi dietro Don, che voleva giocare un altro po’ e che mi saltò addosso non appena mi vide. Ángel rimase paralizzato. Non capiva niente. Non disse niente. Guardò suo padre.
«Falle fare una doccia e falla mettere comoda. Preparale la stanza degli ospiti.»
«Nella stanza degli ospiti ci sono io.»
«E allora il divano. Ci sarà un posto per una persona in più, no?»
In qualunque altra circostanza mi sarei sentita a disagio, un’intrusa, ma in quel momento mi preoccupavo solo di dormire al caldo e al sicuro, senza dover nascondere in bocca nessuna pillola.