44.
VERÓNICA DEVE AGIRE

Non era passato neanche un quarto d’ora quando la porta del garage del palazzo si alzò e ne uscì una Mercedes guidata dal bosniaco con Lilí accanto a lui e Greta, il dottor Montalvo e Ana sul sedile posteriore, l’uomo al centro e le due donne vicino ai finestrini. Per un istante ebbi l’impressione che lo sguardo di Ana e il mio si incrociassero, finché lei non lo rivolse alla strada. Una falsa impressione. Inoltre non avevo previsto che potessero uscire direttamente dal garage e che Laura non fosse con loro. Cosa le era successo? Non era logico che la lasciassero sola. Dalle loro espressioni sembrava che stesse succedendo qualcosa di grave. Per quanto stesse male avrebbero potuto portarla fino al garage e farla salire in macchina. Mi tremarono le gambe. In vita mia mi era successo quattro volte: dopo la scomparsa di Ángel quando era piccolo, quando mia madre era stata ricoverata in ospedale, quando era morta e in quel momento. Durante l’esame di maturità era comparso il nocciolo di pesca, ma le gambe non avevano tremato. Evidentemente le gambe erano il primo posto il cui il cervello inviava i messaggi cattivi.

Messaggio ricevuto, allora. Laura era in pericolo, sempre che non l’avessero già tolta di mezzo. Non potevo chiamare la polizia, non avevo prove di niente. Raccolsi lo zaino da terra, me lo misi in spalla ed entrai nel portone. Dal soffitto pendeva un lampadario di cristallo sontuoso, i pavimenti erano di marmo bianco a scacchi neri, la ringhiera di legno lucido antico, risalente a due secoli prima, con una delicata grata in ferro battuto come il cancello dell’ascensore.

Stavolta il portiere uscì in tutta fretta dalla guardiola, che era anch’essa di legno lucido di duecento anni prima.

«Vado dal dentista», dissi senza fermarmi, senza guardarlo.

Mi si parò davanti.

«Ferma lì. Non vai da nessuna parte.»

Ormai mi avevano identificato e avevano esteso l’allarme a quelli che li circondavano. Lo pensai senza parole, quasi senza pensieri, mentre spintonavo il portiere come avevo immaginato di fare con lo psichiatra. Era scritto che avrei finito per aggredire quell’uomo con la divisa blu mare, capace di stare seduto otto ore guardando il portone.

«Mi lasci stare», gridai.

Lui era più forte di me, ma io ero più arrabbiata ed ero stufa di tante storie.

Salii a tutta velocità. Le boccette nello zaino urtavano l’una contro l’altra. Arrivata davanti alla porta suonai il campanello senza togliere il dito e gridando: «Laura!».

«Laura! Laura!» Anche il portiere salì per le scale, arrabbiato, rosso in viso. Mi prese per un braccio.

«Non mi tocchi!» gridai.

«Ho chiamato la polizia.»

«Benissimo. Così vedremo che cosa è successo a Laura. E lei ne è complice!»

Un vicino aprì la porta.

«Cosa succede, Braulio? È capitato qualcosa a donna Lilí?»

Il portiere mi guardò disgustato. «Che c’entra Laura? Laura è fuggita di corsa come una pazza circa... quattro ore fa.»

«Povera Lilí», disse il vicino.

Scesi i gradini a due a due con il rumore molesto delle boccette dietro la schiena e quello degli stivali sul marmo. Una volta in strada fui in dubbio su dove andare. In che direzione poteva essere scappata Laura? Sicuramente verso sud, verso Colón. Sarebbe stata la tendenza naturale di qualunque fuggitivo, tanto più se si era deboli come lei. Doveva essersi resa conto che la volevano portare da qualche parte: aveva deciso di fuggire e loro la stavano cercando. Per una volta non si era lasciata condizionare, aveva preso un’iniziativa, perciò, nel caso improbabile che fosse tutto un equivoco e io stessi distruggendo una famiglia, almeno Laura avrebbe imparato a non obbedire e a ribellarsi. E in fondo lei era più ribelle di me perché io stavo facendo quello che mia madre avrebbe voluto che facessi senza neppure dovermelo chiedere. Non so perché pensassi di essere migliore di Laura. Ognuno ha la vita che ha.

Quanto mi avrebbe fatto comodo in quel momento la moto di Mateo... Avremmo potuto cercare Laura dappertutto.