28.
VERÓNICA E TUTTA LA FORZA DI UNO SPIRITO
Cremammo mia madre una mattina di fine settembre nella quale gli uccelli cantavano a squarciagola. Il sole era più luminoso che mai, i rami degli alberi coloravano l’aria di verde e giallo, a qualcuno cominciavano a cadere le foglie. I miei amici andavano all’università, altri aiutavano i loro genitori nelle attività di famiglia o stavano cercando lavoro. La vita era cambiata per tutti, ma per me era finita. Ángel era un bambino e un uomo allo stesso tempo. Lo avevano portato i miei nonni da Alicante e indossava vestiti scuri come loro. La giacca e i pantaloni gli andavano grandi e si lasciava manovrare come un burattino, non voleva avere coscienza di quello che faceva lì, sembrava che non fosse in sé. Guardava le nuvole, gli alberi e qualcosa in lontananza che attirava la sua attenzione. Non guardava il feretro né noi, né il prete. Non voleva sapere niente di quello che stava succedendo. Mio padre lo teneva per le spalle e piangeva. Ana abbracciò mio padre, diede un bacio a me e ci chiese se avevamo bisogno di qualcosa. Noi rimanemmo come allocchi, senza rispondere. Fu tutto rapido e lento. Il fatto che quella giornata finisse non significava che saremmo tornati alla normalità. Le persone si congedarono. Iniziò a soffiare un vento freddo. Qualcuno disse a bassa voce che stava per venire il maltempo. Era tutto come un balletto. Nonnina, sulla porta di casa, disse che a sua figlia non avrebbe fatto piacere che rimanessero da noi e così tornarono ad Alicante; mio nonno, come sempre, non disse niente. Quando ci ritrovammo da soli noi tre in salotto ci abbracciammo. Mio padre ci diede un bacio sulla testa. Io preparai delle tortillas, ma non le mangiammo. Aprii una birra per mio padre, ma non la bevve. Aveva le mascelle così serrate che sembrava stessero per scoppiargli. Anch’io. Tolsi la giacca ad Ángel, che non riusciva a fare niente.
«Forza, togliti anche quei pantaloni», gli dissi, sorprendendomi nel sentirmi parlare.
Suonò il telefono e non rispondemmo. Ormai non ci potevano chiamare dall’ospedale né da nessun altro posto che ci interessasse.
«Mettete in una borsa i pigiami e quello che vi serve. Stanotte dormiremo in un albergo.»
A quel punto Ángel si alzò. Pensavo che stesse andando finalmente a togliersi quei pantaloni troppo grandi, invece no, scomparve nel buio del corridoio e dopo poco tornò con sacchi a pelo e stuoie e riempì tre bottiglie d’acqua in cucina, senza aprire bocca. Io e mio padre rimanemmo a guardare.
Arrivammo in macchina fino all’ingresso di un bosco e dormimmo all’aria aperta, sotto le stelle. La luna era quasi piena e tutte le ombre portavano una parola di mia madre, tutti gli animali che c’erano portavano una parola di mia madre. Sentii con assoluta chiarezza, come quando ci si innamora, come quando si odia, che la mamma era lì. Smisi di piangere e contemplai l’universo intorno a me, lasciai che mi avvolgesse, mi lasciai trasportare fra velluto nero e diamanti in posti molto lontani, sconosciuti. Riuscivo a capire a stento ciò che vedevo, ma non avevo paura perché era inutile avere paura. La sensazione che si avvicinava di più a quello che provavo era essere sulle montagne russe; una volta che si è lì ormai non si può fare niente, non dipende da noi. È inutile resistere. Forse mia madre voleva dirmi questo. Se non avessi opposto resistenza, se i miei pensieri non fossero andati contro ciò che vedevo, sarebbe stato tutto più facile, più comprensibile. Dovevo salire sulle montagne russe e confidare nel fatto di essere legata bene.
Mi rigirai nel sacco a pelo, alcune pietruzze mi si erano conficcate nel fianco. Allora chiesi a mia madre una prova che fosse lì. Gliel’avrei chiesto solo una volta e poi l’avrei lasciata in pace. Rimasi per un po’ a osservare le ombre degli alberi e la luna, finché non mi addormentai. Mi svegliò il sole, mi colpiva in pieno la testa ed ero tutta sudata. Alcuni montanari passarono accanto a noi cercando di non calpestarci. Ángel continuava a stare nel sacco con la testa coperta, estraneo a tutto, ma mio padre camminava avanti e indietro bevendo una bottiglia d’acqua.
«Ma qui stanotte non c’era un bosco di pini?»
Gli risposi che era sembrato così anche a me.
«L’odore c’è, ma i pini no», disse.
Salii su un mucchio di pietre.
«Guarda, è lì, un po’ più giù.»
L’odore di pini stava diventando più umido: da un momento all’altro avrebbe iniziato a piovere.
«Quando siamo arrivati ho visto chiaramente i tronchi. La macchina non poteva procedere proprio per colpa degli alberi. Tu non li hai visti?»
«Be’, deve essere stata un’illusione ottica, era notte e noi stavamo come stavamo.»
«Sì, non so cosa farò adesso», disse.
Presi la mia bottiglia e bevvi. L’acqua era fresca, piena di vita. Nessuno dei due cercò di svegliare Ángel: che dormisse il più possibile, mentre dormiva non soffriva.
Mio padre lo guardò con una pena o un amore immensi. Era devastato dentro e anche tutto quello che usciva da lui era devastato.
«Vorrei che avesse aspettato un po’.»
«Papà», cercai di consolarlo. «La mamma è nell’aria che respiriamo, non può parlarci, ma può fare altre cose.»
Mi guardò con la stessa pena, la stessa tristezza, lo stesso amore con cui aveva appena guardato Ángel. Toccò le labbra come a dire: “Ormai non si può fare niente, è tutto finito, la disgrazia si è abbattuta su di noi”. Poi mi strinse la spalla.
«Mi fa piacere che la pensi in questo modo», disse.
Non avrei mai potuto condividere con mio padre il grande segnale che mi aveva inviato mia madre spostando il bosco di pini; doveva averci messo tutta la forza del suo spirito. Se glielo avessi raccontato, avrebbe pensato che ero impazzita e non volevo farlo preoccupare ancora di più. Mi infastidiva, però, che non potesse provare lo stesso sollievo che provavo io e sapere che, anche se non poteva vederla né toccarla, avrebbe potuto pensare a lei, parlarle.
Non lo raccontai neanche ad Ángel, perché lui aveva un modo tutto suo di aiutarsi. Non parlava molto, anzi lo faceva assai poco, perché pensava molto. Aveva una strana saggezza che aveva sviluppato da quella volta in cui si era perso per strada a otto anni. Non avrebbe pianto, si sarebbe rintanato in camera sua e avrebbe messo a posto l’armadio, i libri, i calzini, i pennarelli. Avrebbe buttato i giornaletti pornografici. Avrebbe messo le lenzuola del suo letto nella lavatrice e l’avrebbe avviata. Poi le avrebbe stese e, quando fossero state asciutte, le avrebbe usate per rifare il letto. Avrebbe controllato cosa mancava in frigorifero e sarebbe andato a comprarlo. Avrebbe messo sulla sua scrivania le cose del comodino di cui mio padre avrebbe avuto bisogno e sulla poltrona un paio di pantaloni e una camicia perché potesse cambiarsi il giorno dopo; e, quando fosse rincasato dal lavoro di sera gli avrebbe detto di dormire in camera sua. Lui avrebbe dormito nella stanzetta degli ospiti, finché nostro padre non avesse ricominciato a tornare alla sua vita.