30.
VERÓNICA, ORMAI NON CONTA PIÙ NIENTE
Adesso dovevo proprio parlare con l’azienda e dire loro che la mamma era morta, che io la sostituivo da qualche tempo e che mi sarebbe piaciuto continuare a farlo. La sede si trovava in una zona industriale a sud-est di Madrid ed ebbi qualche difficoltà a individuare l’edificio. Era di acciaio e vetro e in quel momento un camion stava scaricando delle casse. Al piano superiore c’erano gli uffici e una ragazza della mia età disse che le dispiaceva per mia madre perché era una donna molto simpatica e una venditrice eccezionale, e che sarebbe stato meglio che parlassi con la responsabile. Fino ad allora non avevo sentito me stessa parlare di mia madre agli estranei. Non mi ero sentita dire: «Mia madre è morta».
La responsabile mi fece entrare nel suo ufficio. Portava un camice bianco e aveva una treccia che sembrava una fune; non sapeva bene come trattarmi. Non ero più una persona normale, avevo attraversato la frontiera della tragedia e lei mi guardava con gli occhi spalancati cercando di vedere cosa c’era dall’altra parte.
«E questo lavoro non t’intralcerà negli studi? Betty diceva che sei molto intelligente e che le sarebbe piaciuto che mettessi su uno studio tutto tuo. Diceva che tutti i soldi che guadagnava qui erano per questo. Non so se a lei farebbe piacere.»
Avrei potuto confessare che non mi ero neppure iscritta all’università, ma sarebbe stato come tradire l’immagine che la mamma voleva dare di me.
«Posso conciliare le due cose, davvero. Abbiamo bisogno del denaro.»
«Va bene, alle stesse condizioni di Betty. Ci mancherà», disse fissando il vuoto, ricordando. «Era così forte... Non aveva bisogno che nessuno la aiutasse a portare giù gli scatoloni. Vendeva quello che voleva. Le assomigli molto, anche se credevo che fossi più alta. Tuo fratello assomiglia di più a vostro padre, no? Quanto abbiamo riso quando ci ha raccontato della sua sparizione, e che alla fine si era scoperto che era nella legnaia...»
Dissi che avrei portato via i cosmetici e qualche frullato proteico. La responsabile non sapeva che non avevo ancora la patente e che avrei dovuto attraversare tutta la zona industriale e poi salire sull’autobus e in metropolitana con lo scatolone. Più avanti avrei chiesto a mio padre che facesse per me quel servizio in taxi; per il momento avrei cercato di cavarmela in qualche modo.
Riuscivo a stento a sorreggere lo scatolone, che pesava un accidente. Mi ero messa la borsa in spalla, sopra le reni, e il sole mi attraversava il cranio, mentre pensavo che era sorprendente che quelle persone sapessero tanto della mia famiglia quando noi non sapevamo neppure che esistevano. Mia madre non ci aveva mai parlato della responsabile o dell’altra ragazza, e neppure di quel posto. Per lei non avevano importanza. Cos’era importante per lei? Noi, di questo ero sicura, e naturalmente anche Laura. Mi pentivo di non averla cercata quando eravamo ancora in tempo. Mi pentivo di aver dato ascolto al dottor Montalvo, ad Ana, a mio padre. Mi pentivo di essermi lasciata convincere per qualche tempo che la mamma avesse torto, che fossero sue fantasie. Per poco non mi sentii male quando scoprii che il milione di pesetas lo aveva messo da parte per il mio futuro studio medico.
Mia nonna Marita mi disse al telefono che dovevo raccogliere i vestiti di mia madre e regalarli a una parrocchia. Ma non avevo intenzione di farlo perché forse, con il tempo, le sue cose non mi avrebbero ricordato più il tragico momento in cui se n’era andata, ma tutto il tempo che era stata con me. Prima o poi avrei avuto dei figli, magari una figlia, e sicuramente avrebbe voluto avere le cose di sua nonna. Perciò avrei conservato i suoi vestiti, le scarpe, le borse, i cappotti, i foulard, anche la biancheria intima. Avrei avvolto nella carta velina ciascun capo, li avrei riposti negli scatoloni e li avrei portati nel ripostiglio del garage. Stavo anche pensando di trasformare la camera da letto matrimoniale in uno studio con due scrivanie e mensole per i libri dove io e Ángel avremmo potuto studiare, con un divano letto in caso qualcuno si fosse fermato a dormire. Avremmo potuto conservare lì tutti i documenti e le camere da letto sarebbero state un po’ più libere. Papà sarebbe rimasto nella stanza di Ángel e Ángel si sarebbe trasferito in quella degli ospiti. Era il locale con meno affacci e mia madre, per compensare, l’aveva decorato con carta da parati a fiori, copriletto a fiori, tende a fiori e tappeto con le margherite. A tutti noi piaceva sdraiarci lì a leggere di tanto in tanto perché era come stare in un prato o in un giardino. D’estate era il posto più fresco della casa, e l’unico che non era di nessuno. Si sentiva una pace immensa. Il sole tremolava davanti alla finestra e una leggera brezza gonfiava la tenda facendola arrivare fino al centro della stanza e inondando tutto di foglie verdi, garofani rossi e campanule azzurre. D’inverno ci dimenticavamo della sua esistenza, la mamma spegneva il termosifone e chiudeva la porta, e se per caso la si apriva arrivava un’ondata di freddo. In primavera iniziavamo ad aprire la finestra affinché il piccolo giardino artificiale si scongelasse.
Chiesi a mia nonna di venire ad aiutarmi e lei si mise a tirare su con il naso come se piangesse. Mi ero già accorta che nei singhiozzi di Marita c’era più muco che lacrime. «Non sai cosa darei per aiutarvi, ma non posso non rispettare la volontà di mia figlia. Lei non vorrebbe che lo facessi e non riesco a dormire di notte pensando che siete soli e che il mio posto è lì. Per me è insopportabile» – si soffiò forte il naso – «stare qui con le mani in mano. È la mia punizione per non essere stata all’altezza della situazione quando mia figlia aveva bisogno di me.»
Ormai riuscivo a stento a capire quello che diceva e sentii mio nonno che le diceva: «Calmati».
«Non ti preoccupare, noi ce la caviamo», le risposi per farle forza anch’io, e riattaccai. Se per mia madre Marita non contava niente, perché doveva contare qualcosa per me?
Mi ero dimenticata di Laura, non aveva più importanza. Avrebbe smesso di esistere del tutto per me, per Ángel e anche per mio padre, che non le aveva mai dato un posto nella sua vita. Laura aveva una bella vita e ormai le cose stavano come stavano. Anche se avesse scoperto chi era veramente, la sua vita non sarebbe cambiata.