48.
VERÓNICA, TANTA ANIMA
Ormai non si poteva tornare indietro. Adesso eravamo tutti invischiati. E se mi ero sbagliata? E se mia madre non aveva insistito con quella pista perché non portava a niente? Almeno Laura era adulta e padrona delle sue azioni, io le avevo solo mostrato alcuni pezzi che non si incastravano nella sua vita. E inoltre, quando avessimo fatto le analisi, ci saremmo tolti tutti i dubbi.
Mio padre mi fece emozionare. Sicuramente la mamma sarebbe stata orgogliosa di lui. Aveva portato Laura a casa, l’aveva sottratta alle grinfie di Lilí e Greta e, quella sera, aveva lavorato fino a tardi per non mettere Laura a disagio; poi aveva portato a casa i pasticcini. E quando rimanemmo soli a vedere la televisione abbracciò Ángel e me e ci disse che non riusciva a capire perché un uomo ordinario e senza immaginazione come lui fosse così fortunato e la vita gli avesse dato dei figli con tanta anima. Disse che aveva sempre voglia di tornare a casa per vederci e dovette togliersi gli occhiali e pulirli con il lembo della camicia perché gli si erano bagnati. Aggiunse che aveva sempre deluso Betty e che non lo capiva, perché per lui non c’era mai stata e non ci sarebbe mai stata un’altra donna al di fuori di lei. Disse che era un imbranato. Né io né Ángel volevamo continuare ad ascoltare quelle confessioni così intime, ma ci trattenne per farci sapere che non avrebbe permesso a nessuno di mancare di rispetto a Laura.
Fu un sollievo che il telefono squillasse. Ci guardammo senza sapere se rispondere o meno. Erano le undici e non volevamo altri problemi.
Rispose nostro padre.«Ciao, Ana. Sì, tutto bene. Certo, il tempo vola... È tardi, domani mi devo alzare presto. Grazie del pensiero, ma è meglio se facciamo un’altra volta.»
La sfacciataggine di Ana non aveva limiti. Aspettai di vedere la reazione di mio padre.
«Era Ana. È da queste parti e voleva propormi di portare i cani a fare un giro nel parco.»
«Non può sapere che Laura è qui, ma vuole verificarlo. Sono disperati», commentai.
«Non diventiamo paranoici», replicò mio padre.
«Verónica ha ragione», intervenne Ángel. «Papà, reagisci. Ana ci è dentro fino al collo e ha smesso di avere rispetto per Laura e per noi molti anni fa.»
Lo guardammo ammutoliti. Ángel non aveva mai preso posizione tanto apertamente per niente e nessuno.
«Due più due fa quattro, papà. Quelle persone hanno qualcosa da nascondere, qualcosa di grosso», continuò Ángel, che a partire da quel momento avrebbe dovuto essere considerato un adulto.
I pezzi iniziavano a incastrarsi anche nella testa di mio padre. Doveva stare molto male per aver negato il problema. Ancora una volta María aveva ragione: non si può andare controcorrente.
Si alzò per andare a dormire e a quel punto gli dissi che Laura era nella mia stanza, Ángel in quella degli ospiti, lui in quella di Ángel, mentre la sua era vuota. Io avrei dovuto dormire sul divano.
«Va bene», concluse. «Ángel può tornare nella sua stanza. Ci sono letti per tutti.»
Se Laura non fosse fuggita e non fosse venuta a casa nostra, mio padre non si sarebbe mai deciso a tornare nella camera da letto matrimoniale. Mia madre non esisteva più e non poteva muovere le fila perché succedesse una cosa del genere, ma io credevo che le avesse mosse quando era viva e che, senza saperlo, aveva preparato e predisposto quel momento. E provai una felicità che, dopo la sua morte, non credevo di poter provare di nuovo.
Quando il mattino dopo vidi Laura in cucina le dissi di prendere nel mio armadio quello che le andava meglio, perché doveva avere due taglie meno di me. Per prima cosa saremmo andate a comprare biancheria intima e un paio di jeans per lei, e quello di cui avrebbe avuto bisogno. Mi ringraziò e uscì in giardino a fare un po’ di stretching e quello che lei chiamò «saluto al sole». Passando davanti al salotto vidi che osservava il ritratto della mamma. Prese solo il caffellatte e una pera.
Vedendola con i miei fuseaux e il mio piumino immaginai che dovesse sentire molto la mancanza dei suoi vestiti di alta moda e delle splendide scarpe che portava al negozio. Presi una banconota dal milione di pesetas che la mamma aveva lasciato per mettere su il mio ipotetico studio.
Era un guaio che Laura non avesse avuto il tempo di prendere la borsa in casa di Lilí, perché aveva la patente e saremmo potute andare con la macchina della mamma. Lei sarebbe stata felicissima di vedere le sue due figlie che andavano a fare compere nella sua macchina. Scossi la testa per pensare ad altro, come prendere l’autobus fino al centro commerciale. Passammo tre ore a provarci vestiti. Laura ne capiva molto di tessuti e marche e disse che a me stavano bene i rossi, i verdi e i marroni e mi chiese se avessi mai provato a tagliarmi i capelli.
«Ieri sera ha chiamato Ana», le dissi mentre cercavamo superofferte da H&M. «Forse dovresti chiamarle, dire loro che stai bene e che devono lasciarti in pace.»
«Devo pensarci», rispose.
«Nel caso in cui tu sia pazza e loro abbiano ragione?»
«Ho avuto molta fiducia in te, non ti sembra?» replicò.
«Perciò, prima sappiamo la verità, meglio è. Dovremmo fare le analisi.»
Le analisi non le interessavano. Voleva sapere cos’era successo. Doveva capire, non poteva volerci bene di colpo, né noi a lei, per quanto le analisi potessero risultare positive. Non avrebbe vissuto con noi. Non poteva diventare una figlia e una sorella in cinque minuti. Voleva solo sapere se aveva fatto bene e se la sua famiglia era un inganno. Davvero c’era una cospirazione contro di lei per evitare che scoprisse la verità? Era questo che le faceva pensare che stava perdendo la testa.
Laura rifiutava la via più breve e noi, mio padre, mio fratello e io, non potevamo dare la storia per conclusa dopo tutto quello che era successo. Ero esausta.
«Tu non dovresti essere a lezione?» chiese all’improvviso.
«Ho fatto scadere il termine per l’iscrizione. Mia madre è morta credendo che andassi all’università tutti i giorni.»
«Mi dispiace.»
«Smettila di dire mi dispiace, non serve a niente.»
Con tutti i nostri sacchetti pieni di vestiti ci sedemmo in una finta piazza di un finto paese nel centro commerciale. A volte Laura si faceva scappare un «Lilí dice...» o un «alla mamma piace...». Sarebbe dovuto passare molto tempo perché provasse risentimento per quello che le avevano fatto. Si sentiva ferita, ma ancora non capiva, non poteva liberarsi dei suoi affetti. Eravamo sotto il piccolo tetto di una finta casetta con i suoi vasi per i fiori e tutto il resto.
«Con il tempo te ne rallegrerai, ne sono sicura. Io mi rallegro di averti trovato, di aver verificato che mia madre aveva ragione e che non ha sprecato gli anni migliori della sua vita cercandoti.»
Incomprensibilmente non era molto interessata a mia madre, che forse era anche la sua. Non mi chiese cosa le fosse successo né com’era. Faceva fatica a sostituire Greta con qualcuno che non poteva neanche vedere.
Io stavo bevendo un cappuccino e lei un tè verde.
«Adesso andremo da una persona che ci consiglierà cosa dobbiamo fare», dissi.
Per fortuna María era appena arrivata in ufficio e quando ci vide sembrò capire. Si tolse la giacca di volpe, la mise in un armadio nascosto nella parete e si sistemò una maglia elasticizzata che le aderiva come una seconda pelle alle spalle larghe e al busto. Si avvolse i capelli sulle dita mentre ci squadrava.
«Non vi assomigliate per niente», disse.
Mi scappò un sorriso perché era il riconoscimento del trionfo.
«Assomiglia di più a mio padre e a mio fratello», risposi.
Ci invitò ad accomodarci sulle poltroncine grigie. Lei si sedette sul tavolino basso, sulle riviste. Si appoggiò sulle palme delle mani e piegò la testa all’indietro come se stesse prendendo il sole. Laura la guardava con gli occhi sgranati, non aveva mai visto un investigatore.
«Ti presento Laura. È fuggita e la stanno cercando. Non sappiamo di cosa saranno capaci.»
Laura si girò verso di me, spaventata. A mano a mano che le ore passavano la paura che aveva provato le si cancellava dalla mente e sicuramente stava recuperando la vecchia immagine di Lilí e Greta.
«Avete già i risultati...?»
«A Laura interessa più sapere come hanno fatto sua madre e sua nonna a impossessarsi di lei che non sapere se è mia sorella. Pensa di essere fuori di testa.»
Come al solito, María non rimase sorpresa, lo trovò logico.
«Mi sembra la cosa più sensata, è meglio dissipare i dubbi sulla famiglia adottiva e poi sentirsi liberi di andare avanti o meno. Potete iniziare chiedendo un certificato di nascita all’ufficio di stato civile. Lì ci sarà scritto in quale ospedale è nata. Andateci e chiedete di vedere il registro. Una cosa vi porterà all’altra. Non fidatevi di nessuno.»
Laura guardava María con un’espressione che diceva: “Lascio perdere, torno alla mia vita, è l’unica realtà che conosco, voi per me siete estranei”. Per questo io dovevo confonderla e non darle il tempo di pensare. Se lei non voleva sapere, io sì.
Guardai l’orologio.
«Se ci sbrighiamo, arriveremo in tempo», dissi alzandomi e dirigendomi verso la porta. Laura mi seguiva portando i sacchetti. La voce di María mi fece bloccare di colpo.
«Grazie per il siero. Quel che ha fatto Betty è ben fatto.»