46.
VERÓNICA TI CERCA
Non potevo mettermi a vagare senza una meta. Se io fossi stata in lei, avrei chiesto aiuto a qualche amica. Non avevamo avuto il tempo di parlare delle nostre vite, solo delle nostre famiglie; la famiglia occupava tutto lo spazio in un momento in cui per le altre persone della mia età avevano molta più importanza gli amici e la strada. L’unica persona di cui avevo notizia, a parte sua madre e sua nonna, era sua cugina Carol, l’attrice, che lei a quanto pareva ammirava molto. Forse quando era andata a trovarla avevano ordito un piano per liberarla, poteva averla aspettata in macchina e portata a casa di qualche amico o in albergo. Carol doveva guadagnare molto.
Per non fare un viaggio inutilmente, chiamai da una paninoteca l’emittente televisiva che trasmetteva la serie. Dissi che ero una giornalista e che avevo bisogno di mettermi in contatto con lei per farle un’intervista. Dovetti aspettare che mi dessero il numero del suo agente. Si chiamava Nacho, e Nacho, dopo varie bugie da parte mia, disse che entro un’ora Carol avrebbe fatto una pausa nella registrazione della serie e avrebbe potuto incontrarmi.
Arrivai in anticipo all’indirizzo che mi aveva dato e aspettai in una saletta malandata dove c’erano tartine e panini ben poco invitanti che sicuramente Carol, per preservare la linea, non toccava neppure. C’erano anche delle grandi caraffe di caffè e me ne servii un po’ in un bicchiere di plastica che non sembrava usato. Non sapevo quanto sarebbe durata quella giornata. Avevo freddo e non mi tolsi la giacca. Ai miei piedi tenevo lo zaino: si sarebbe potuto credere che lì dentro trasportassi un registratore o una macchina fotografica. Per questo, quando qualcuno mi chiedeva cosa ci facessi lì, rispondevo che ero una giornalista; loro guardavano lo zaino e mi sorridevano. E reagì in quel modo anche Carol quando alla fine comparve vestita normalmente, non come nella serie, che era ambientata in un’epoca non ben definita tra il XIX secolo e il principio del XX.
Era sorridente, affascinante. Disse che avevano appena finito di girare un episodio incredibilmente bello.
«È stato straordinario, emozionante», commentò guardando lo zaino. «Non mi sono struccata in caso vogliate farmi qualche foto.»
Sicuramente pensava che sarebbe venuto qualcun altro, oppure parlava al plurale riferendosi alla rivista per la quale teoricamente lavoravo.
«Prima di iniziare», proseguì, «voglio che sappiate che questa non è una serie come tutte le altre. Si rivolge a un pubblico sopra la media...»
Dovetti interromperla. Non mi sembrava opportuno che facesse quello sforzo titanico per niente. Si capiva dal suo sguardo che era stanca, anche se lei faceva di tutto per ravvivarlo continuamente.
«Sai dov’è tua cugina Laura?» chiesi alzando la mano per interromperla.
E improvvisamente tutta la stanchezza del mondo le affiorò negli occhi. Il sorriso che le lisciava il viso scomparve e lei invecchiò di colpo di cinque anni. Senza dubbio era più grande di Laura, più vecchia in tutti i sensi; aveva dovuto inghiottire molti bocconi amari per arrivare fin lì, mentre a sua cugina avevano dato la pappa pronta. Mi guardò come se volesse uccidermi.
«Sono un’amica di Laura», aggiunsi.
Non disse niente, serrò la mascella. Era profondamente delusa e afferrò da una scatolina qualche salvietta umida per struccarsi. Non mi sarebbe piaciuto essere nei suoi panni e subire quella frustrazione, che una poveraccia qualunque si prendesse gioco di me.
«È scomparsa, se n’è andata di casa stamattina e ho pensato che potesse essere con te. Non mi è venuto in mente nessun altro modo per avvicinarti. Mi dispiace tanto, non sono una giornalista.»
Il suo sguardo s’indurì, l’espansione di qualche attimo prima si ripiegò su sé stessa, la cordialità scomparve. Si alzò e le sue lunghe gambe si diressero verso la tavola del catering. Si versò un bicchiere d’acqua continuando a pulirsi il viso, bevve e si girò verso di me. Lanciò le salviette nel cestino. Aveva avuto il tempo di riprendersi e di pensare.
«Che significa che è scomparsa?»
Le raccontai tutto quello che sapevo, tutto quello che avevo visto, senza omettere nessun particolare. Lei beveva e ascoltava. Non avevo mai visto dei capelli lucidi come i suoi, le cadevano dalla testa come raso.
«Sono cose di famiglia, non dovresti intrometterti.»
«Mi sento responsabile di ciò che sta succedendo», dissi.
Improvvisamente capì. «Non sarai tu quella che dice di essere sua sorella?»
«Ti ha parlato di me?»
Fece una smorfia di disappunto. «Quello che hai fatto è gravissimo. L’hai disorientata e le hai fatto perdere l’equilibrio mentale. Non sa quello che fa. Spero per il tuo bene che non le succeda niente.»
Aveva ragione. La verità era che prima che io entrassi nella sua vita il mondo di Laura era normale e non era pericoloso, mentre adesso sì. C’era un motivo se mia madre non era andata avanti: l’incolumità di Laura contava più di ogni altra cosa. Io mi ero comportata da pazza, piena di rabbia per aver dovuto sopportare il suo fantasma per tutta la vita. Raccolsi lo zaino da terra. In quel momento mi resi conto di quanto pesava. Era incredibile che avessi potuto salire e scendere di corsa le scale di casa di Laura. Volevo scusarmi di nuovo, ma che senso aveva? Quel che era fatto era fatto e non c’era soluzione. Se avessi potuto tornare indietro forse avrei lasciato le cose com’erano.
E inaspettatamente Carol fece un gesto che mi trasse fuori dalle ombre in cui ero appena caduta. Versò un po’ di caffè in un bicchiere e me lo allungò. Lo accettai, anche se non avevo intenzione di berlo, dato che ne avevo già preso uno.
«Zucchero?»
No, non volevo zucchero, ma ero felice perché forse avevo un’alleata dall’altra parte.
«Appena sai qualcosa chiamami, questo è il mio numero», disse scrivendo su un pezzo di carta. «Sono molto preoccupata.»
Mi accompagnò all’uscita tra i saluti delle persone che passavano di lì; era molto conosciuta e ammirata e rispondeva con un’allegria fresca e meravigliosa che doveva tenere nascosta da qualche parte nel suo corpo per quelle occasioni. Non ero mai stata così a lungo accanto a un personaggio famoso come Carol, solo una volta, quando uno scrittore era venuto a scuola e mi aveva firmato la copia di un suo libro.
Se Laura non era con Carol, non sapevo a chi avesse potuto chiedere aiuto. Non sapevo a chi rivolgermi e lei doveva essere soccorsa. La Vampira mi aveva già avvertito che Laura viveva minacciata da un pericolo latente. Mancava solo qualcuno che lo facesse deflagrare, e quella persona ero stata io. I pezzi avevano smesso di incastrarsi... Che ore erano? Forse avrei trovato ancora aperto l’ufficio dell’investigatore Martunis. Non potei fare altro che prendere un taxi che si era appena liberato. Dissi al conducente che ero figlia di un tassista e che si trattava di un caso di vita o di morte. Il tassista conosceva mio padre e non si fece pagare neanche la tariffa minima. Dopo un quarto d’ora stavo entrando alla Martunis Detectives e avevo di fronte María seduta al suo posto che parlava al telefono, senza che nessuna parola le sfuggisse a più di un centimetro dalla bocca.
Mi indicò con la mano le poltroncine grigie.
Ormai ero nel posto della pace e della serenità. Era raro che incontrassi altri clienti, come se esistessero varie porte segrete da cui entrare e uscire. Non c’era neanche Martunis alla sua scrivania dietro il pannello. La lampada di María era accesa, così come quella delle poltroncine, mentre quella di Martunis no. Aprii una delle riviste del tavolino basso e la sfogliai senza prestare attenzione a ciò che vedevo. Quel giorno María non si accarezzava i capelli, li portava raccolti artisticamente, un pezzo di oreficeria abbarbicato sulla testa. E tutta la sua figura era in bilico su un paio di tacchi a spillo argentati.
«Guarda chi c’è!» esclamò quando mi si avvicinò.
Non sarebbe passata inosservata da nessuna parte. Si sedette sull’altra poltroncina e si piegò in avanti per parlarmi. Le si vedeva il reggiseno con l’imbottitura più grande sul mercato. Spalle larghe, poco seno, mani enormi, sguardo fisso. Mi sentivo sicura vicino a lei.
«Ho trovato Laura, la mia sorella fantasma, e adesso è fuggita di casa. Credo che sia in pericolo. Mi hai detto di non lasciarmi sfuggire i particolari, che i pezzi si sarebbero incastrati, e adesso è crollato tutto.»
Alzò lo sguardo verso il soffitto per qualche secondo, per unire i fili, e poi guardò di nuovo me.
«Sono tornata pochi minuti fa da un matrimonio e non sono al massimo della forma.»
Stavo per rinfrescarle la memoria, ma una delle sue mani tracciò un «no» nell’aria.
«Se i pezzi non si incastrano è perché ti è sfuggito qualcosa, ti sei confusa, hai preso la strada sbagliata.» Mi mise una mano sul viso per farmi chiudere gli occhi, aveva un buonissimo profumo. «Rilassati, non pensare a nulla, svuota la mente. Sicuramente è un po’ che forzi le cose senza sapere che strada prendere. Dai un’opportunità al tuo intuito.»
“Dai un’opportunità al tuo intuito”: potevo prendere sul serio un’affermazione del genere? Aprii gli occhi quando lei ritrasse la mano. Appoggiò le spalle larghe contro la poltroncina.
«Una volta, quando pilotavo da poco il mio aereo, mi ritrovai persa in una stramaledetta tempesta di vento e se non avessi avuto l’intuizione di lasciarmi trasportare, se avessi opposto resistenza per andare nella direzione in cui volevo io, probabilmente adesso non sarei qui a raccontartelo.»
«Quello che sta succedendo a Laura è colpa mia, spero che qualcuno la aiuti e che sua madre, sua nonna, il dottor Montalvo, il bosniaco e Ana non l’abbiano trovata.»
Non c’era bisogno che le raccontassi i particolari perché si facesse un’idea del quadro generale. Quando entrava nelle vite degli altri era perché quelle vite erano contorte, spezzate, strane. Niente la sorprendeva.
«Laura fugge e loro la cercano per tapparle la bocca. Tu la cerchi per proteggerla. Non è una cosa dell’altro mondo.»
Aprii lo zaino e tirai fuori una boccetta di siero di rose.
«Questo è perfetto per te», dissi esaminandole la pelle, coriacea e con cicatrici profonde da acne giovanile. «Quando non cerco Laura, vendo creme.»
«Non preoccuparti, per esperienza so che sei sul punto di fare una scoperta importante.»
Non si meritava il regalo, non mi aveva aiutato. Non mi meravigliava che mia madre avesse deciso di indagare per conto suo. Inutile agenzia di merda. Martunis non c’era mai, non c’erano mai clienti e María mi dava consigli zen. Decisi di andare a casa a posare lo zaino con i prodotti, farmi la doccia, mangiare qualcosa e probabilmente raccontare tutto a mio padre per uscire in taxi a cercare Laura, anche se non sapevo dove. Chi potevano essere i suoi amici? Aveva del denaro con sé? Casa mia non era lontana, perciò ci andai a piedi mentre svuotavo la mente come mi aveva detto María. In fondo le davo ascolto, non so perché.
Le luci erano accese. Adesso, tutte le volte che mi avvicinavo alla fila di villette a schiera della mia strada e arrivavo al nostro numero, al nostro cancello, e vedevo le luci smorte della veranda, il nocciolo di pesca mi attraversava la gola. A volte mi pareva che un’ombra passasse da una parte all’altra della finestra della cucina e me ne andavo di corsa al parco a fare un giro. Per fortuna Don mi riportava sempre alla realtà abbaiando. Quando mi avvicinai lo sentii. Lui non aveva bisogno di vedermi per sapere che stavo arrivando a casa.
Aprii la porta e quasi mi buttò a terra saltandomi addosso.
«Ángel!» gridai.
Nel salotto era accesa soltanto la piccola lampada con il paralume giallo che diffondeva una luce molto gradevole. Anche la luce del giardino era accesa e illuminava le piante. Non so perché mi sembrava di vedere la casa con altri occhi. Dalla stanza di Ángel, che era quella degli ospiti, proveniva la musica. Lasciai nell’armadio dell’ingresso lo zaino con i prodotti e la giacca e non potei far altro che bussare con insistenza alla porta di Ángel.
«Cosa c’è?» disse venendo ad aprire.
«Aiutami a togliere gli stivali.»
Entrai e mi sedetti sul letto. Lui me li tirò.
«Che ti ha detto?» mi chiese.
Non capivo.
«Lei. Che ti ha detto?»
Lui era sorpreso e anch’io. Non capivo. Si diresse verso il salotto, dove non ero entrata. Lo seguii. Accese le luci e a quel punto la vidi distesa sul divano. Si alzò. Indossava vestiti miei e di Ángel. Io ero stordita.
«Mi dispiace», disse. «Non mi è venuto in mente nessun altro posto dove andare.»
Mi sedetti su una delle sedie intorno al tavolo di mogano.
I pezzi si erano incastrati. Non avevo pensato che Laura sarebbe potuta venire a chiedere aiuto a noi. Non volevo pensare a quello che mia madre avrebbe dato per quel momento, perché era per lei che avevo trovato Laura, lei era sua madre, la mia e di Ángel e certamente la sua missione era consistita nel riunirci tutti.
«Non so se sono vostra sorella», aggiunse. «Francamente non provo niente di speciale in questa casa, ma credo che Lilí e Greta non mi amino come i figli devono essere amati.»
Ángel mi guardò come per chiedermi chi fossero Lilí e Greta.
«Qui sei al sicuro», dissi sapendo che prima o poi avrebbe dovuto spiegarmi come era riuscita ad arrivare a casa nostra.
Laura era un meteorite caduto da un altro universo e da altre vite. E per quella sera l’avventura era finita, non dovevo più uscire a cercarla per le strade del mondo. Le chiesi se aveva voglia di aiutarmi a preparare la cena. Entrammo in cucina e, accarezzando il tavolo di quercia massiccia, disse che le piaceva molto. Dovevo solo mantenere la promessa che avevo fatto a Carol. Tirai fuori il foglietto e composi il numero con l’apparecchio attaccato al muro. Non ebbi quasi il tempo di chiedere di lei perché la mano di Laura interruppe la comunicazione. Scosse la testa più volte.
«Non preoccuparti», la rassicurai. «Non sa che sei qui.»
«Magari ho esagerato», disse.
«Bene, adesso prepariamo la cena. Domani ti sembrerà tutto più chiaro.»