31.
VERÓNICA E UNO IN PIÙ IN FAMIGLIA

Quando infilai la chiave nella toppa e sentii un cane abbaiare, pensai che Ana fosse in casa e questo mi provocò una stretta allo stomaco. Per me era difficile guardarla normalmente negli occhi, mi sembrava impossibile che non notasse l’avversione che provavo nei suoi confronti. Tutto in lei, dai capelli alle scarpe, faceva sorgere in me un’ostilità che non avevo mai pensato di poter provare per qualcuno. Avevo buttato tutti gli oggetti che mi aveva regalato nel corso degli anni e che un tempo mi piacevano tantissimo, quando ero una bambina e tutti erano innocenti. Ana conosceva la famiglia di Laura e aveva ingannato la mamma: c’era sicuramente del marcio. Io avevo il vantaggio di non provare per Ana tanto affetto quanto mia madre, e me la immaginavo capace di molte cattiverie. Inoltre, se le ricordavo insieme, dovevo riconoscere che era mia madre che si aggrappava ad Ana, che aveva bisogno che lei la ascoltasse, che aveva bisogno di vederla, di chiamarla amica, forse perché solo con lei poteva sfogarsi a proposito della figlia fantasma, solo a lei quella storia non faceva impressione.

Feci un respiro profondo e mi disposi ad accarezzare Gus per non dover fingere troppo con la padrona. Non avevo il coraggio e non volevo neppure dimostrare apertamente che non la sopportavo, soprattutto perché riconoscevo che mio padre, quando c’era lei, era un po’ meno malinconico. La sorpresa fu che non era Gus ad abbaiare, ma un cane grassoccio con il pelo lungo e le zampe slanciate che, nonostante la mia scarsa preparazione sull’argomento, mi sembrò un insieme di varie razze. Un nuovo cane di Ana? Non era nel suo stile, e inoltre non era molto pulito. Non veniva certo dalla misteriosa casa di Ana, dove non doveva esserci neanche una traccia di polvere, fango o sporco. Senza contare che la presenza di Ana si avvertiva subito.

«Ángel!» gridai.

«Che c’è?» si sentì in lontananza, dietro la porta del bagno.

Il cane mi guardava con le orecchie ritte. Doveva provenire da un ambiente ben poco aggressivo.

«Questo affare nero e peloso è tuo?!»

Chiusi la porta della cucina per evitare che il cane entrasse e sbavasse sui piatti e le pentole, il ripiano e le gambe del tavolo, e mi incamminai lungo il corridoio. Pensai che mio padre non fosse rientrato perché il televisore non era acceso, ma passando davanti alla stanza di Ángel, dove lui dormiva da quando era morta la mamma, mi arrivò una zaffata di birra.

«Papà» – mi affacciai dentro – «va tutto bene?»

«Sono andato a bere qualcosa con i colleghi e mi sono sentito male.»

Gli chiesi se voleva che gli preparassi una camomilla o una tortilla e si coprì con il lenzuolo.

«Lascialo stare», disse Ángel dietro di me abbottonandosi i pantaloni.

Vide la mia espressione spaventata. Vide nei miei occhi il padre di Juanita. Lui però non sembrava preoccupato. Il cane gli si avvicinò trotterellando.

«Non ti preoccupare, mi ha detto che non lo farà mai più.»

«E tu gli credi?» ribattei. Ero sul punto di mettermi a urlare.

«Sì, è meglio credergli che non farlo. I grandi hanno molta paura e bisogna solo aspettare che passi», rispose accarezzando il cane. Non glielo avrei mai detto, ma sentire mio fratello parlare così mi rasserenava.

«E questo bastardino? Non vorrai farlo dormire qui.»

«È di un mio amico, gli ho promesso di tenerglielo per due settimane.»

«Due settimane! Ma tu sei pazzo. Sarà vaccinato? Perché non ha il collare?»

Per farsi perdonare, Ángel preparò degli spaghetti da leccarsi i baffi.

Il cane si chiamava London. A me però piaceva chiamarlo Don, mi veniva più facile e, quando aprivo la porta e lo sentivo abbaiare, la casa non mi crollava addosso. Mio padre, appena rincasava, gli metteva il guinzaglio e lo portava a fare un giro al parco; a volte addirittura rientrava prima perché diceva che non si fidava che io o Ángel lo portassimo fuori a fare i suoi bisogni o a respirare un po’ di aria pura. In realtà anche io e mio fratello lo portavamo fuori. Nel quartiere non c’era un cane che stesse per strada tanto quanto lui. Dopo tre giorni aveva il suo osso di plastica e delle belle ciotoline per il cibo e l’acqua. Una coperta, lo shampoo e una spazzola per il pelo.

E conobbe Laura. La annusò, agitò la coda e la accompagnammo fino al conservatorio passando attraverso il parco, perché adesso c’era Don che ci proteggeva. Le ombre non erano minacciose e la luna sorrideva.

Dopo una settimana era diventata un’abitudine per me andare a prendere Laura con Don. Di solito mi appostavo nei dintorni di Zara, che era di fronte al suo negozio, e quando Laura ci raggiungeva ci univamo pian piano a lei finché iniziavamo a parlare. Laura lasciava che Don le leccasse le mani e anche la faccia. Era una bravissima ragazza e le piaceva che il mondo non fosse complicato né strano. In questo assomigliava a papà. Non potevo aspettarmi che facesse grandi passi per conto suo, dovevo provocarli io, e quel giorno avrei fatto in modo che la situazione si sbrogliasse un altro po’.

Mentre camminavamo, le dissi che l’avrei aspettata alla fine delle lezioni al bar dell’angolo, a cento metri dal conservatorio. Volevo farle una sorpresa. Non le avrei rubato molto tempo. Accarezzò Don ed entrò. La coda di cavallo le ondeggiava sulla schiena perfettamente diritta da ballerina.