1.
VERÓNICA

Sull’ultimo ripiano dell’armadio dei miei genitori, avvolta in una coperta, c’era una cartella di pelle di coccodrillo che nessuno usava mai. Per prenderla dovevo tirare fuori la scala di alluminio dalla lavanderia e salire fino al gradino più alto. Prima, però, dovevo cercare la piccola chiave che apriva la cartella tra gli orecchini, i bracciali e gli anelli del portagioie di mia madre.

Non le avevo mai dato troppa importanza. Persino mio fratello Ángel, che aveva otto anni, era al corrente dell’esistenza della cartella, e se non avevamo la tentazione di frugarci dentro, era perché sapevamo che non conteneva niente di interessante: l’atto di proprietà della casa, i libretti delle vaccinazioni, i documenti della previdenza sociale, la licenza del taxi, le ricevute della banca, le fatture e i diplomi dei miei genitori; quando fossi andata al liceo, sarebbero finite lì dentro anche le mie pagelle. A volte mio padre spostava la fruttiera dal tavolo della sala da pranzo e vi appoggiava la cartella, che si apriva in tre parti ed era troppo grande per ogni altro ripiano della casa, a parte il tavolo della cucina, se si eliminavano tutte le suppellettili che normalmente lo ingombravano.

Mio padre mi aveva chiesto di svegliarlo dal sonnellino pomeridiano alle cinque. Non si era fatto la barba: era il segno che erano iniziate le vacanze. Si alzò stordito e, dopo essersi stiracchiato e aver sbadigliato, aprì l’armadio e prese la cartella: a quanto pareva ne avrebbe approfittato per mettere un po’ d’ordine tra i documenti. Lo seguii in corridoio. Seguii le sue gambe pelose e il costume a strisce che gli arrivava a metà coscia. La barba era lunga vari millimetri: assomigliava agli altri padri sonnambuli che uscivano dalle villette a schiera del nostro quartiere durante il fine settimana, montavano qualche scaffale nel garage e lavavano la macchina mezzi addormentati, con grande flemma. Lui lavava il taxi. Quasi tutti i padri del circondario risultavano più affascinanti quando andavano e tornavano dal lavoro rispetto a quando erano a casa, con la differenza che il mio doveva essere più bello della media, perché quando veniva a prendermi a scuola le insegnanti, le madri degli altri bambini e persino i miei compagni mi chiedevano: «Quello è tuo padre?». Se volevo attirare l’attenzione in qualche posto, dovevo solo chiedergli di accompagnarmici. Accanto a lui acquisivo un certo fascino. Mio padre, però, non aveva alcun senso estetico e pensava di non essere niente di speciale. Non aveva coscienza di essere uno che piace agli altri: si preoccupava soltanto del lavoro.

Lo seguii fino alla sala da pranzo. Aprì sul tavolo di mogano la cartella dei documenti importanti, la cartella sacra, che divise il mondo in un prima e un dopo, e cambiò i miei genitori da quelli di prima a quelli del segreto. Non dimenticherò mai quel pomeriggio. Mia madre aveva portato Án­gel alla lezione di karate e non sarebbe tornata prima di un’o­ra e mezza perché, in attesa di andare a riprenderlo, ne approfittava per fare qualche vasca in piscina.

La mamma si chiamava Roberta, ma tutti la chiamavano Betty. Soffriva di esaurimento nervoso e il medico le aveva consigliato di fare molto sport. Doveva correre, nuotare e ballare. Io non trovavo affatto divertente che ballasse, perché arrivava sempre un momento in cui si metteva a piangere, e non si sapeva se di tristezza o di gioia. Il medico le aveva raccomandato anche di circondarsi di fiori, perciò la nostra casa aveva un aspetto molto festoso. C’erano fioriere e vasi in veranda, sui davanzali, sui mobili, e nei posti in cui non arrivava la luce aveva messo fiori di plastica e di stoffa.

Dunque ero sola in casa con mio padre quando, mentre la cartella era semiaperta sul tavolo, lo chiamarono al telefono e lui uscì in giardino con il cordless. Esordì dicendo che, per quella cifra, non avrebbe neanche infilato la chiave nel cruscotto. Io rimasi in sala da pranzo, annoiata; non stavo pensando a niente quando accarezzai il mogano del tavolo e la pelle della cartella. Dall’esterno proveniva la voce di mio padre. A me venne voglia di aprire completamente la cartella e scoprii che si componeva di quattro parti, e non di tre come avevo creduto fino a quel momento. Volevo verificare quanto fosse grande e fu allora che vidi spuntare da una fessura l’angolo di quella che sembrava una fotografia. La tirai fuori con cautela con la punta di due dita, come se scottasse, e la guardai e riguardai senza sapere cosa pensare.

Avevo di fronte una bambina come me, solo un po’ più grande. Io avevo quasi dieci anni e lei doveva averne dodici. Era biondina, con un caschetto che le arrivava alle orecchie, la frangetta e la faccia rotonda su un collo lungo e magro che le dava un’aria nobile. Chi era? Perché la sua foto si trovava in un posto in cui si custodivano le cose importanti? Indossava una salopette di jeans, una maglietta e un paio di infradito, e teneva un pallone tra le mani.

All’improvviso non sentii più mio padre: aveva riagganciato. Rimisi la foto dov’era, con un angolino che spuntava, e la cartella come l’avevo trovata. Avevo la sensazione di aver fatto qualcosa di male, di sapere qualcosa che non avrei dovuto sapere, e per niente al mondo avrei voluto far spaventare papà o dargli una preoccupazione – aveva già fin troppi problemi con il lavoro – per aver curiosato dove non avrei dovuto.

Uscii in giardino. Mio padre spalancò la bocca come un leone.

«Verónica», disse. «Vammi a prendere una birra in frigorifero, la più fredda che trovi.»

Non mi sarebbe venuto in mente di chiedergli chi era quella bambina per nessun motivo al mondo: un sesto senso mi diceva che sarebbe stato meglio per tutti se non lo avessi scoperto. La lattina era coperta da una patina gelata e nel tragitto dalla cucina al giardino mi bruciai le dita.

Restai a guardarlo mentre se la beveva con gli occhi chiusi. Il caldo stava allentando la morsa. «Ah!» esclamò soddisfatto dopo l’ultimo sorso. Si pulì gli angoli della bocca con le dita e si sistemò gli occhiali per guardarmi, come se finalmente si fosse svegliato del tutto. Il bagliore dell’esterno si rifrangeva su di noi come un’onda.

Da quel momento la cartella di coccodrillo sull’ultimo ripiano dell’armadio, sotto la coperta, iniziò a emanare una luce fortissima che mi raggiungeva dovunque mi trovassi nella casa. Quella luce mi si piantava in testa e mi ordinava di andare in lavanderia a prendere la scala di alluminio, trascinarla come potevo fino alla stanza da letto dei miei, cercare la chiave, salire sulla scala, tirare giù la cartella, aprirla sul copriletto con i grandi fiori verdi e azzurri, e guardare di nuovo quella foto che mi ipnotizzava e che finì per imprimersi nella mia memoria. E quando mio fratello compariva nella stanza o presagivo che i miei genitori sarebbero arrivati da un momento all’altro, rimettevo tutto a posto. Dopo aver chiuso la cartella, nascondevo la chiave tra i gioielli e mi rimettevo la scala in spalla.

La bambina della foto si chiamava Laura. Era scritto su un foglietto nella grafia di mia madre. Mi diceva qualcosa. Avevo sentito pronunciare quel nome più di una volta, ma finché non avevo scoperto la foto non ci avevo fatto molto caso. I miei genitori, quando parlavano tra loro, nominavano spesso amici che non conoscevo e che sicuramente non avrei mai incontrato. Colleghi di mio padre, qualcuno con un nome straniero, e amiche di gioventù di mia madre. Casa mia era piena di gente invisibile più che di persone reali. Inoltre mia madre non era molto socievole e le sue amicizie duravano poco. Quella di più lunga data era con una certa Ana, che aveva un cane pelosissimo. La chiamavamo «Ana del cane». Oltre ad aver prestato ai miei i soldi per finire di pagare il taxi, Ana ascoltava mia madre con grande pazienza e le dava ragione su tutto. In casa le eravamo molto grati, perché in quei momenti Betty era una donna normale, con un’amica normale a cui raccontava le sue cose.

Mi piaceva il suo modo speciale di suonare il campanello con tre squilli corti, come se fosse un segnale in codice. Il cane, Gus, era molto grande e bisognava portarlo in veranda per evitare che riempisse tutta la casa di peli. Io ci giocavo, gli davo da mangiare e lo facevo arrabbiare. Aveva gli occhi neri e brillanti e la lingua rosa e bavosa. E c’era un attimo nel quale mi guardava con un’intensità assai maggiore di qualunque persona. In fin dei conti, erano tutti occhi. Occhi di cane e occhi di essere umano, ma pur sempre occhi, fatti per guardarsi e capirsi.

«Che cosa vuoi dirmi, Gus?» gli chiesi mentre attraverso il vetro vedevo mia madre che apriva la cartella di coccodrillo davanti ad Ana. Per prenderla dall’ultimo ripiano, lei non aveva bisogno di portare la scala nella stanza da letto; le bastava salire su una delle sedie azzurre imbottite e mettersi sulle punte. Non era molto alta, circa un metro e sessantacinque, ma con i tacchi lo sembrava. Il fatto è che non se li metteva mai. Di solito portava gli stivali sotto i jeans, d’estate le infradito, e i capelli raccolti in una coda di cavallo per non doverseli pettinare. Quel giorno, poiché faceva piuttosto caldo, si era messa una tunica che Ana le aveva portato da uno dei suoi viaggi in Thailandia. Era bianca e trasparente, con un decoro di perline sul petto. La mamma non si truccava, se non in occasioni speciali come la mia prima comunione e quella di mio fratello: in quei casi il cambiamento era stupefacente. Per questo la sua amica Ana le diceva spesso che, perché gli altri le volessero bene, per prima cosa doveva volersi bene lei: un’affermazione che mi sembrava stupida perché io, mio padre e Ángel le volevamo già bene.

Mia madre tirò fuori la foto di Laura che avevo esaminato fino alla nausea e si guardò intorno per essere certa che io non ci fossi. Dal canto mio, facevo finta di essere distratta e accarezzavo la schiena di Gus senza smettere di osservare la sala da pranzo: Ana guardava la foto e mia madre con grande attenzione e serietà, senza battere ciglio, lasciando che la sigaretta le si consumasse tra le dita. Era alta, con un bel fisico, i capelli neri corti e qualche filo argentato anzitempo. Non assomigliava in niente a mia madre, era divertimento puro. Fumava come una turca e le cadeva sempre la cenere sul divano. Non usava il posacenere. Aspirava e la sigaretta si consumava e poi si spezzava, ma a lei non interessava. Sembrava che fosse abituata a fare ciò che voleva. La consideravamo molto sveglia. Guidava benissimo, quasi meglio di mio padre, su strade strette con le macchine in doppia fila. Parcheggiava in qualunque buco. A volte lasciava la macchina per metà sul marciapiede, quasi appoggiandola al muro. Conosceva a menadito la città: strade sperdute, bar, ristoranti, negozi, ospedali, parrucchieri. Per lei il mondo non aveva segreti.

Quel pomeriggio fu tremendo: persino Gus stava allerta, con le orecchie rizzate, come se dovesse scattare da un momento all’altro. La tensione era altissima. Anche volendo, non avrei potuto non notare ciò che accadeva, sapevo qualcosa e avevo troppi sospetti: chi era quella bambina? Sarei stata disposta a non andare al cinema per un anno pur di sentire la storia che mia madre stava raccontando ad Ana. Non doveva essere facile perché si prendeva la testa fra le mani, piangeva, si accertava di nuovo che non fossi lì, accendeva un’altra sigaretta e la spegneva subito dopo, mostrava ancora una volta la foto, che la sua amica prendeva in mano con un’espressione preoccupata. Ana scosse la testa come a dire: “È impossibile”, e mia madre sospirò strofinandosi il naso con il dorso della mano. Alla fine chiuse la cartella con vari colpi secchi e la riportò in camera, mentre Ana rimase a guardare la parete che aveva di fronte. Probabilmente stava contemplando il mobile del televisore e i libri che lo circondavano. Doveva essere stufa della scenetta melodrammatica che la sua amica aveva messo in piedi. Poi si tirò un po’ su la manica del maglione e guardò l’ora. Si alzò: all’improvviso aveva fretta. Passeggiò nervosamente da una parte all’altra della stanza fregandosi le mani come se volesse strapparsi la pelle.

Prima che mia madre tornasse, Ana venne a cercare il cane in veranda.

«Sei qui?» chiese allarmata vedendomi con Gus.

Mi sforzai di ricominciare ad accarezzare la schiena pelosa: era chiaro che Ana avrebbe preferito che non sapessi della foto di Laura, e non volevo fare una gaffe.

«Pensavo che fossi uscita.»

«No, sono rimasta a giocare con questa belva. Dov’è la mamma?»

«In cucina, credo. O forse in bagno.»

A dire il vero, mi infastidiva il modo in cui mi guardava Ana, la quale sapeva perfettamente che mia madre stava riponendo la cartella in camera. Sembrava che volesse farmi scomparire con lo sguardo.

«Pensavo che foste andate a fare un giro», mi venne in mente di dire per tranquillizzarla.

«No, siamo rimaste qui a chiacchierare», rispose già più rilassata, prendendomi un ricciolo tra le dita.

Ana diceva sempre che avevo dei capelli bellissimi, il sogno di ogni bambina. Erano come quelli di mia madre, neri e ricci, con i boccoli sulla nuca e sulle tempie. E ad Ana piaceva toccarli, passarci la mano dentro e lasciarla lì per qualche secondo. Io però non vedevo l’ora che la togliesse.

Quella sera, quando mio padre rincasò, si accorse che c’era qualcosa che non andava.

«Gliel’ho raccontato», disse mia madre non appena entrò in cucina.

Mio padre prese tempo lavandosi le mani con il detersivo per i piatti. Si passò le palme umide sul viso e, alla fine, la guardò.

Io stavo facendo i compiti sul tavolo di quercia della cucina e alzai appena la testa dal quaderno: non volevo che si accorgessero di me e che mi facessero uscire dalla stanza. Mi ero già messa il pigiama e avevo cenato con mio fratello, che stava guardando la televisione.

«Forse lei ci può dare una mano.»

Mio padre assunse un’espressione contrariata e si adombrò. Si trasformò in una roccia dallo sguardo triste. «Possiamo cenare?» chiese nervoso.

«Sì», rispose mia madre servendogli un piatto di spaghetti in malo modo.

Qualche goccia di sugo di pomodoro finì sul tavolo. Per fortuna non era il tavolo buono della sala da pranzo, perché in quel caso sarebbe stato un disastro. Su quello della cucina ci si poteva anche ballare e non succedeva niente. Mio padre aprì le palme delle mani come per fermare una tempesta.

«La mia giornata è stata come tutte le altre. E per poco non mi hanno derubato.»

Sospettai che fosse un modo per tenere a freno mia madre. Anche lei si servì e si misero a mangiare in silenzio, senza guardarsi.

Era arrivato il momento di chiudere il quaderno e andare a guardare la televisione con Ángel. Mi stesi sul divano e mi misi a fissare lo schermo senza far caso a ciò che vedevo. Ángel era molto fortunato: non sapeva niente, viveva ignaro di ciò che succedeva intorno a lui, si preoccupava solo di mangiare e di giocare. Qualcosa in televisione lo fece ridere e mi guardò per vedere se ridevo anch’io. La mia opinione gli interessava moltissimo. Sbirciava sempre di sottecchi per capire se una cosa mi sembrava giusta o sbagliata, se trovavo divertente ciò che diceva, se mi piaceva quello che disegnava.

Dalla cucina non veniva nessun rumore, neppure di piatti, bicchieri e posate, come se i nostri genitori fossero morti. Probabilmente per loro era difficile rompere un silenzio così profondo, un silenzio come quello del mare quando si nuota sott’acqua e non si sente niente.

Ángel continuava a stare da un lato, attento ai miei movimenti e alle immagini sullo schermo. Era più che magro: non c’era modo di fargli irrobustire un po’ le braccia e le gambe, per quanto la mamma lo portasse a karate. Diventava sempre meno biondo e da grande sarebbe stato completamente castano, per cui non sarebbe sembrato la stessa persona. Anche mio padre era stato biondo e poi era diventato castano, ma aveva gli occhi azzurri. Nelle foto di quando era piccolo aveva una faccia rotonda che sembrava destinata a non indurirsi mai. Eppure era successo, tanto che ora gli si vedevano tutte le ossa del viso.

«Hai fatto i compiti?» gli chiesi tanto per dire qualcosa.

Come c’era da aspettarsi, Ángel non rispose e sprofondò ancora di più nel divano. Rimanemmo così per qualche secondo finché non spostammo lo sguardo sul corridoio che portava alla cucina. Da lì arrivava un suono sommesso. Avrebbe potuto essere un pianto o una risata soffocata. Forse i miei genitori avevano fatto una di quelle cose tipiche dei grandi: si erano abbracciati all’improvviso ed erano passati dalla tristezza all’allegria. Lo speravo, ma era improbabile. Erano molto testardi; nessuno dei due era disposto a cedere e, soprattutto, facevano fatica a rompere il silenzio profondo, come se farlo potesse provocare l’implosione dell’universo.

Ángel si girò di nuovo verso il televisore. Una faccia preoccupata in una testa che di preoccupazioni non ne voleva; se io non fossi stata lì, si sarebbe tappato le orecchie. Era un pianto, e poi non si sentì più nulla. Dopo un po’, il rumore dell’acqua del rubinetto. Probabilmente mia madre si stava lavando la faccia. Che cosa dovevo fare, andarmene o rimanere? Non avevo voglia di vederli così, ma non volevo neppure fuggire in camera mia. Decisi di rimanere con Ángel. I passi di quattro piedi scalzi avanzavano verso il soggiorno; il volume della televisione si alzò per la pubblicità.

«Ana è molto sveglia, sono sicura che le verrà in mente qualcosa», disse la mamma lasciandosi cadere di colpo sul divano, quasi volesse romperlo. «Come faccio a stare tranquilla, Daniel, come faccio?»

Lo sguardo di mio padre si velò e lui assunse l’espressione di chi è stanco della vita. Riuscivo a leggergli nel pensiero: lavorare, cercare di accaparrarsi i clienti, stare attaccato al volante tutto il giorno, sopportare vari colleghi che non poteva proprio vedere, preoccuparsi della scuola dei figli, dei loro studi, del loro futuro, che fossero ben vestiti e che non mancasse loro niente, tenere aggiornata la contabilità, cercare di tirar fuori Betty dal buco nero in cui a volte cadeva. Ma non era abbastanza, non era mai abbastanza, perché per quanto si facessero bene le cose, per quanto si affrontasse bene la vita, c’era sempre qualcosa di irrisolto.

E io sapevo di cosa si trattava. Era Laura. Alla bambina della foto era legata una questione delicata.

«Ana mi ha proposto un lavoro per farmi distrarre un po’.»

Il velo che copriva lo sguardo di mio padre sparì e lui si riebbe. La vita valeva ancora la pena di essere vissuta.

«Mi troverebbero un posto nella società di un suo amico. Dovrei vendere a domicilio prodotti dietetici e cosmetici di alta gamma. Ana assicura che si guadagna bene senza grossi sforzi.»

«Ci farebbe comodo», disse mio padre abbracciandola da dietro.

Ángel assisteva alla scena guardando la televisione con gli occhi del viso e osservando i genitori ora con gli occhi della nuca ora con quelli laterali. Era più intelligente di quanto sembrasse, per cui era meglio che non sentisse il nome della bambina per evitare che facesse domande.

«Tra l’altro potrei avere ogni mese varie confezioni di multivitaminico a metà prezzo. Sono ricostituenti.»

Guardammo tutti in direzione di Ángel, che disse di non avere nessuna intenzione di prendere quelle schifezze.

Mi riproposi di essere molto più simpatica con Ana e Gus la prossima volta che l’avessi vista perché, grazie a lei, almeno per quella sera i miei erano usciti dall’inferno.