5.
LA NONNA DI VERÓNICA
Quando arrivava una visita a casa, spostavamo tutto quello che c’era sul tavolino al centro del salotto e ci mettevamo un vassoio con formaggio tagliato a triangoli, olive, mandorle e birra, vino e Coca-Cola. Quando il tempo era bello facevamo la stessa cosa in veranda, e subito l’atmosfera si rallegrava. Mia madre dimenticava le sue preoccupazioni e a mio padre veniva voglia di raccontare episodi buffi legati al taxi. Io e Ángel ci sentivamo immensamente felici.
D’estate venivano a pranzare o a fare uno spuntino i colleghi tassisti di mio padre, soprattutto uno, con moglie e figli, che si chiamava Osvaldo. Era venezuelano e metteva i dischi di salsa, per cui quando c’era lui casa nostra sembrava la più allegra di tutto il quartiere. I genitori di mio padre vivevano alle Canarie ed erano venuti a trovarci solo un paio di volte, alloggiando peraltro in un albergo del centro per poter girare per Madrid e perché non andavano d’accordo con mia madre. Ci invitavano a cena in qualche ristorante costoso e mio padre si rimpinzava, mentre la mamma toccava appena il piatto. Erano alti, ossuti, sembravano stranieri e ancora non si erano rassegnati all’idea che mio padre fosse un semplice tassista, che non avesse fatto più strada, come se sua moglie e i suoi figli fossero stati un ostacolo sul cammino verso la gloria, quando non avevo mai sentito mio padre lamentarsi di niente e quando sembrava che avesse ottenuto tutto ciò che desiderava.
Anche i nostri nonni materni, Marita e Fernando, erano quasi estranei per me e Ángel. Qualche volta scrivevamo loro una cartolina e fra di noi chiamavamo Marita «nonnina» per quanto era piccola. Da seduta, non toccava con i piedi per terra. Mia madre aveva preso dal padre, un militare di bell’aspetto che era caduto nelle grinfie di quella donnina il cui unico desiderio nella vita, secondo la mamma, era stare sdraiata a letto a far niente. In casa si occupava di tutto lui. Faceva la spesa, cucinava, lavava e stirava, teneva i conti e assecondava tutti i capricci della moglie. Nonnina portava degli occhiali con le lenti spesse come fondi di bottiglia che le coprivano gli occhi piccolissimi, per cui essere riuscita a far innamorare mio nonno era un merito ancora più grande. E per lui i desideri di Marita erano ordini. Evidentemente aveva un magnetismo speciale grazie al quale tutto il mondo finiva per fare quello che voleva lei. Mi incuriosiva molto e mi piaceva il fatto che quella donna bruttina dal fascino misterioso fosse mia nonna. E, allo stesso tempo, per solidarietà con mia madre, non mi piaceva. Probabilmente era l’unica persona al mondo che riusciva a resisterle e, qualunque cosa Marita le chiedesse, lei rispondeva con un secco «no». Era sorprendente la fermezza di mia madre nei suoi confronti, considerando che era figlia unica.
Un torrido pomeriggio di giugno con il cielo azzurro, Ángel arrivò tutto eccitato dicendo che gli sembrava che nonnina stesse percorrendo la strada in salita che portava a casa nostra trascinandosi dietro una valigia più grande di lei. Uscii e, in effetti, una donna dalle scarpe bianche con i tacchi si avvicinava tirandosi dietro una valigia e portando a tracolla una borsa ugualmente bianca. Aveva un vestito nero a pois bianchi. Mia madre stava facendo il giro dei suoi clienti e mio padre era al lavoro. Io cercavo di studiare nella mia stanza.
Io e Ángel le andammo incontro per aiutarla. L’ultima volta che l’avevamo vista era stato alla prima comunione di Ángel. Ci chiamava per farci gli auguri nelle varie occasioni o per accertarsi che fossimo ancora vivi. Per noi esisteva, ma non del tutto. Non come gli alberi di fronte a casa che vedevamo sempre, spogli o pieni di foglie come in quel momento.
Quando ci vide posò la valigia e ci riempì di baci, ma prima le ci volle un attimo per riconoscerci. Eravamo proprio noi? Che colpo! Io ormai ero una signorina e Ángel faceva sicuramente furore tra le bambine. Le dicemmo che Ángel l’aveva vista per caso e che i nostri genitori stavano lavorando. Aggiungemmo che non ci saremmo mai aspettati di vederla venire verso casa in un giorno normale.
Fui contenta che mia madre non fosse presente all’arrivo di Marita perché così l’accoglienza fu più facile. Ci diede dei regali. Non erano cose costose: si capiva che non era ricca. Sicuramente la pensione che prendeva mio nonno non era gran cosa. Lui era rimasto a casa per prendersi cura della gatta e del giardino. Nonnina si lamentò perché i piedi le facevano male a furia di camminare sui tacchi e io le preparai un pediluvio con acqua e sali da bagno. Mi disse che si sentiva una meraviglia. Dopo che ebbe tirato fuori i regali, la valigia rimase aperta in mezzo al soggiorno. La chiusi e la portai nella mia stanza. Avrei potuto farla sistemare nella camera degli ospiti, ma preferii tirare fuori la brandina e averla vicina.
«Avevo voglia di vedervi», disse accarezzandomi la testa mentre le massaggiavo i piedi nella bacinella. «Per questo non ho avvertito tua madre: avrebbe fatto un sacco di storie e, nel frattempo, voi diventate grandi.»
«Tornano tardi. Lavorano molto.»
«Non fa niente. Prepareremo la cena e faremo loro una sorpresa.»
Ángel andò a karate. Io sarei dovuta andare al cinema con le mie amiche, ma disdissi l’appuntamento. Marita aveva qualcosa che mi faceva venir voglia di stare con lei. Forse era il fatto che mi riconoscevo in alcune sue caratteristiche. Avevamo entrambe la pelle così bianca che le vene erano molto evidenti e sembrava che dovessero rompersi al minimo sfioramento. Guardandole le mani capii che mi si sarebbero riempite di rughe prima del tempo, come se fossero coperte da poca pelle e come se i nostri antenati venissero da un paese poco assolato.
Era molto tranquilla. Di tanto in tanto mi dava un bacio. Era parecchio che non la vedevo, ma era mia nonna e quindi aveva il diritto di sbaciucchiarmi. Preparammo empanadillas, insalata e pesce grigliato. A dire il vero, preparai tutto io mentre lei mi guardava con i suoi occhiali da mille diottrie. Tra gli occhiali e gli orecchini, quasi non le si vedeva il viso. Non parlava molto, pensava più di quanto parlasse. Probabilmente era questo che aveva fatto perdere la testa al nonno. Però mi parlò di mia madre, di quando era piccola. Le piacevano molto gli animali. In casa c’erano cani, gatti, un pappagallo e un acquario con i pesci. La loro cura richiedeva grande impegno e avevano dovuto disfarsi a poco a poco di quello zoo, perché Betty era una bambina molto compassionevole con gli animali malati e bisognava tenerla a freno. Io le assomigliavo moltissimo: avevo gli stessi occhi, gli stessi capelli e lo stesso naso. Quando mi guardava, le sembrava di vedere Betty. Mi faceva piacere che mi parlasse anche di me. La sera, quando ci fossimo coricate, le avrei chiesto della sua storia con il nonno. Era una sensazione strana, quella di essere tornata in una grotta piccola e calda dove c’era tutta la mia tribù.
Alle otto e mezzo suonò il campanello. Avevamo già apparecchiato la tavola con la tovaglia che mia madre teneva da parte per le occasioni speciali. La prima ad arrivare fu lei. Nonnina era seduta sul divano. Quando sentì la porta si girò di lato. La mamma rimase immobile all’ingresso del salotto. Era come paralizzata.
«Che sorpresa!» disse.
Nonnina si alzò e andò a darle un bacio. Portava le mie pantofole a forma di cane e quasi non riusciva a camminare. Le erano venute le vesciche e se le era messe perché erano morbide. Mia madre le guardò.
Sembrava che non le facesse piacere che si fosse messa le mie pantofole, il che significava che non le faceva piacere che sua madre fosse a casa nostra. Avevano lo stesso sedere sodo e nessun’altra somiglianza.
«Non hai caldo con quelle?» chiese la mamma.
«Sono venuta a trovarvi.»
Mia madre si tolse le scarpe e la maglia e rimase in reggiseno. Era la prima cosa che faceva prima di farsi la doccia. Mentre andava in bagno lanciò un’occhiata alla tavola.
«Allora è un’occasione speciale.»
«Sì», risposi. «Appena arrivano papà e Ángel ceniamo.»
Non disse altro. Si sentì scorrere l’acqua della doccia più a lungo del solito. Marita uscì in veranda. Faceva fresco e si vedevano le lucine delle altre verande.
«È molto bello per essere Madrid», commentò.
Alle dieci e dieci stavamo cenando. La tavola era animata. A tutti, tranne che a mia madre, faceva piacere che ci fosse un’altra persona di famiglia. Dalla finestra aperta entrava una brezza nera e azzurrata. Ci permisero di bere un po’ di vino. Mio padre disse a Marita che se doveva andare da qualche parte ce l’avrebbe accompagnata lui in taxi. La mamma le chiese perché non aveva chiamato per avvertire del suo arrivo: lei aveva molto lavoro e non avrebbe potuto farle compagnia. Nonnina rispose che non doveva preoccuparsi: era venuta per aiutare, non per dare fastidio.
«Il tuo aiuto arriva un po’ tardi, non credi?» la rimproverò con gli occhi accesi di furia. Si sarebbe potuto pensare che li avesse così brillanti e scuri per il vino, ma era per nonnina.
In quel momento Ángel ebbe l’idea geniale di accendere la televisione e tutti guardammo verso lo schermo. Viaggiavamo nell’oscurità del cielo e, come se mi leggesse nel pensiero, Ángel disse che stavamo girando a enorme velocità intorno al sole. Mio padre spiegò: «Vuole fare l’astronomo».
Marita rimase a casa nostra una settimana e alla fine mio padre la portò in taxi alla stazione. Quella sera, quando mia madre rincasò, disse che finalmente eravamo di nuovo in famiglia e che avremmo cenato normalmente.
«Ormai non sa più cucinare», aggiunse, e non era vero.
«Sei ingiusta», le disse mio padre molto nervoso. «Non ti passa per la testa che forse la stai giudicando male?»
«La colpa è stata sua. Anzi è stata di tutti e due. Mi hanno lasciata sola. Sola! E io non sono riuscita a difendermi. Sono fatti l’uno per l’altra. Sono i miei genitori solo quando fa comodo a loro, quando si tratta di venire qui e darmi altre preoccupazioni, per interrompere la nostra vita. Ormai non ho più bisogno di loro.»
Mio padre assunse un tono più dolce.
«Amore, non so cosa fare perché tu smetta di ossessionarti. Dobbiamo vivere. Sai cosa significa? Vivere!»
Allora mia madre si mise a piangere, soffiandosi in continuazione il naso con un fazzoletto.
Aveva ancora i vestiti da lavoro. Un abito largo con le spalline, che le nascondeva le forme, un paio di sandali con la zeppa e una collana con un ciondolo di ametista che mi piaceva molto quando ero piccola e che le arrivava più giù del petto.
«Pensavo di averla trovata. Pensavo di averla individuata», disse stando seduta sul bordo del divano e con il fazzoletto tra le mani.
Mio padre era in piedi. Scosse la testa, si sentiva impotente.
«Sono stata in una casa a vendere i prodotti, convinta che fosse la sua. Sembrava una pista sicurissima. E invece c’era solo una donna sulla sedia a rotelle. Le ho chiesto se in casa ci fosse qualche giovane che studiava e a cui potevano interessare degli integratori alimentari e mi ha risposto di no. Ho dato un’occhiata in giro e ho visto solo bei mobili e quadri scuri come in un museo. Non c’erano foto incorniciate.»
Improvvisamente mio padre si rese conto che io e Ángel eravamo lì e la portò in cucina.
«Finirai per ammalarti», le disse.
Il giorno dopo, quando fui sola, aprii di nuovo la cartella di coccodrillo. Se c’era stato qualche progresso in quella storia, dovevano averlo messo lì. Ma non c’era niente. E non osavo frugare nella borsa di mia madre perché avrebbe significato oltrepassare la linea del rispetto.
Il nome di Laura mi sarebbe potuto sfuggire di bocca da un giorno all’altro, in qualsiasi momento. Ángel non avrebbe fatto nessuna gaffe perché lo aveva sentito come chi sente il ronzio di una mosca. Laura. Io non sapevo esattamente chi fosse, ma sapevo che era reale e che in qualche modo viveva tra noi.