13.
VERÓNICA E LA VAMPIRA

Più di una volta avevo pensato di chiamare Ana del cane per dirle di mia madre e per chiederle di farle visita, perché le avrebbe fatto piacere. Sarebbe stato un modo per dividere la metà del suo miglioramento tra lei, mio padre e me, perché i miei nonni erano esclusi, mia madre non voleva vederli. Ma non fu necessario che facessi lo sforzo: una sera, intorno alle undici, mentre io e mio padre stavamo raccogliendo i piatti dal tavolino del salotto, dove avevamo cenato guardando lo schermo con profonda intensità come se volessimo romperlo, Ana telefonò. Erano i momenti peggiori della giornata: che ci facevamo noi a casa e mia madre in ospedale, quando la normalità sarebbe stata che fosse lì, seduta accanto a papà, parlando e alzandosi ogni due minuti? A volte piegava i panni asciutti mentre guardava una serie TV e rimproverava mio padre perché faceva cadere le briciole sul tappeto. La prima cosa che mia madre faceva quando arrivava a casa era cambiarsi. D’inverno si metteva un paio di vecchi jeans e una maglietta e si raccoglieva i capelli in una coda e d’estate indossava un paio di pantaloni corti e un’altra maglietta, e anche allora si legava i capelli. Non assomigliava in niente alla Vampira, la quale mi apriva la porta con una vestaglia di seta con i pavoni che quando si sedeva le scivolava sulle spalle e sulle gambe, su tutto un corpo nudo che minacciava di ritrovarsi scoperto in qualsiasi istante.

Sembrava sempre, a qualunque ora, che avesse appena lasciato qualcuno nel letto per venire ad aprire la porta. A volte si sentivano rumori oltre il cosiddetto salone, dove c’era un pappagallo in gabbia tra i mobili laccati neri. Io cercavo di essere rapida con le informazioni per permetterle di tornare alle sue faccende, ma lei non faceva caso ai rumori. Una volta volle anche che prendessimo il tè insieme. Lo portò su un vassoio di legno, sempre laccato nero, e dovetti assistere al rituale della preparazione tra pericolosi scivolamenti della vestaglia. Mia madre mi aveva avvertito che era un’acquirente fantastica: non guardava il prezzo e non faceva calcoli. Le riempivo il tavolo di cosmetici che ci avrebbe messo dieci anni a consumare e che doveva conservare da qualche parte insieme alle tonnellate di bastoncini di incenso che le regalava mia madre e che le regalavo anch’io. Un giorno, mentre le scivolava la vestaglia, le vidi un livido sulla spalla. Distolsi subito lo sguardo: forse non era quello che sembrava. Da un’altra stanza si sentì qualcuno, probabilmente un uomo, che si schiariva la voce, ma lei non aveva fretta. Mi chiese come andava il corso di mia madre, voleva che le raccontassi del Giappone. Fui sul punto di dirle la verità, un’idea assurda perché non sarebbe servito a niente e avrei tradito la fiducia della mamma. Così mi morsi la lingua, raccolsi le mie cose e me ne andai. All’esterno il riflesso del sole mi fece chiudere gli occhi di colpo. “Nessuno si salva completamente”, mi disse il riflesso del sole nel linguaggio dei riflessi.

Fu un sollievo sentire la voce di Ana. Mi chiese di mia madre e io le spiegai la situazione in tutti i particolari. Parlavo a macchinetta. Lei ascoltava in silenzio. Mi interruppe solo per dire a Gus di stare zitto. Le dissi che stavo sostituendo la mamma al lavoro e che speravo che per l’azienda non fosse un problema, visto che era una situazione temporanea e che per di più alcuni clienti erano ancora in vacanza. Aggiunsi che Ángel era dai nonni di Alicante, che mio padre si sentiva perso e che io avevo dimenticato di iscrivermi all’università.

«Non preoccuparti», rispose. «Non è necessario informare l’azienda. Per loro ciò che conta sono i risultati, e Betty è una delle venditrici migliori.»

La sua voce sembrò dura, invecchiata, come se si fosse distratta e non l’avesse controllata.

«Andrò a trovarla e passerò anche a casa tua. Chiamami per qualunque cosa.»

La ringraziai e, mentre riagganciavo, mi pentii di non essermi trattenuta. In fondo avevamo bisogno di consolazione, non di aiuto. Noi ce la stavamo cavando e mia madre non poteva fare altro che rassegnarsi a essere nelle mani dei medici.

Ana mantenne la promessa. Il giorno dopo, quando andai a trovare mia madre, mi disse che era stata lì. «Non so dove può aver lasciato il cane», aggiunse. «È una donna molto sola, non ti sembra che sia molto sola? Le ho detto di uscire a fumare perché l’ho vista molto nervosa. La mia situazione l’ha turbata.»

Da quando era in ospedale, la mamma non si arrabbiava come prima e provava compassione per gli altri. Era arrivata a un punto in cui il dolore di vedersi ammalata compensava quello che sentiva per la perdita della figlia. Fu allora che pensai che sarebbe stata una buona idea chiedere un consiglio ad Ana sull’opportunità di lasciar perdere o continuare a insistere con Laura, per avere una terza opinione oltre a quella di mio padre e del dottor Montalvo. Almeno lei sapeva che io lo sapevo e non avrei dovuto spiegarle tutto daccapo.

Sicuramente Ana era per mia madre un’amica migliore di quanto immaginassi: non solo le aveva fatto compagnia in ospedale, ma quando tornai a casa la sera, entrando in soggiorno, trovai il tavolo di mogano apparecchiato per due, con un piatto da portata con l’insalata e due hamburger. C’era anche una bottiglia di vino, che non era nostra. Dalla cucina venivano la voce di una donna e quella di un uomo. Di mio padre e di un’altra persona. Di mio padre e di Ana con la voce giovane, non quella di ferro ossidato con cui mi aveva parlato al telefono. Percorsi il corridoio ed entrai in cucina. Mio padre era seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo di quercia e Ana stava finendo di lavare i piatti. Non si era tolta il bracciale d’oro con i piccoli ciondoli portafortuna, dai quali gocciolava un po’ di schiuma, né gli anelli dal mignolo e dall’anulare, per cui tra le sue mani lo straccio non sembrava uno straccio.

«Vi ho preparato qualcosa per cena», disse quando mi vide. «Sicuramente la preoccupazione vi fa dimenticare di mangiare.»

Portava una gonna scamosciata color cammello che le arrivava al ginocchio e le aderiva al sedere e alle cosce come un guanto. Indossava anche una camicia azzurro chiaro annodata in vita. E il fatto che fosse scalza – doveva aver lasciato le scarpe all’ingresso – la avvolgeva in una sensazione di nudità totale. I capelli le erano cresciuti un po’ e le ricadevano sulla fronte e le orecchie; i fili argentati sotto le luci fluorescenti della cucina davano l’impressione di una retina di argento vero. Si era messa un rossetto scuro e opaco, quello che usavano le attrici di un tempo, quando il rosso scarlatto lucido non era stato ancora inventato. Veniva voglia di assomigliarle.

Le chiedemmo di fermarsi con noi, in fondo avrebbe dovuto cenare anche lei, ma declinò l’invito: aveva lasciato Gus incustodito e, soprattutto, si capiva che voleva lasciarci soli perché parlassimo delle nostre cose senza la sua intrusione. Dritta, senza neppure piegare un po’ la schiena, infilò i piedi nelle scarpe, prese la borsa e si sollevò la parte posteriore del colletto della camicia, il che la rendeva più alta, più slanciata, più elegante. Io e mio padre rimanemmo a guardarla mentre apriva la porta e se ne andava.

Ci sedemmo a cenare. Mio padre si era portato la birra dalla cucina e nessuno dei due fece neanche il gesto di aprire la bottiglia di vino di Ana. Lui guardò l’etichetta, strinse le labbra in segno di approvazione e la mise nella credenza.

«La apriremo quando Betty uscirà dall’ospedale.»

Poi commentammo che Ana era proprio una brava persona mentre masticavamo piano, senza voglia, anche se bisognava riconoscere che l’insalata era gustosa e l’hamburger tenero e saporito. Ana aveva portato un aceto speciale in una bottiglia molto carina, con un rametto di rosmarino dentro, e l’aveva lasciato in cucina, il che mi provocava una sensazione agrodolce.

Di solito andavo a trovare mia madre a mezzogiorno, quando i clienti stavano pranzando a casa o in ufficio, oppure di mattina presto per parlare con i medici. Passavo la giornata salendo e scendendo le scale della metropolitana e salendo e scendendo in ascensore. Mia madre mi disse che ero più magra e più bella. «Va tutto bene, mamma», le rispondevo. Perché dovevo dirle che andava tutto bene? Tutto andava come andava e basta. Mio padre le faceva visita quando finiva la sua giornata lavorativa, a volte alle otto, a volte alle nove. Pensavamo che così avrebbe avuto almeno due visite da aspettare. Adesso con Ana saremmo stati in tre. Ad Ana però non avevamo detto del nostro programma e, dopo due o tre giorni che ci preparava la cena, lei e mio padre si trovarono in ospedale nello stesso momento e poi tornarono a casa insieme con il taxi. Quando rincasai, mio padre stava prendendo un aperitivo in veranda mentre lei condiva l’insalata con l’aceto speciale e metteva nei piatti degli spaghetti che avevano un profumo meraviglioso, il profumo di qualcosa con cui mia madre non li aveva mai conditi, prendendoli con una pinza di design che non avevo mai visto nella nostra cucina.

«Arrivi in tempo», esclamò Ana. «Betty sta meglio, non ti pare?»

Non mi pareva. Stava come sempre, ma invece di parlare di mia madre le chiesi di Gus. Gus era l’unico essere vivente che potessimo collegare a lei. Non aveva figli, non aveva marito, qualche volta nominava un fratello che viveva all’estero, in Indonesia, credo che avesse detto così.

«Non posso portarlo in ospedale. Lo porterò a fare una passeggiata quando tornerò a casa.»

Non ci fu bisogno che la invitassi a rimanere: quel giorno era una cosa che si dava per scontata. Aveva portato un’altra bottiglia di vino, che aprì senza darci il tempo di dissuaderla. Io e mio padre ci guardammo rammaricati. Una cosa era che mio padre si aprisse due o tre lattine di birra e un’altra che pasteggiassimo con una bottiglia di vino pregiato mentre mia madre...

«Forza», ci esortò lei accorgendosi dei nostri sguardi e tenendo la bottiglia in bilico. «La pasta deve essere accompagnata da un po’ di vino, se la si mangia con l’acqua si forma una palla nello stomaco. Betty mi darebbe ragione.»

Iniziò a versarlo nei calici. Aveva preso quelli della credenza, quelli riservati alle grandi occasioni. Alzò il suo all’altezza degli occhi per osservare il colore del vino e lo assaggiò. Aspettò qualche secondo e fece un cenno di approvazione con la testa. «Famiglia, che beviamo acqua o vino, l’e­let­trocardiogramma di Betty non cambierà», disse.

Io non lo assaggiai e mio padre si bagnò le labbra per cortesia. Rimanemmo in silenzio. Ana si versò un altro bicchiere. Gli spaghetti erano così buoni che mentre li assaporavo mi sentii in colpa. Non avevamo neppure mai cenato in veranda dopo il ricovero di mia madre. E non ci era venuto in mente di cercare l’aria fresca, la luna, le stelle e l’odore di bagnato dei giardini del quartiere.

Io e mio padre insistemmo per sparecchiare mentre lei fumava una sigaretta appoggiata a una colonna della veranda.

Volevo che se ne andasse perché finisse la bella vita senza mia madre e, d’altra parte, desideravo che non abbandonasse me e mio padre con tutta la nostra solitudine.

Mentre papà metteva tutto in disordine in cucina e appoggiava i piatti nel lavandino, ne approfittai per appoggiarmi all’altra colonna. Chiesi una sigaretta ad Ana.

«Non sapevo che fumassi.»

«Solo qualche volta, quando sono nervosa.»

«Be’, è normale in queste circostanze. Ma stai attenta, è difficile smettere.»

«Sono nervosa perché voglio chiederti una cosa e devo farlo velocemente perché non voglio che mio padre mi senta.»

Guardammo tutte e due in direzione del corridoio.

«Conosci mia madre da prima che io nascessi e ho bisogno di sapere cosa pensi, ma cosa pensi veramente e una volta per tutte. Mia sorella è viva? È morta o no durante il parto?»

Si passò la mano con gli anelli tra i capelli. Erano capelli tagliati per passarci la mano, per essere scompigliati dal vento, per non doverli pettinare. Quando la ritirò, alcuni piccoli boccoli le caddero sulla fronte.

«Non torturarti. È morta. Lo so. Betty ha alimentato un’illusione del tutto infondata. Dimenticati di questa storia, adesso l’unica cosa che conta è che tua madre si rimetta.»

Mi mise sulla spalla la stessa mano che si era passata tra i capelli. La guardai. Aveva una pelle molto curata e gli anelli la illuminavano leggermente.

«Non perdere tempo. Non commettere lo stesso errore di Betty. La vita usa il bastone e la carota con tutti. Proprio con tutti.»

«L’altro giorno sono andata dal dottor Montalvo, lo psichiatra che l’ha avuta in cura, e mi ha detto la stessa cosa.»

Lo dissi pensosa, riflettendo su questa circostanza mentre parlavo. Lei si mise esattamente di fronte a me e mi sembrò molto alta e io più bassa di quello che credevo di essere. Mi sembrò distinta, senza problemi, indipendente, libera, ricca. Mi prese il mento con la punta delle dita perfette.

«Sei così giovane... Devi vivere la tua vita.»

«Hai ragione», disse mio padre facendoci sussultare entrambe. Era arrivato in veranda senza fare rumore, scalzo, come abitualmente stavamo tutti a casa d’estate. «Lei non deve farsi carico di questa situazione», aggiunse. Probabilmente aveva sentito solo l’ultima frase della conversazione. «Dovrebbe stare con le amiche, uscire con i ragazzi.»

Mi guardarono entrambi commiserandomi dal loro mondo di quarantenni. Quando Ana se ne andò, dissi a mio padre che non doveva preoccuparsi per me perché erano tutti ancora fuori città e non avevo nessuno con cui uscire.

Dopo gli esami di ammissione all’università a giugno, il fuggifuggi era stato rapido e generale e nessuno si sarebbe ricordato di tornare alla vita normale fino a ottobre.

Il mercoledì mia madre era sfiancata: non si parlava ancora di operazione e non voleva stare chiusa lì dentro. Allora, non so perché, le parlai del livido della Vampira e di tutte le supposizioni che avevo fatto, e questo la distolse dalle sue preoccupazioni e la fece stare un po’ meglio. Non aveva mai capito veramente la Vampira, e adesso si rendeva conto che l’unica cosa che quella donna desiderava era parlare. Parlare di infusi, di creme o di qualunque altra cosa, prima di tornare nelle stanze del piano di sopra. Povera donna. In quel momento c’era qualcuno che a me e a mia madre faceva più pena di noi, qualcuno capace di suscitare la nostra compassione quando tutto ci era ostile, e allora ringraziai con tutto il cuore la Vampira perché esisteva, perché era nella nostra vita e perché era così disgraziata.

Quella sera arrivai a casa alle otto. Mio padre aveva appena finito di farsi la doccia. Aveva tenuto compagnia a mia madre finché non le avevano portato il vassoio con la cena e non aveva iniziato a fare buio. A quel punto lei gli aveva detto di andare via perché dovevano riposare entrambi. Nessuno di noi due nominò Ana, non volevamo che diventasse indispensabile nella nostra vita, eppure di tanto in tanto lanciavamo un’occhiata all’ingresso come se dovesse varcare la soglia da un momento all’altro. Aspettammo a lungo prima di metterci a cenare. Perciò, quando suonò il telefono, ci precipitammo entrambi a rispondere, senza correre, ma a passo svelto. Io arrivai per prima, per fortuna, perché la telefonata era per me. Era Judit, la segretaria del dottor Montalvo. Dovette ripetermi il nome. Ci misi un po’ a collegare lo studio di calle General Díaz Porlier, a circa venti chilometri di distanza, con il nostro quartiere, e quella stupida di Judit con casa mia, di fronte alle mensole con tutta la collezione di classici. Dovevo riportare alla mente il pugno sulla scrivania del dottore mentre mio padre mi guardava dai vetri brillanti degli occhiali. Gli feci un segno con la mano che significava che non era Ana, né l’ospedale, né nessuno che dovesse interessargli. Andò in camera di Ángel. Da quando mio fratello era ad Alicante con i nonni, mio padre dormiva lì perché nel letto matrimoniale aveva gli incubi, non riusciva a sopportarne la vastità. Naturalmente non avevo intenzione di raccontare ad Ángel questo particolare perché gli sarebbe venuto in mente tutto quello che teneva nascosto in camera sua e lo avrebbe mortificato l’idea che papà potesse trovarlo, quando in realtà nostro padre era così frastornato che sarebbe stato in grado di vedere solo i poster delle moto.

Non riuscivo a immaginare cosa volesse dirmi il dottor Montalvo finché non mi ricordai dei soldi che ancora gli dovevo per il consulto e tutto quadrò. Aspettai qualche secondo che una Judit stranamente gentile, la quale non fece cenno al denaro, passasse la telefonata al dottore e che si sentisse la voce di quest’ultimo: separata dal corpo, risultava più maschile e profonda.

«Buonasera, Verónica. Scusa se ti chiamo così tardi, ma ho finito adesso con i pazienti.»

Gli risposi balbettando di non preoccuparsi. Ma non volevo neanche dargli corda più di tanto.

«Come sta Betty? Mi hai fatto preoccupare l’altro giorno.»

Lo ringraziai per l’interessamento e, molto lentamente, gli raccontai come andavano le cose.

«Magari conosco qualcuno del reparto di cardiologia di quell’ospedale e posso parlarci.»

Gli ero grata. Anche se il caso di mia madre sembrava abbastanza chiaro, poteva essere un bene che un altro medico si interessasse a lei.

«Volevo dirti anche che puoi venire da me quando vuoi, devi solo dirlo a Judit.»

Rimasi in silenzio.

«Non ti farei pagare per il consulto», aggiunse subito, «perché non sarebbe un consulto, ma una chiacchierata.»

Lo ringraziai di nuovo sinceramente e stavo per riagganciare quando la sua voce, un po’ più grave di prima, mi fece fermare.

«Un’altra cosa: non è una buona idea che ti lasci contagiare dall’ossessione di tua madre di trovare quella bambina. Non è un bene né per te né per lei. Ascoltami: lei finirebbe per notare qualcosa, ti potrebbe sfuggire un’osservazione. È molto sensibile a questa questione e potrebbe accorgersi che sai tutto. In quel caso si altererebbe e peggiorerebbe. Devi lasciare che si rimetta, cercare di tirarla su e, quando starà meglio, ne riparleremo. Per favore, non fare niente senza consultarmi prima.»

Gli dissi di non preoccuparsi, che avevo capito tutto perfettamente.

Quando riagganciai, vidi che mio padre aveva preparato delle uova all’occhio di bue. Nessuno dei due aveva pensato di comprare altro. In fondo confidavamo negli squisiti manicaretti di Ana. Lui diede per scontato che avessi appena finito di parlare con qualche cliente e mi disse che non aveva senso che lavorassi tanto, che non morivamo certo di fame.

Mangiammo le uova in veranda con quello che rimaneva del vino di due giorni prima. Sembrava che grazie ad Ana stessimo vincendo a poco a poco lo scrupolo di vivere. In cucina dovetti cercare un posto per l’aceto e per la sofisticata pinza per gli spaghetti, mentre mio padre si mise a leggere il giornale come non faceva da tempo. Lo preoccupava il debito pubblico. L’economia era un disastro. I politici pensavano solo ai loro interessi. Il mondo andava a rotoli.

«Non so quanto durerà questa situazione», disse piegando il quotidiano e lasciandolo cadere sul tavolo, con gli occhi pieni di lacrime.

Quella notte sognai la bambina della foto come mi era apparsa la prima volta. Aveva un caschetto liscio che arrivava alle orecchie. Girò il collo e sembrò che le si stesse per rompere. Assomigliava al piede di una lampada di alabastro che era in salotto vicino al telefono. Era molto magra e minuta. La osservai mentre prendeva un paio di pantaloni di cotone grigi dalla spalliera di una sedia e li indossava. Poi tirò fuori dal cassetto di un armadio a muro una maglietta con il volto di Madonna e se la infilò. Infine rimase a guardarmi con i suoi grandi occhi grigi e cercò di dirmi qualcosa che io non riuscii a capire. Mi fece una tale impressione che mi svegliai con il battito accelerato, come se avessi corso. Più che un sogno era stata una visione, e la mia mente doveva aver fatto un grande sforzo perché risultasse così verosimile. Il dottor Montalvo avrebbe detto che mia madre mi aveva trasmesso la sua ossessione e che quella bambina si era fissata nella mia immaginazione come se fosse reale.

Mi alzai per andare a bere e mio padre mi chiese se era tutto a posto. Non aveva ancora fatto giorno. Lo implorai di dormire perché, se non avessimo riposato, saremmo impazziti. Il dottore aveva ragione. Non dovevo cercare mia sorella viva perché la cosa più ragionevole era pensare che fosse morta durante il parto e che questo avesse causato un grave disturbo mentale a mia madre. Perciò, per il suo bene e per il mio, dovevo trovare le prove della sua morte. Non dovevo più portargliela viva, come un regalo del destino, ma piuttosto dovevo portarle le prove definitive della disgrazia. La prima cosa che avrei fatto il giorno dopo sarebbe stata cercare Ana, perché era l’unica persona a cui potevo raccontare alcune cose senza che sembrasse che fossimo tutti impazziti.

Mi misi all’opera per cercare Ana. Dovevo parlarle della telefonata del dottor Montalvo e sapere che opinione aveva di lui, se pensava che avesse affrontato bene il problema di mia madre, anche se forse volevo solo che non uscisse dalla nostra vita una delle poche persone che conosceva bene la mamma. Non sapevo dove viveva e pensavo che Betty non fosse mai stata a casa sua. Se ci fosse stata, una volta o l’altra avrebbe fatto un commento sull’arredamento e avrebbe detto se era grande o piccola, se era in una bella zona. Sicuramente doveva essere piena di particolari come la pinza per gli spaghetti che ci aveva portato, e mia madre li avrebbe notati, ne avrebbe parlato. E invece niente. Non sapevamo molto di lei. Si materializzava nella nostra vita e noi mai nella sua, come se, quando non la vedevamo, Ana e il suo mondo smettessero di esistere. Presi l’agenda per cercare il suo numero e comparvero di nuovo i cerchi rossi, come quello che circondava il nome di Greta Valero, la cliente a cui non dovevo avvicinarmi. Accanto ad altri nomi c’erano un quadrato, una freccia o un punto, segni che significavano ordine consegnato, ordine pendente, non interessa, pagato, non pagato. In altri casi, però, il senso era indecifrabile.

Accanto al numero di telefono di Ana non c’era nessun segno. Chiamai e rispose una voce femminile giovane, che sembrava essere quella di una cameriera; e poi venne all’apparecchio lei, con la voce di ferro ossidato della volta prima, come se al telefono fosse una conduttura per metà sommersa in un pantano. Le chiesi se era tutto a posto perché erano un po’ di giorni che non veniva da noi. Rispose che aveva dovuto lavorare ed era stata fuori. Mi chiese della mamma. «Tutto come al solito», le risposi. Nel pomeriggio sarebbe andata a trovarla e poi sarebbe venuta a casa nostra. Le dissi di chiedere le chiavi al vicino se al suo arrivo non avesse trovato né me né mio padre, e subito dopo mi pentii, perché non sapevo se a mia madre avrebbe fatto piacere che Ana stesse da sola in casa nostra. Avrei fatto in modo che non lo scoprisse.