36.
LAURA NELLA STANZA AZZURRA
Quando iniziai a stare male, Lilí e la mamma pensarono che la cosa migliore fosse farmi spostare nella stanza azzurra, in fondo al corridoio. Lì sarei stata più tranquilla, non avrei sentito la sedia a rotelle, né l’aspirapolvere o i rumori della cucina. Avrebbero avvertito la signora delle pulizie che non doveva entrarci. Mia nonna mi disse che stavo vivendo un periodo molto strano, che mi preoccupavo troppo per la storia di mio padre e che quella preoccupazione poteva diventare cronica. A me sembrava molto normale e naturale che provassi la curiosità di sapere chi era mio padre, ma era anche vero che non si trattava solo di quello: pesava pure tutto ciò che mi raccontava Verónica sulla mia vera famiglia. I dubbi non mi lasciavano vivere, dovevo sapere la verità e a volte avevo pensato di prendere il toro per le corna e chiederlo direttamente a Lilí e alla mamma, ma non volevo neppure mortificarle. Se avessero saputo che sospettavo una cosa del genere, niente sarebbe stato più come prima e non sarei mai riuscita a recuperare il loro affetto. Mi avrebbero chiesto cosa mi avevano fatto perché credessi a una sconosciuta piuttosto che a loro che mi avevano cresciuto, avevano tenuto i pericoli lontani da me e mi avevano curato quando stavo male. Loro non potevano immaginare il carico emotivo che stavo sopportando amandole come le avevo sempre amate e, allo stesso tempo, vedendole come delle perfette sconosciute.
Era la stanza degli ospiti, quella che Lilí usava d’estate per fare il suo riposino pomeridiano perché era la più fresca della casa. Era tinteggiata di blu fiordaliso e le tende erano bianche, perciò quando il vento le gonfiava sembravano nuvole nel cielo. Era molto carina e decisero di spostare lì la mia scrivania, i vestiti, le poltrone imbottite di velluto rosa e i libri. Dovevo seguire la cura prescritta dal dottor Montalvo per riprendermi. Per colpa del lavoro al negozio, delle lezioni al conservatorio e delle preoccupazioni avevo i nervi a pezzi. Lilí mi disse che facevo cose strane, come portare in borsa fotografie staccate dall’album. Perché volevo quelle foto? Se erano nell’album era perché potessimo guardarle tutte le volte che volevamo, per evitare che si perdessero. E doveva avere ragione perché ogni giorno ero più intontita, più debole. Non volevo dare la colpa a nessuno, ma Verónica e le sue congetture mi avevano devastato i nervi.