29

 

L'aereo atterrò al Portland International come ogni altro Boeing, ma si fermò un po' prima del terminal e attese in un'area di stazionamento isolata. Un pick-up con una scala fissata al pianale si avvicinò lentamente al velivolo, seguito da un minivan. Entrambi i veicoli recavano i colori della Boeing ed erano lucidi e puliti. L'equipaggio rimase a bordo ad analizzare i dati del computer, mentre il furgoncino portò Reacher e la Harper agli arrivi, al posteggio dei taxi. In prima fila c'era una Caprice malridotta, con una striscia a scacchi sul fianco. Il tassista non era del luogo, perciò dovette utilizzare la cartina per trovare la strada che si dirigeva a est, verso il minuscolo villaggio sulle pendici di Mount Hood.

Era tornata da cinque minuti quando suonò il campanello. Era di nuovo il poliziotto. Rita uscì dalla cucina e percorse il corridoio fino alla porta.

Tolse il chiavistello e aprì l'uscio. L'uomo stava in piedi sulla veranda, in silenzio, sperando che lei intuisse la sua richiesta, un'espressione afflitta in volto.

«Salve», esclamò lei. Poi si limitò a guardarlo. Non sorrise né fece altro.

«Salve», rispose il poliziotto.

La donna rimase in attesa. Voleva che glielo chiedesse, in ogni caso.

Non c'era nulla di cui imbarazzarsi.

«Indovini», mormorò lui.

«Che cosa?»

«Posso usare il bagno?» L'aria fredda s'insinuava tra le gambe della Scimeca. La sentiva attraverso i jeans.

«Naturalmente», rispose.

Chiuse la porta dietro di lui per non far entrare il freddo e attese lì, mentre l'uomo scompariva per riapparire poco dopo.

«Confortevole e caldo qui dentro», commentò l'agente.

Rita annuì, sebbene non fosse proprio vero. Teneva la casa più fredda possibile, affinché il legno del pianoforte non si seccasse e lo strumento mantenesse il tono.

«Fuori in auto fa un freddo...» continuò l'uomo.

Lei annuì ancora. «Accenda il motore», gli suggerì. «Faccia funzionare il riscaldamento.» Il poliziotto scosse il capo. «Non è permesso. Non posso far girare il motore a vuoto. Per via dell'inquinamento.»

«Allora si prenda una pausa», propose. «Si faccia un giro, si riscaldi. Io starò benissimo.» Chiaramente non era quello l'invito che il poliziotto si aspettava, ma ci rifletté. Poi scosse nuovamente la testa.

«Mi ritirerebbero il distintivo. Devo restare qui», stabilì.

La donna non aprì bocca.

«Mi spiace di averla disturbata per quel prete», mormorò lui, sottolineando il fatto d'essere intervenuto e di averlo liquidato.

Rita assentì. «Le porterò un po' di caffè caldo. Tra cinque minuti, va bene?» L'agente sembrò soddisfatto e sorrise timidamente. «Poi avrò bisogno ancora del bagno», le fece notare. «Sa, arriva subito a destinazione.»

«Quando vuole», disse la donna.

Poi chiuse la porta, tornò in cucina, accese la macchina del caffè e attese sullo sgabello accanto alle borse della spesa, finché non fu pronto. Prese la tazza più grande che aveva e la riempì, aggiungendovi la panna dal frigorifero e lo zucchero dalla credenza. Quel poliziotto aveva l'aria di amare le cose cremose e dolci, era giovane e anche un po' in carne. Uscì di casa con la tazza e percorse il viottolo. Il fumo si sollevò dal caffè bollente e rimase sospeso in una sottile linea orizzontale per tutta la lunghezza del tragitto.

Rita picchiettò sul finestrino e lui si voltò, le sorrise e abbassò il vetro.

Prese la tazza, maldestramente, con due mani.

«Grazie», mormorò.

Se la portò alle labbra con un gesto di ulteriore gentilezza e la donna si allontanò in direzione della porta. La chiuse dietro di sé, agganciò il chiavistello, si voltò e trovò il visitatore che l'aspettava tranquillamente in cima alle scale del garage.

«Ciao, Rita», esclamò questi.

«Ciao», disse lei.

Il taxi si diresse a sud sulla 205 e trovò lo svincolo a sinistra che portava sulla 26, in direzione est. L'uomo guidava come se la corsa successiva dovesse portarlo dal demolitore. I colori della carrozzeria interna erano differenti da quelli esterni. Probabilmente il taxi aveva già lavorato per tre anni a New York, e forse per altri tre nei sobborghi di Chicago. Ma camminava abbastanza bene, e il tassametro era molto più lento di quanto non lo sarebbe stato a New York o a Chicago. Il che era rilevante, perché Reacher si era appena reso conto di avere pochi soldi in tasca.

«Perché sarebbe importante dimostrare la propria mobilità?» chiese la Harper.

«Questa è una delle grosse bugie», rispose Jack. «L'abbiamo bevuta, tutta d'un fiato.»

La Scimeca era tranquilla, in piedi dietro la porta. Il visitatore la scrutò dall'altra estremità del corridoio, lo sguardo indagatore.

«Hai comprato la vernice?» La donna annuì. «Sì, l'ho fatto», rispose.

«Allora, sei pronta?»

«Non ne sono sicura.» Il visitatore si limitò a fissarla un attimo più a lungo, calmo, lo sguardo fermo.

«Ora sei pronta?»

«Non lo so», mormorò Rita.

Il visitatore sorrise. «Io credo di sì. Davvero. Tu cosa ne dici? Sei pronta?» Lei annuì, lentamente. «Sì, sono pronta.»

«Ti sei scusata con il poliziotto?» La donna annuì di nuovo. «Sì, gli ho detto che mi dispiaceva.»

«Bisogna lasciarlo entrare, giusto?»

«Gliel'ho detto, ogni volta che vuole.»

«Deve trovarti. Dev'essere lui a farlo. Così voglio che accada.»

«Va bene», disse la Scimeca.

Il visitatore rimase in silenzio per un lungo istante, in piedi, lo sguardo attento. La donna attese, impacciata.

«Sì, dev'essere lui a trovarmi», mormorò Rita. «Se è ciò che vuoi.»

«Ti sei comportata bene con quel prete», continuò il visitatore.

«Voleva aiutarmi.»

«Nessuno può aiutarti.»

«Immagino di no», assentì Rita.

«Andiamo in cucina», la invitò il visitatore.

La Scimeca si staccò dalla porta, oltrepassò l'ospite nello stretto corridoio e fece strada fino alla cucina.

«La vernice è qui», spiegò. «La più simile che avevano.» Il visitatore annuì. «Bene. Bel lavoro.» Rita arrossì di piacere e la pelle bianca del suo volto si tinse di rosa.

«Ora devi concentrarti», le raccomandò il visitatore. «Perché ti darò molte informazioni.»

«Su che cosa?»

«Su ciò che voglio che tu faccia.» La Scimeca annuì. «D'accordo», mormorò.

«Per prima cosa, devi sorridere», continuò il visitatore. «È molto importante. Per me significa molto.»

«Va bene», acconsentì la donna.

«Allora, puoi farlo per me?»

«Non lo so.»

«Provaci, d'accordo?»

«Non sorrido più da molto tempo.» Il visitatore annuì, comprensivo. «Lo so, ma ora provaci, va bene?» La Scimeca abbassò il capo, si concentrò e rialzò la testa con un sorriso timido, appena accennato. Una nuova angolazione delle labbra, quasi impercettibile, ma pur sempre qualcosa. Cercò disperatamente di mantenere quell'espressione.

«Così va meglio», affermò il visitatore. «Ora, ricorda, ti voglio sorridente per tutto il tempo.»

«Va bene.»

«Dobbiamo essere allegri nel nostro lavoro, giusto?»

«Giusto.»

«Abbiamo bisogno di qualcosa per aprire la latta.»

«Gli attrezzi sono da basso», ribatté Rita.

«Ce l'hai un cacciavite?»

«Certo», rispose la donna. «Ne ho otto o nove.»

«Vai a prendermi quello grande, vuoi?»

«Certamente.»

«E non dimenticare il sorriso!»

«Scusa.»

La tazza era troppo grossa per il porta-bicchieri della Crown Vic e, dal momento che non poteva appoggiarla tra un sorso e l'altro, l'agente finì subito tutto il caffè. Era sempre la stessa storia; se a una festa si ritrovava in piedi con una bottiglia in mano, la beveva molto più rapidamente che non se fosse stato seduto al bar, dove avrebbe potuto appoggiarla al bancone di tanto in tanto. Come con la sigaretta: se aveva un posacenere su cui appoggiarla, gli durava molto più a lungo che non quando era costretto a tenerla in mano, nel qual caso la terminava in un minuto e mezzo.

Rimase seduto con la tazza vuota appoggiata alla gamba e rifletté sull'opportunità di riportargliela. Ecco la sua tazza. Grazie mille, avrebbe potuto dire. Questo gli avrebbe dato un'altra opportunità di sottolineare quanto freddo facesse là fuori; forse sarebbe riuscito a convincerla a mettere una sedia in corridoio e lui avrebbe potuto terminare il suo turno all'interno. Nessuno si sarebbe lamentato, perché in quel modo lei sarebbe stata ancora più protetta.

Ma l'idea di suonare nuovamente il campanello lo rendeva nervoso. La Scimeca aveva senz'ombra di dubbio un carattere irascibile. Chi poteva sapere come avrebbe reagito a dispetto della cortesia di riportarle la tazza?

Sebbene avesse liquidato il cappellano? Fece ballonzolare la tazza su e giù col ginocchio e cercò di stabilire se il freddo che sentiva fosse superiore al timore che lei s'offendesse.

Il taxi continuò la sua corsa, attraverso Gresham, Kelso e Sandy. La 26 si trasformò nella Mount Hood Highway e iniziò a salire. La vecchia V-8 accelerò e rombò su per il pendio.

«Che bugia?» chiese la Harper.

«La chiave è nel rapporto di Poulton da Spokane.»

«Ne sei certo?» Jack annuì. «Grossa ed evidente. Ma mi ci è voluto un po' per scoprirla.»

«Quella cosa dell'UPS? Ne abbiamo già discusso.» Reacher scosse il capo. «No, prima di quello. La Hertz. L'auto a noleggio.»

La Scimeca risalì le scale della cantina con un cacciavite in mano. Era uno dei più grandi che aveva, lungo una ventina di centimetri, con una lama sufficientemente sottile da poter essere infilata tra la latta e il coperchio, ma abbastanza larga da fungere da leva.

«Credo sia il migliore», affermò. «Mi sembra adatto allo scopo.» Il visitatore lo osservò a distanza. «Sono certo che andrà bene. A patto che sia agevole per te. Sarai tu a usarlo, non io.» La donna annuì. «Credo sia adatto», ribadì.

«Dov'è il bagno?»

«Di sopra.»

«Vuoi mostrarmelo?»

«Certo.»

«Prendi la vernice», la esortò l'ospite. «E il cacciavite.» Rita tornò in cucina e sollevò la latta. «Abbiamo bisogno anche della bacchetta per mescolare?» gridò.

Il visitatore esitò. Una nuova procedura necessita di una nuova tecnica.

«Sì, prendi anche quella.» La bacchetta era lunga circa trenta centimetri e la donna l'afferrò con la sinistra, insieme col cacciavite, mentre teneva il manico della latta con la destra.

«Da questa parte», mormorò.

La Scimeca uscì dalla cucina e si avviò su per le scale; attraversò il corridoio del piano di sopra, la stanza da letto ed entrò in bagno, seguita dall'ospite.

«Eccoci.» Il visitatore osservò il locale, sentendosi un po' come un esperto di bagni. Quello era il quinto, dopotutto. Era di media qualità, un po' all'antica, ma consono all'età della casa. Eventuali finiture in marmo decorato avrebbero fatto a pugni con tutto il resto.

«Appoggia tutto sul pavimento, d'accordo?» le disse.

Rita si chinò e appoggiò la latta di metallo, che al contatto con la piastrella emise un rumore sordo e vagamente liquido. Poi abbassò il manico metallico e posò il cacciavite e la bacchetta sul coperchio. Da una tasca del cappotto il visitatore estrasse un sacco nero di plastica per rifiuti, ben ripiegato. Lo agitò e lo tenne aperto.

«Metti qui dentro i tuoi vestiti.»

Il poliziotto uscì dall'auto con la tazza in mano. Aggirò il veicolo e percorse il viottolo sinuoso. Salì gli scalini della veranda e passò la tazza nell'altra mano, pronto a suonare il campanello. D'un tratto si fermò. All'interno non si udivano rumori; il pianoforte era muto. Un bene o un male?

Quella donna sembrava un po' ossessionata, sempre a suonare e risuonare lo stesso pezzo; probabilmente non le piaceva essere interrotta nel bel mezzo dell'esecuzione. Ma il fatto che non stesse suonando poteva significare che stava facendo qualcos'altro d'importante. Forse un sonnellino. Il tizio del Bureau diceva che si svegliava alle sei; probabilmente di pomeriggio faceva una siesta. O forse stava leggendo. Qualsiasi cosa stesse facendo, non era certo seduta a sperare che lui suonasse alla porta; fino ad allora non si era dimostrata particolarmente entusiasta della cosa.

L'uomo rimase immobile, indeciso, la mano sospesa a trenta centimetri dal campanello. Poi lasciò cadere il braccio lungo il fianco, si voltò, ridiscese gli scalini e ripercorse il viottolo fino alla strada. Fece il giro dell'auto, salì, si chinò e sistemò la tazza nello spazio per i piedi del passeggero.

La Scimeca sembrava confusa. «Quali vestiti?» chiese.

«I vestiti che hai addosso», rispose il visitatore.

Rita annuì, vagamente. «Va bene», acconsentì.

«Non mi piace quel sorriso, Rita», esclamò il visitatore. «Sta svanendo.»

«Scusa.»

«Guardati allo specchio, e dimmi se vedi una faccia felice.» La donna si voltò verso lo specchio. Si fissò per un istante e iniziò a lavorare sui muscoli del volto, uno per volta. Il visitatore guardava la sua immagine riflessa.

«Fai un sorriso ampio. Molto allegro, d'accordo?» La Scimeca si voltò. «Com'è?» chiese, sorridendo al massimo dello sforzo.

«Va molto bene», si compiacque il visitatore. «Vuoi farmi felice, vero?»

«Sì.»

«Allora metti i vestiti nel sacco.» La donna si tolse il maglione. Era di lana pesante e aveva il collo stretto.

Afferrò i bordi inferiori e se lo sfilò dalla testa; lo scrollò per raddrizzarlo, si chinò e lo gettò nel sacco. Sotto il maglione indossava una camicia di flanella, leggera e ormai sformata a causa dei numerosi lavaggi; se la sbottonò e sfilò i lembi dai jeans. La agitò e la mise nel sacco nero.

«Ora ho freddo», mormorò.

Si sbottonò i jeans, abbassò la cerniera e se li calò alle caviglie. Si tolse le scarpe e si sfilò i jeans. Vi avvolse le scarpe e ripose il tutto nel sacco.

Si sfilò le calze, le stese e le gettò dentro, una per volta.

«Sbrigati, Rita», le ordinò il visitatore.

La Scimeca annuì, si portò le braccia dietro la schiena e si sganciò il reggiseno; se lo tolse e lo lasciò cadere nel sacco. Si levò anche le mutande, le appallottolò e fece far loro la stessa fine degli altri vestiti. L'ospite chiuse il sacco e lo lasciò cadere sul pavimento. Rita rimase in piedi in attesa, completamente nuda.

«Apri l'acqua della vasca», la esortò il visitatore. «Visto che hai freddo, apri l'acqua calda.» La donna si chinò e mise il tappo nel buco dello scarico. Era un semplice pezzo di gomma, appeso a una catenella. Poi aprì i rubinetti, tre quarti di acqua calda e un quarto di acqua fredda.

«Apri la vernice», le ordinò il visitatore.

La Scimeca si accosciò e afferrò il cacciavite. Infilò la punta nella scanalatura e fece leva in varie parti del coperchio, finché questo non si aprì.

«Fa' attenzione. Non voglio sporcare in giro.» Rita appoggiò delicatamente il coperchio sul pavimento. Poi sollevò lo sguardo, in attesa.

«Versa la vernice nella vasca.» La donna sollevò la latta con entrambe le mani; era larga e difficile da afferrare. La tenne stretta fra i palmi e la portò alla vasca; la inclinò e la vernice cominciò a colare. Era densa e odorava di ammoniaca. Scorreva lentamente oltre il bordo della latta e si riversava nell'acqua; il turbinio creato dal getto del rubinetto la inglobò, e la vernice prese a vorticare e ad affondare come un peso. L'acqua cominciò a dissolvere i bordi del vortice e un vago colore verde si diffuse a poco a poco nella vasca, come una nube. Rita tenne il contenitore capovolto sinché il flusso di vernice non diminuì e infine cessò del tutto.

«Piano. Ora appoggia a terra la latta. Senza sporcare», si raccomandò il visitatore.

La Scimeca raddrizzò il contenitore e si acquattò nuovamente per riporlo con attenzione accanto al coperchio. La latta emise un rumore vuoto e cupo, lievemente attenuato dal residuo di vernice che ricopriva ancora il metallo.

«Ora prendi la bacchetta e mescola bene.» Rita afferrò la stecca e s'inginocchiò al bordo della vasca. Affondò la bacchetta nella densa massa creatasi sul fondo e iniziò a mescolare.

«Si mescola bene», considerò.

Il visitatore annuì. «Per questo hai comprato il lattice.» Il colore cambiava a mano a mano che la vernice si miscelava. Da verde oliva scuro divenne del colore dell'erba di un bosco umido. Si diluì bene e assunse una consistenza lattea. Il visitatore osservò con attenzione. Andava più che bene. Non era tanto d'effetto quanto quella vera ma, date le circostanze, era meglio che niente.

«Bene, può andare. Metti la bacchetta nella latta. Fa' attenzione a non sporcare.» La Scimeca estrasse il bastoncino dall'acqua verde e lo scosse con cautela. Si voltò e lo infilò in verticale nel recipiente vuoto.

«E il cacciavite.» La donna lo prese e l'appoggiò accanto alla bacchetta.

«Rimetti il coperchio.» Rita lo afferrò per il bordo e l'appoggiò sopra la latta, lievemente storto, perché la bacchetta era troppo alta per consentire al coperchio di chiudersi completamente.

«Ora puoi chiudere l'acqua.» Lei si voltò e chiuse i rubinetti. L'acqua era a quindici centimetri dal bordo.

«Dove avevi messo lo scatolone?»

«In cantina. Ma l'hanno portato via.» Il visitatore annuì. «Lo so. Ma ti ricordi esattamente dov'era?»

«È rimasto per molto tempo in quel punto», rispose la Scimeca.

«Voglio che tu porti la latta da basso. Nel punto esatto in cui c'era lo scatolone», ordinò il visitatore. «Pensi di esserne capace?» Rita assentì. «Sì, posso farlo.» Sollevò il manico di metallo e lo fece passare sopra il coperchio instabile. Portò la latta davanti a sé, una mano sul manico, l'altra premuta sul coperchio. Scese le scale, attraversò il corridoio, raggiunse il garage e il seminterrato. Rimase per un attimo con i piedi sul cemento freddo, cercando d'individuare il punto esatto. Poi fece un passo a destra e appoggiò il contenitore sul pavimento, al centro dello spazio precedentemente occupato dallo scatolone.

Il taxi si stava arrampicando su una lunga strada in salita, oltre un centro commerciale, dove si vedevano un supermercato fiancheggiato da file di negozi e un parcheggio semivuoto.

«Perché siamo qui?» gli chiese la Harper.

«Perché la Scimeca è la prossima», rispose Reacher.

Il taxi continuò la sua corsa faticosa.

Lisa scosse il capo. «Dimmi chi è.»

«Pensa al come», ribatté Jack. «Questa è la prova definitiva.»

La Scimeca spostò il contenitore vuoto qualche centimetro più a destra.

Controllò attentamente, annuì, si voltò e corse su per le scale. Sentiva che doveva sbrigarsi.

«Sei senza fiato?» le chiese il visitatore.

Rita deglutì e annuì. «Ho corso. Per tutte le scale.»

«D'accordo, riprenditi un attimo.» La Scimeca respirò profondamente e si scostò i capelli dal volto. «Sto bene», esclamò.

«Ora devi entrare nella vasca.» La donna sorrise. «Diventerò tutta verde», commentò.

«Sì. Diventerai tutta verde», confermò l'ospite.

La Scimeca si portò accanto al bordo della vasca e sollevò un piede. Inclinò la punta e immerse il piede nell'acqua.

«È calda», constatò.

Il visitatore annuì. «Bene.» Rita spostò il peso sul piede in acqua e immerse anche l'altro. Rimase in piedi, l'acqua ai polpacci.

«Ora siediti. Lentamente.» La donna appoggiò le mani al bordo e si abbassò.

«Stendi le gambe.» La Scimeca allungò le gambe e le ginocchia scomparvero sotto la superficie verde.

«Le braccia dentro.» Staccò le mani dal bordo e immerse le mani accanto alle cosce.

«Bene», approvò il visitatore. «Ora scivola in giù, lentamente e con cautela.» Rita si spinse in avanti e le ginocchia si sollevarono. Erano macchiate di verde scuro e verde più chiaro, là dove i rivoli di vernice le gocciolavano giù dalla pelle. Appoggiò la schiena e sentì il calore risalirle il corpo e avvolgerle le spalle.

«La testa indietro.» La Scimeca inclinò la testa e guardò il soffitto. Sentì i capelli galleggiare.

«Hai mai mangiato le ostriche?» le domandò il visitatore.

Lei annuì e, muovendo la testa, sentì i capelli vorticare nell'acqua. «Una volta o due», rispose.

«Ti ricordi la sensazione che hai provato? Le tieni in bocca e improvvisamente le ingoi intere. Le deglutisci semplicemente.» Rita annuì ancora. «Mi piacciono», aggiunse.

«Fa' finta che la tua lingua sia un'ostrica», esclamò l'ospite.

Lei voltò lo sguardo, perplessa. «Non capisco.»

«Voglio che ingoi la lingua. Voglio che la deglutisci improvvisamente, come fosse un'ostrica.»

«Non sono certa d'esserne capace.»

«Puoi provare?»

«Certo che posso.»

«Bene, ora, deglutisci.» La donna si concentrò e fece un tentativo. Deglutì forte, ma non accadde nulla; si udì solo un rumore in gola.

«Non funziona», mormorò.

«Aiutati con le dita», le suggerì l'ospite. «Le altre hanno fatto così.»

«Con le dita?» Il visitatore annuì. «Spingila indietro col dito. Con le altre ha funzionato.»

«Va bene.» La Scimeca sollevò una mano: la vernice le colò lungo il braccio, lasciando grumi per via della mescolatura imperfetta.

«Con quale dito?» chiese.

«Prova con il medio», le suggerì il visitatore. «È quello più lungo.» Rita estese il medio e piegò le altre dita, poi aprì la bocca.

«Mettilo proprio sotto la lingua», continuò l'ospite. «E spingi forte all'indietro.» Lei spalancò la bocca e spinse con forza.

«Ora deglutisci.» Rita fece come le era stato detto e sgranò gli occhi in preda al panico.