24

 

Lasciarono le birre intatte sul banco e tornarono al parcheggio. Aprirono la Nissan e scivolarono sui sedili.

«Un paio di mesi non corrisponde», commentò Lisa. «Lo toglie di scena.»

«Non ha mai fatto parte della scena», replicò Jack. «Ma scambieremo ugualmente due chiacchiere.»

«Come? È in mano all'esercito, da qualche parte.» Lui la guardò. «Harper, sono stato nella polizia militare per tredici anni.

Se non riesco a trovarlo io, chi ci riesce?»

«Potrebbe essere dovunque.»

«No. Se questa topaia è il suo bar, significa che era assegnato a qualche base nei paraggi. Un tipo come quello sarà finito in un ufficio regionale della polizia militare. Un paio di mesi di tempo, non è ancora finito davanti alla corte marziale, perciò sarà nella struttura detentiva di un quartier generale della polizia militare, che per questa regione è Fort Armstrong, vicino Trenton, a meno di due ore da qui.»

«Ne è certo?» Lui alzò le spalle. «A meno che le cose non siano cambiate radicalmente in tre anni.»

«C'è modo di verificare?»

«Non serve.»

«Non possiamo perder tempo», disse Lisa.

Jack non ribatté, lei sorrise e aprì la borsa, estraendone un cellulare grande come un pacchetto di sigarette.

«Usi il mio portatile», suggerì.

Tutti usano i portatili. Sempre, continuamente. È un fenomeno dell'era moderna. Tutti parlano, parlano, parlano, in continuazione, i telefonini premuti sul volto. Da dove provengono tutte quelle conversazioni? Che cos'è accaduto a tutte le conversazioni prima che inventassero i cellulari?

Erano tutte represse? Ulcere roventi nei visceri della gente? O si sono sviluppate spontaneamente perché la tecnologia le ha rese possibili?

È un argomento che t'interessa. Gli istinti umani. Immagini che una piccola percentuale di telefonate rappresenti un utile scambio d'informazioni, ma la maggior parte rientra in due categorie: il divertimento, il puro piacere di fare qualcosa solo perché puoi, o le stronzate che accrescono il tuo ego, che ti fanno sentire importante. E, in base alla tua osservazione, le dinamiche seguono perlopiù la divisione tra i sessi. Non è un'opinione che ti azzarderesti a sostenere in pubblico, ma privatamente hai la certezza che le donne parlino perché si divertono, gli uomini per darsi importanza. Ciao, tesoro, sono appena sceso dall'aereo, dicono. E allora? A chi diavolo importa?

Ma hai la certezza che l'uso dei cellulari da parte maschile è più strettamente collegato con l'ego, perciò è per forza un legame più forte, e rappresenta un bisogno più forte. Quindi, se rubi un cellulare a un uomo, lo scoprirà prima e reagirà con maggiore irruenza. Questo è quello che pensi. Perciò te ne resti lì a sedere nella zona ristorante dell' aeroporto e osservi le donne.

L'altro grande vantaggio delle donne è che hanno tasche più piccole, o non ne hanno affatto. Di conseguenza, portano la borsetta in cui mettono tutto: portafogli, chiavi, cosmetici. E il cellulare. Lo estraggono per usarlo, magari lo posano sul tavolo per un istante, poi lo rimettono nella borsetta. Se si alzano per prendersi una seconda tazza di caffè, ovviamente portano la borsetta con sé. Ma alcune hanno anche altre borse: borse per computer, con ogni sorta di scomparti per dischetti, cd-rom e cavi. Alcune hanno persino una tasca esterna per il cellulare, un piccolo rettangolo esterno di pelle, grande quanto i portasigarette che si usavano quando si fumava. Queste borse, non le portano sempre con sé. Se vanno solo fino al banco delle bevande, le lasciano spesso al tavolo, in parte per tenerlo occupato, in parte perché chi può tenere borsetta, computer e una tazza di caffè caldo in mano?

Ma escludi le donne con i porta-computer. Perché quei costosi articoli di pelle implicano uno scopo serio. Le loro proprietarie rientrano probabilmente a casa di lì a un'ora e vogliono controllare l'e-mail o finire un grafico a torta. Perciò aprono il porta-computer e scoprono che il cellulare è sparito. Denuncia alla polizia, conto bloccato, chiamate rintracciate, il tutto in un'ora. Non va bene.

Pertanto le donne che osservi non viaggiano per affari. Sono quelle con gli zainetti di nylon, che portano come bagaglio a mano. E, in particolare, osservi quelle in partenza, non quelle appena arrivate. Panno ancora un paio di telefonate dall'aeroporto, poi infilano il telefono nello zaino e se lo scordano, perché escono dall'area di copertura locale e non vogliono pagare i servizi di roaming. Porse vanno in vacanza all'estero, nel qual caso il cellulare risulta loro inutile come le chiavi di casa. È qualcosa che devono portare con sé, ma non qualcosa cui pensare.

Il bersaglio specifico che stai osservando con attenzione è una donna di ventitré, ventiquattro anni, a una trentina di metri di distanza. Porta abiti comodi come se dovesse affrontare un lungo viaggio, è appoggiata allo schienale della sedia con la testa inclinata a sinistra e il cellulare infilato tra l'orecchio e la spalla. Sorride con espressione vaga mentre parla, e giocherella con le unghie. Se le tormenta, poi mette le mani sotto la luce per osservarle. Una chiacchierata oziosa, senza importanza, con un'amica. Non c'è partecipazione sul suo volto. Parla solo perché ama parlare.

Il bagaglio a mano è sul pavimento accanto ai suoi piedi. Uno zainetto firmato, tutto pieno di anellini, ganci e zip. È chiaramente tanto complicato da chiudere che lo lascia ben aperto. Prende la tazza del caffè e la posa di nuovo. È vuota. Parla, controlla l'orologio, allunga il collo verso il banco delle bevande. Termina la chiamata, chiude il telefono e lo lascia cadere nello zainetto. Prende un portafogli della stessa marca, si alza e corre a prendersi un altro caffè.

Tu scatti subito in piedi, le chiavi dell'auto in mano. Ti affretti nel locale. Tre metri, sei, nove. Fai ondeggiare le chiavi, assumi un'aria affaccendata. Lei è in fila, è quasi arrivato il suo turno. Getti le chiavi, e queste scivolano sulle piastrelle. Ti chini per raccoglierle, e la tua mano sfiora lo zaino. Poi ti rialzi con le chiavi, e il cellulare, in mano. Continui a camminare. Infili le chiavi in tasca, mentre il telefono resta nella tua mano: non c'è niente di più comune di una persona che cammina nel ristorante di un aeroporto con un cellulare in mano.

Cammini a passo normale, ti fermi e ti appoggi a una colonna. Apri il telefono e lo porti al viso, fingendo di fare una chiamata. Adesso sei invisibile, una persona appoggiata a una colonna che sta facendo una chiamata. Ce ne sono a decine nel raggio di pochi metri. Ti guardi alle spalle.

Lei è tornata al tavolo e sta bevendo il caffè. Attendi, senza sussurrare nulla nel telefono. Lei beve. Tre minuti, quattro, cinque. Premi dei tasti a caso e riprendi a parlare. Una nuova telefonata. Hai i tuoi affari. Sei come tutti gli altri. Lei si alza e tira le corde dello zainetto per chiuderlo. Lo raccoglie prendendolo con esse, e lo fa rimbalzare, perché si chiuda bene da solo. Poi ne ferma i ganci, se lo getta in spalla e prende il portafogli.

Lo apre per controllare se il biglietto è a portata di mano, poi lo richiude.

Si guarda attorno ancora una volta ed esce decisa dal ristorante. Dirigendosi verso di te. Ti passa a un metro e mezzo, e scompare verso i cancelli delle partenze. Tu chiudi il telefono e te lo infili nella tasca del vestito, poi ti allontani nella direzione opposta. Mentre cammini, sorridi tra te e te.

Ora la chiamata cruciale finirà sulla bolletta di qualcun altro. Sei in una botte di ferro.

In apparenza, la chiamata all'ufficiale di servizio a Fort Armstrong non portò a nulla, ma il tono elusivo dell'uomo equivalse, per un poliziotto miliare con tredici anni d'esperienza come Reacher, a una conferma sicura quanto un affidavit davanti a un pubblico ufficiale.

«È lì», affermò.

La Harper aveva origliato la conversazione e non pareva convinta.

«Gliel'hanno assicurato?»

«Più o meno.»

«Allora vale la pena di andarci?» Lui mosse vigorosamente il capo. «C'è, glielo garantisco.» Nella Nissan non c'erano cartine, e Lisa non aveva idea di dove si trovasse Fort Armstrong. Jack aveva solo una conoscenza superficiale della geografia del New Jersey: sapeva come andare da A a B, poi da B a C, e da C a D, ma quale fosse la strada più rapida e conveniente da A a D, non lo sapeva. Perciò uscì dal posteggio e si diresse verso l'autostrada, ritenendo che andare a sud per un'ora sarebbe stata una buona scelta. Dopo nemmeno un minuto si rese conto di aver imboccato la stessa strada presa dalla Lamarr pochi giorni prima. Pioveva leggermente e la Nissan procedeva più lenta e pesante rispetto alla grossa Buick della Lamarr. Si trovavano proprio laggiù, nel tunnel di spruzzi. Il parabrezza era rivestito da una patina di untume metropolitano e i tergicristalli gli offuscavano la vista ogni due passate, sporco, pulito, sporco, pulito. L'indicatore della benzina stava scendendo sotto il quarto.

«Dovremmo fermarci», suggerì la Harper. «A far benzina e pulire il parabrezza.»

«E comprare una carta», aggiunse Reacher.

Uscì alla stazione di servizio seguente. Era pressoché identica a quella che la Lamarr aveva scelto per pranzo: stessa disposizione, stessi edifici.

Si avvicinò alle pompe sotto la pioggia e lasciò l'auto all'isola del servizio completo. Quando tornò, reggendo una carta colorata che, spiegata, diventava un foglio di quasi un metro quadrato molto scomodo da maneggiare, il serbatoio era pieno e l'addetto stava pulendo il parabrezza.

«Siamo sulla strada sbagliata», annunciò Jack. «La n. 1 è meglio.»

«Bene, allora la prossima uscita», replicò la Harper allungando il collo.

«Viaggeremo sulla 95 per raggiungerla.» Col dito seguì il tragitto verso sud lungo la 1 e trovò Fort Armstrong sul confine della sagoma gialla che rappresentava Trenton.

«È vicino a Fort Dix», osservò Lisa. «Dov'eravamo prima.» Reacher non disse nulla. L'uomo finì di pulire il parabrezza e la Harper lo pagò dal finestrino. Jack si asciugò la pioggia dalla fronte con la manica e avviò il motore. Poi si reimmise sull'autostrada e prestò attenzione all'uscita per l'interstatale 95. Questa risultò impraticabile, tanto caotico era il traffico. La 1 era meglio. Piegava attraverso Highland Park, poi correva dritta per una trentina di chilometri, fino a Trenton. Jack ricordava che, per arrivare a Fort Armstrong, bisognava svoltare a sinistra se si arrivava da nord, uscendo da Trenton, perciò adesso che provenivano da sud avrebbero dovuto girare a destra, imboccando un'altra strada diritta che li avrebbe portati fino a una sbarra, nei pressi di un posto di guardia a due piani. Dietro di essa c'erano altre strade e altri edifici: le prime erano pianeggianti con i cigli bianchi, e i secondi, tutti di mattoni con gli angoli smussati e le scale esterne di acciaio tubolare dipinto di verde. I telai delle finestre erano metallici. Classica architettura militare anni '50, realizzata con budget e finalità illimitati. Con ottimismo illimitato.

«I militari americani», disse a gran voce Reacher. «Eravamo i re del mondo, allora.» Dalla finestra del posto di guardia accanto alla sbarra proveniva una luce fioca. S'intravedeva, ridotta a una silhouette contro la luce, una sentinella massiccia sotto la mantella impermeabile e l'elmetto. Il soldato sbirciò attraverso la finestra e si avvicinò alla porta, l'aprì e avanzò verso l'auto.

Jack abbassò il finestrino.

«Lei è la persona che ha chiamato il capitano?» domandò la sentinella.

Era un nero grande e grosso, la voce bassa, l'inflessione lenta del profondo Sud. Lontano da casa in una notte piovosa. Reacher assentì, e il militare sorrise. «Immaginava che sarebbe venuto di persona», commentò.

«Entri.» Tornò nel posto di guardia, e un attimo dopo la sbarra si sollevò. Reacher guidò con attenzione sopra i rallentatori e svoltò a sinistra.

«È stato facile», commentò Lisa.

«Ha mai incontrato un agente dell'FBI in pensione?»

«Sicuro, una o due volte. Un paio della vecchia guardia.»

«Come l'hanno trattata?» Lei fece un risolino. «Come quell'uomo ha trattato lei, suppongo.»

«Tutte le organizzazioni sono uguali», osservò Reacher. «La polizia militare più delle altre, probabilmente. Il resto dell'esercito ti odia, perciò i legami con i tuoi sono ancora più forti.» Jack svoltò a destra, poi ancora a destra, quindi a sinistra.

«C'è già stato?» chiese la Harper.

«Questi posti sono tutti uguali», replicò lui. «Cerca l'aiuola più grossa, e troverai l'ufficio centrale.» Lei indicò col dito. «Quello mi pare vada bene.» Jack si complimentò. «Ha afferrato l'idea.» La luce dei fari danzò su un roseto ampio quanto una piscina olimpica.

Le rose erano solo steli dormienti, che spuntavano da un terreno grumoso, concimato con letame di cavallo e pezzi di corteccia. Dietro di esse sorgeva un edificio basso e simmetrico, con una scalinata bianca che conduceva a una doppia porta nel mezzo. Una luce brillava dietro una finestra nel centro dell'ala sinistra.

«L'ufficio di servizio», spiegò Reacher. «La sentinella ha chiamato il capitano non appena abbiamo varcato il cancello, perciò in questo momento sta percorrendo il corridoio in direzione della porta.» Le lunette sopra la doppia porta furono illuminate da una luce gialla.

«Ora le luci esterne», rilevò Jack.

Due lampioncini montati sui pilastri della porta si accesero. Jack fermò l'auto al termine dei gradini. «Adesso la porta si apre», profetizzò.

Quella si aprì verso l'interno e sulla soglia comparve un uomo in uniforme.

«Quello ero io, circa un milione di anni fa», proseguì Jack.

Il capitano attese in cima alla scalinata, abbastanza lontano da restare illuminato dalle lampade ma non tanto da bagnarsi sotto la pioggerella. Era di una testa più basso di Reacher, ma appariva robusto e in forma. Capelli neri ben pettinati, occhiali semplici d'acciaio. La giacca dell'uniforme era rigida e abbottonata, ma il suo volto aveva un'aria abbastanza cordiale. Reacher uscì dalla Nissan e girò attorno al cofano, la Harper lo raggiunse ai piedi degli scalini imbiancati a calce.

«Venite al riparo», gridò il capitano.

Aveva un accento cittadino della East Coast. Era vigile e attento, e aveva un sorriso affabile. Pareva una persona gentile. Jack salì gli scalini per primo, e Lisa notò che le sue scarpe bagnate lasciavano impronte sulla calce. Poi abbassò lo sguardo e vide che le sue facevano lo stesso.

«Mi spiace», disse, desolata.

Il capitano sorrise di nuovo. «Non si preoccupi», rispose. «I prigionieri li dipingono ogni mattina.»

«Questa è Lisa Harper», la presentò Reacher. «È dell'FBI.»

«Lieto di conoscerla», disse il militare. «John Leighton.» I tre si strinsero la mano davanti alla porta, poi Leighton li condusse all'interno. Spense i lampioncini girando un interruttore al di là della porta, poi la luce del corridoio.

«Il budget. Non possiamo sprecare denaro», spiegò.

La luce del suo ufficio si riversava nel corridoio, e il capitano andò verso di essa. Si fermò di fronte alla porta e li fece entrare. L'ufficio era in stile anni '50, originale, ammodernato solo laddove necessario: scrivania vecchia, computer nuovo, schedario vecchio, telefono nuovo. Gli scaffali erano pieni zeppi di libri e ogni superficie appariva sommersa di carte.

«La tengono bene occupata», commentò Reacher.

Leighton era d'accordo. «Non me ne parli.»

«Allora cercheremo di non rubarle troppo tempo.»

«Non si preoccupi. Ho fatto qualche telefonata dopo che mi ha chiamato, com'è ovvio. Un amico di un amico mi ha detto di farle una grande accoglienza. Corre voce che fosse un maggiore tutto d'un pezzo.» Reacher sorrise brevemente. «Be', ho sempre cercato d'esserlo», si schermì. «Come maggiore. Chi era l'amico dell'amico?»

«Uno che ha lavorato per lei quando lei lavorava per il vecchio Leon Garber. Ha detto che era un uomo onesto e che il vecchio Garber la elogiava sempre, il che la rende molto famoso, almeno fintantoché questa generazione resterà sulla breccia.»

«Si ricordano ancora di Garber?»

«I fan degli Yankee non si ricordano di Joe Di Maggio?»

«Frequento la figlia di Garber», disse Reacher.

«Lo so», ribatté Leighton. «Le voci corrono. È un uomo fortunato. Jodie Garber è una bella donna, a quanto ricordo.»

«La conosce?» Leighton annuì. «L'ho incontrata in una base, all'inizio della carriera.»

«Lo dirò a Jodie.» Poi Jack tacque, pensando a lei e a Leon. Avrebbe venduto la casa che questi gli aveva lasciato, e Jodie era preoccupata.

«Sedetevi», li invitò il capitano. «Prego.» Davanti alla scrivania c'erano due sedie dallo schienale diritto, di metallo tubolare e tela, come quei mobili che, una generazione prima, venivano scartati dalle chiese ricavate da negozi.

«Allora come posso aiutarvi?» domandò Leighton, rivolgendo la domanda a Reacher ma guardando la Harper.

«Le spiegherà lei», rispose Jack.

Lisa raccontò tutto dall'inizio, riassumendo i fatti. Le ci vollero sette, otto minuti. Il capitano l'ascoltò con attenzione, interrompendola di tanto in tanto.

«So delle donne», osservò il capitano. «Ci hanno informati.» Lisa terminò illustrando la teoria di Reacher della montatura, i possibili furti nell'esercito e la pista che li aveva condotti dai ragazzi di Petrosian a New York a Bob nel New Jersey.

«Si chiama Bob McGuire», spiegò Leighton. «Sergente furiere. Ma non è il vostro uomo. Lo abbiamo preso due mesi fa, e in ogni caso è troppo stupido.»

«Lo supponevamo», osservò la Harper. «Pensavamo però che potesse farci dei nomi, forse condurci a qualcuno di più credibile.»

«Un pesce più grosso?» Lei assentì. «Qualcuno che abbia affari tanto proficui da arrivare a eliminare i testimoni.» Leighton annuì a sua volta. «In teoria, potrebbe esserci una persona del genere», affermò con cautela.

«Ha un nome?» Leighton la guardò e scosse la testa. Poi, appoggiandosi allo schienale della sedia, si sfregò gli occhi con le mani. All'improvviso apparve molto stanco.

«Qualche problema?» domandò Reacher.

«Da quanto se n'è andato?» gli chiese a sua volta Leighton, gli occhi chiusi.

«Credo da circa tre anni.» Il capitano sbadigliò, si allungò e riassunse la posizione eretta. «Le cose sono cambiate», spiegò. «Il tempo corre, giusto?»

«Che cosa è cambiato?»

«Tutto», spiegò Leighton. «Be', più che altro questo.» Si chinò e picchiettò sul monitor del computer con l'unghia, producendo un rumore di vetro di bottiglia. «Un esercito più piccolo, più facile da organizzare, maggior tempo a disposizione. Così ci hanno computerizzati, nessuno escluso.

Rende le comunicazioni molto più semplici. E inoltre sappiamo tutto di tutti. Gli inventari sono più facili da gestire. Vuol sapere quanti pneumatici per le jeep Willys abbiamo in magazzino, anche se non usiamo più quei mezzi? Mi dia dieci minuti, e glielo dirò.»

«Quindi?»

«Quindi teniamo tutto sotto controllo, molto meglio di prima. Per esempio, sappiamo quante Beretta M9 sono state consegnate, quante sono state legalmente distribuite e quante sono in magazzino. E se i conti non tornano, ci preoccupiamo sul serio, credetemi.»

«E tornano?» Leighton sorrise brevemente. «Ora sì, su questo non ci sono dubbi. Nessuno ha rubato una Beretta M9 all'esercito americano nell'ultimo anno e mezzo.»

«Ma che cosa combinava allora Bob McGuire due mesi fa?» domandò Reacher.

«Stava finendo di vendere i resti della sua scorta. Rubava da dieci anni, almeno. Con una piccola analisi informatica l'abbiamo scoperto. Lui, e una ventina d'altri in diverse località. Abbiamo attuato misure per por fine ai furti e abbiamo arrestato tutti i ladri che tentavano di vendere quello che era loro rimasto.»

«Tutti?»

«Così dice il computer. Ci mancava un buon numero d'armi, di tutti i tipi, in una ventina di posti, così abbiamo arrestato una ventina di uomini, e i furti sono cessati. McGuire era l'ultimo, o quasi, forse il penultimo. Non ne sono certo.»

«Non ci sono più stati furti d'armi?»

«È una notizia vecchia», rispose il militare. «Lei è rimasto indietro.» Nella stanza calò il silenzio.

«Un buon lavoro. Congratulazioni», commentò Jack.

«Un esercito più piccolo. Più tempo a disposizione», ribadì il capitano.

«Li avete presi tutti?» insisté la Harper.

Leighton assentì. «Tutti. Una grossa operazione, in tutto il mondo. Non erano poi molti. È solo merito dei computer.» Nell'ufficio ci fu di nuovo silenzio.

«Be', accidenti, questa è la fine della nostra teoria», disse a denti stretti Lisa. Poi la giovane agente abbassò lo sguardo sul pavimento.

Leighton scosse il capo, cauto. «Forse no», rispose. «Noi abbiamo una nostra teoria.» Lei risollevò lo sguardo. «Il pesce grosso?» Il capitano assentì. «Sì.»

«Chi è?»

«È solo una figura ipotetica, per il momento.»

«Ipotetica?»

«Non è attivo», spiegò il militare. «Non ruba niente. Come vi ho detto, abbiamo identificato le perdite e tappato le falle. Una ventina di uomini è in attesa di processo, nelle varie località dei furti. Ma li abbiamo arrestati perché abbiamo mandato i nostri, sotto copertura, a comprare la merce. Li abbiamo presi in trappola. Bob McGuire, per esempio, ha venduto un paio di Beretta a due tenenti in un bar.»

«Ci siamo appena stati», raccontò Lisa. «Il MacStiophan's vicino all'autostrada per il New Jersey.»

«Sì», confermò il militare. «I nostri ragazzi hanno comprato due M9 dal bagagliaio della sua auto, duecento testoni l'una, ossia circa un terzo del prezzo sborsato dall'esercito. Perciò portiamo dentro McGuire e iniziamo a torchiarlo. Grazie all'inventario informatico conosciamo approssimativamente il numero di pezzi che ha rubato negli anni e calcoliamo un prezzo medio, poi cerchiamo di scoprire dove sia finito il denaro. E veniamo a sapere che quasi metà di esso è depositato in conti correnti o è stato speso per acquistare cose.»

«E?»

«E niente, almeno a quel tempo. Ma in seguito mettiamo insieme le informazioni e notiamo che la storia si ripete dappertutto, pressoché identica.

Metà del loro denaro manca, più o meno la stessa percentuale in tutti i casi.

E questi tizi non sono certo i più svegli che abbiate incontrato, giusto? Non hanno saputo nascondere quel denaro ai nostri occhi. E, anche se avessero saputo farlo, perché nasconderne la metà esatta? Perché non tutto, due terzi o tre quarti? Capite, una percentuale diversa, in ogni caso?»

«E qui entra in gioco l'ipotetico pesce grosso», commentò Reacher.

Leighton annuì. «Esattamente. In che altro modo lo si potrebbe spiegare? Era come un puzzle con un pezzo mancante. Abbiamo iniziato a pensare a una specie di padrino, un personaggio importante nell'ombra, forse l'organizzatore dell'intera rete, che offriva protezione in cambio di metà dei profitti.»

«O delle armi», suggerì Jack.

«Certo.»

«Qualcuno che gestisca un racket basato sulla protezione», intervenne la Harper. «Una specie di traffico nel traffico.»

«Esatto», confermò il militare.

Poi seguì un lungo momento di silenzio.

«È credibile, dal nostro punto di vista», osservò Lisa. «Un uomo simile è abile, in gamba, e deve spostarsi in continuazione per occuparsi dei problemi che possono sorgere in varie località. Potrebbe spiegare perché s'interessa a tante donne diverse. Non perché queste conoscessero lui, ma perché ognuna di loro conosceva qualcuno dei suoi clienti.»

«La tempistica corrisponderebbe», aggiunse Leighton. «Se il nostro uomo è anche il vostro, ha iniziato a pianificare la cosa due, tre mesi fa, quando ha cominciato ad accorgersi che i clienti diminuivano.» La Harper si protese sulla sedia. «Qual era l'entità del giro due o tre anni fa?»

«Piuttosto elevata», ammise il capitano. «Vuol sapere quanto queste donne potrebbero aver visto?»

«Sì.»

«Molto», rispose lui.

«Sono valide le prove che avete?» chiese Lisa. «Contro Bob McGuire, per esempio?» Leighton si strinse nelle spalle. «Non eccezionali. Lo abbiamo incriminato per le due pistole che ha venduto ai nostri, certamente, ma si tratta solo di due armi. Il resto sono perlopiù prove circostanziali, e il fatto che non ci sia una corrispondenza esatta tra denaro e merce rivenduta indebolisce molto l'accusa.»

«Perciò eliminare i testimoni prima del processo avrebbe senso?» Leighton confermò con un cenno del capo. «Molto senso.»

«Ma chi è quest'uomo?» Il capitano si sfregò di nuovo gli occhi. «Non ne abbiamo idea. Non sappiamo nemmeno se ci sia un uomo. Per ora è solo un'ipotesi. La nostra teoria.»

«Nessuno parla?»

«Neanche una dannata parola. Abbiamo indagato, per due mesi interi.

Abbiamo fatto una ventina di arresti, ma tutti tengono la bocca ben chiusa.

Supponiamo che il nostro pesce grosso li abbia spaventati a morte.»

«È un uomo che fa certamente paura», commentò Lisa. «Da quello che sappiamo di lui.» Nell'ufficio di Leighton calò il silenzio. Si udiva solo il flebile ticchettio della pioggia contro le finestre.

«Sempre che esista», osservò il militare.

«Esiste», ribadì l'agente Harper.

Leighton assentì. «Anche noi lo crediamo.»

«Be', dobbiamo scoprire come si chiama», concluse Reacher.

Nessuno replicò.

«Vorrei parlare con McGuire, a nome vostro», chiese ancora Jack.

Leighton sorrise. «Immaginavo che l'avrebbe chiesto. Ed ero più che pronto a dirle di no, che è contro la procedura. Ma sa una cosa? Ho appena cambiato idea, e le dico di sì, va bene. Faccia come crede.»

Le celle erano nel sotterraneo, come è la prassi in un quartier generale regionale, sotto un edificio di mattoni basso e isolato, dotato di una porta di ferro e situato dall'altra parte del roseto. Leighton fece loro strada sotto la pioggia. Tutti e tre avevano i colletti sollevati per proteggersi dall'umidità e il mento sul petto. Il capitano afferrò una vecchia maniglia esterna e aprì la porta di ferro: dietro apparve un corridoio luminoso in cui si stagliava un ciclopico sergente maggiore. Questi si scostò e Leighton li fece entrare.

All'interno le pareti erano di mattoni, smaltate di bianco. Pavimenti e soffitti erano di calcestruzzo liscio, applicato con la cazzuola, e verniciati di un verde lucido. Le luci erano costituite da tubi fluorescenti, posti dietro spesse griglie metalliche. Le porte erano di ferro, con una finestrella quadrata munita di sbarre in alto. Sulla destra c'era un ufficio minuscolo, con una rastrelliera di legno piena di chiavi tenute da anelli metallici da dieci centimetri. Si notava un grosso tavolo, con sopra vari videoregistratori che proiettavano immagini tremolanti, grigio-lattiginose, su dodici piccoli schermi. Questi inquadravano dodici celle, undici delle quali vuote, mentre in una vi era una sagoma curva sotto una coperta, sulla branda.

«Notte tranquilla all'Hilton», commentò Reacher.

Leighton ridacchiò. «Il sabato sera peggiora. Ma per ora McGuire è l'unico nostro ospite.»

«Il sistema di registrazione è un problema», disse Jack.

«Si rompe sempre, in ogni caso», replicò il militare.

Si chinò per esaminare le immagini sui monitor. Posò le braccia sul tavolo, si chinò ulteriormente e girò la mano finché con la nocca non toccò un interruttore. Gli apparecchi smisero di registrare e la scritta REC scomparve dall'angolo degli schermi.

«Vede?» osservò. «È un sistema molto inaffidabile.»

«Ci vorrà un paio d'ore per sistemarlo», commentò il sergente. «Almeno.» Aveva una pelle lucida, color caffè, e portava una giacca grande quanto una tenda da campo. Reacher e la Harper avrebbero potuto ripararvisi insieme, e forse anche Leighton. Quell'omone era il sottufficiale ideale per la polizia militare.

«McGuire ha una visita, sergente», lo informò il capitano in tono ufficioso. «Non c'è bisogno di verbalizzarla.» Reacher si tolse cappotto e giacca, li piegò e li lasciò sulla sedia del sergente. Questi prese un anello di chiavi dalla rastrelliera e andò verso la porta interna, l'aprì e la spalancò. Reacher la oltrepassò, e il sergente la richiuse a chiave alle sue spalle, indicandogli quindi una scala.

«Dopo di lei», esclamò.

La scala era di mattoni, gli angoli dei gradini smussati. Entrambe le pareti erano smaltate di bianco. C'era un corrimano metallico, imbullonato al muro ogni trenta centimetri e, in fondo, un'altra porta chiusa a chiave. Poi un altro corridoio, e un'altra porta chiusa. Dopo questa si apriva un atrio con tre porte chiuse a chiave che immettevano ai tre blocchi delle celle. Il sergente aprì quella centrale, azionò un interruttore e una luce fluorescente lampeggiò, per poi inondare di luce bianca un'area di dodici metri per sei.

C'era una zona d'accesso lunga quanto il blocco e profonda circa un terzo di esso. Il resto dello spazio era diviso in quattro celle, delimitate da pesanti sbarre di ferro, ricoperte da uno spesso strato di smalto bianco e lucente.

Le celle misuravano circa tre metri per tre e mezzo, e ognuna aveva di fronte una videocamera, montata in alto sul muro. Tre erano vuote, le porte spalancate, la quarta invece era ben chiusa: conteneva McGuire. Il detenuto si stava svegliando, stordito, e si stava mettendo a sedere, sorpreso dalla luce.

«Hai una visita», gridò il sergente.

Nell'angolo della zona d'accesso, accanto alla porta d'uscita, c'erano due alti sgabelli di legno. Il sergente avvicinò il primo e lo pose davanti alla cella di McGuire, poi arretrò e si sedette sull'altro. Reacher ignorò lo sgabello e rimase in piedi con le mani dietro la schiena, a fissare in silenzio tra le sbarre. McGuire stava scostando la coperta e mettendo i piedi sul pavimento. Indossava una maglietta e un paio di pantaloncini color verde oliva.

Era grande e grosso, alto oltre il metro e ottanta, pesante più di novanta chili, e aveva superato probabilmente i trentacinque anni. Corpo molto muscoloso, collo largo, braccia e gambe possenti. Capelli radi tagliati corti, occhi piccoli, un paio di tatuaggi. Jack rimase perfettamente immobile a osservarlo, senza dire una parola.

«Chi diavolo sei?» chiese McGuire, con una voce che ben si sposava con la sua mole: era profonda, e le parole parevano quasi venire inghiottite dall'ampio torace. Reacher tacque. Era una tecnica che aveva perfezionato molto tempo prima: rimanere assolutamente immobile, senza battere le palpebre, senza dir nulla. Lascia che passino al vaglio tutte le possibilità.

Non un compagno, non un avvocato, chi mai allora? Aspetta che inizino a preoccuparsi.

«Chi diavolo sei?» ripeté il prigioniero.

Jack si allontanò e si avvicinò al punto in cui il sergente maggiore stava seduto, poi si chinò per bisbigliargli qualcosa all'orecchio. Le sopracciglia del gigante si sollevarono. È sicuro? Reacher mormorò ancora qualcosa, poi il militare annuì, si alzò e gli porse l'anello con le chiavi. Uscì dalla porta e la richiuse alle sue spalle. Jack appese le chiavi alla maniglia, dopodiché tornò alla cella di McGuire. Questi lo fissava da dietro le sbarre.

«Che vuoi?» domandò.

«Che tu mi guardi», replicò Jack.

«Che cosa?»

«Che cosa vedi?»

«Niente», rispose McGuire.

«Sei cieco?»

«No, non sono cieco.»

«Allora sei un bugiardo», osservò Reacher. «Non è vero che non vedi niente.»

«Vedo un tizio», disse l'uomo.

«Vedi un tizio più grosso di te che ha ricevuto ogni tipo di addestramento speciale mentre tu facevi il passacarte in qualche fureria di merda.»

«E allora?»

«Allora niente. È solo qualcosa da tenere a mente per dopo, nient'altro.»

«Che cosa viene dopo?»

«Lo scoprirai.»

«Che vuoi?»

«Prove.»

«Di che cosa?»

«Di quanto coglione sei esattamente.» McGuire restò in silenzio e socchiuse gli occhi che si trasformarono in due profonde fessure incassate nella fronte. «Facile per te parlare così», commentò alla fine. «A due metri da queste sbarre.» Reacher fece un esagerato passo in avanti. «Adesso sono a mezzo metro dalle sbarre», esclamò. «E tu resti sempre un coglione.» Anche il prigioniero fece un passo in avanti: adesso era a una trentina di centimetri dalla porta, le mani strette alle sbarre, lo sguardo dritto negli occhi di Jack.

Reacher avanzò ancora. «Adesso sono a trenta centimetri dalle sbarre, come te», affermò. «E tu sei ancora un coglione.» La mano destra di McGuire spuntò tra le sbarre e si chiuse a pugno. L'intero braccio si protese quindi come un pistone, mirando alla gola di Jack.

Reacher lo afferrò per il polso, poi lo tirò e lo fece passare sopra la sua testa. Portando il peso all'indietro, strattonò McGuire fino a schiacciarlo contro le sbarre. Al che Jack gli ruotò il polso, in modo che il palmo della mano fosse rivolto all'esterno, e prese a camminare verso sinistra, flettendo il braccio all'indietro, all'altezza del gomito.

«Vedi quanto sei coglione?» osservò. «Se continuo a camminare, ti spezzo il braccio.» McGuire ansimava per la pressione, e Jack sorrise lievemente, lasciando andare il polso. L'uomo lo guardò e ritirò il braccio, per verificare i danni.

«Che vuoi?» ripeté.

«Vuoi che apra la cella?»

«Che cosa?»

«Le chiavi sono laggiù. Vuoi che apra la cella, per pareggiare un po' i conti?» Gli occhi del prigioniero si socchiusero ulteriormente. «Sì, apri questa dannata cella», rispose con un cenno.

Reacher si allontanò e sfilò dalla maniglia l'anello con le chiavi, le esaminò e trovò quella giusta. Aveva maneggiato centinaia di chiavi di celle, avrebbe saputo trovarla anche a occhi chiusi. Tornò indietro, fece scattare la serratura e spalancò la porta. McGuire restò immobile. Jack si allontanò di nuovo e riappese le chiavi alla maniglia, senza voltarsi, le spalle alla cella.

«Siediti», gridò. «Ho lasciato lì quello sgabello per te.» Percepì McGuire uscire dalla cella, udì i suoi piedi nudi sul pavimento di calcestruzzo, poi li udì fermarsi.

«Che vuoi?» insistette l'uomo.

Reacher continuò a voltargli le spalle, attento a cogliere ogni sua mossa d'avvicinamento. Ma l'altro restò fermo.

«È complicato», spiegò. «Dovrai destreggiarti tra molti fattori.»

«Quali fattori?» domandò McGuire, inespressivo.

«Il primo fattore è che sono qui in via ufficiosa, d'accordo?» disse Jack.

«Che cosa significa?»

«Dillo tu.»

«Non lo so», fece il prigioniero.

Reacher si girò. «Significa che non sono un poliziotto militare, e nemmeno civile, anzi non sono nulla di nulla.»

«E allora?»

«Allora non c'è modo di rivalersi su di me. Niente procedure disciplinari, nessuna pensione a rischio, niente di niente.»

«Allora?»

«Allora, se camminerai con le stampelle e berrai da una cannuccia per tutta la vita, non c'è niente che si possa fare contro di me. E qui non ci sono testimoni.»

«Che cosa vuoi?»

«Il secondo fattore è che, qualsiasi cosa il capo ti abbia detto che ti avrebbe fatto, io posso farti di peggio.»

«Quale capo?» Reacher sorrise. Le mani di McGuire si chiusero a pugno. Bicipiti muscolosi, spalle grosse.

«Ora andiamo sul complesso», proseguì Jack. «Dovrai concentrarti con molto impegno su questa parte. Il terzo fattore è che, se mi dici il nome di quell'uomo, lui verrà rinchiuso da qualche altra parte, per sempre. Dimmi il suo nome, e lui non potrà farti niente. Mai più, capito?»

«Quale nome? Quale uomo?»

«L'uomo cui hai dato metà dei tuoi soldi.»

«Non c'è nessun uomo.» Reacher scosse il capo. «Abbiamo già superato questa fase, non credi?

Sappiamo che c'è. Perciò non obbligarmi a riempirti di botte prima ancora che arriviamo al dunque.» McGuire si contrasse e prese a respirare veloce, poi si calmò. Il suo corpo si afflosciò e i suoi occhi si socchiusero lievemente.

«Allora, concentrati», continuò Jack. «Tu pensi che tradendolo finirai nella merda, ma ti sbagli. Quello che devi capire è che, se lo tradisci, ti salvi, per il resto della tua vita, perché lo stanno cercando per una serie di cose ben più gravi di alcuni furti nell'esercito.»

«Che cos'ha fatto?» domandò McGuire.

Reacher sorrise. Avrebbe voluto che le videocamere avessero l'audio.

Quell'uomo esiste. Leighton avrebbe saltellato di gioia nel suo ufficio.

«L'FBI crede che abbia ucciso quattro donne. Se mi dirai il suo nome, lo sbatteranno dentro per sempre. Nessuno gli chiederà mai altro.» McGuire rimase in silenzio. Ci stava riflettendo, e non fu certo il processo più rapido cui Jack avesse assistito.

«Ci sono altri due fattori», aggiunse Reacher. «Se me ne parli ora, dirò una buona parola per te. E mi ascolteranno, perché ero uno di loro. Gli sbirri restano sempre legati, giusto? Posso semplificarti la vita. Ultimo fattore», concluse, «devi capire che, prima o poi, me lo dirai comunque. È solo questione di tempo. Sta a te scegliere. Puoi parlare ora, o fra mezz'ora, dopo che ti avrò rotto braccia e gambe, e che mi accingerò a spezzarti anche la schiena.»

«È un tipo molto pericoloso», osservò McGuire.

Reache annuì. «Ne sono convinto. Ma devi considerare le priorità. Qualsiasi cosa minacci di farti è teorica, lontana e, come ti ho già detto, in ogni caso non succederà. Ma quello che ti farò io succederà tra qualche minuto.

Proprio qui.»

«Tu non farai un bel niente», replicò il prigioniero.

Reacher si girò e afferrò lo sgabello di legno. Lo rovesciò e lo tenne all'altezza del petto, le mani strette a due gambe. Poi inarcò le spalle ed esercitò una trazione costante. Respirò a fondo e portò i gomiti all'indietro e le gambe dello sgabello si staccarono dai pioli, che rimbalzarono con un rumore secco sul pavimento. Jack girò allora lo sgabello e, tenendo il sedile con la sinistra, staccò con la destra una gamba. Gettò quindi per terra lo sgabello rotto e strinse la barra di legno. Era lunga quasi un metro, simile per peso e dimensioni a una mazza da baseball.

«Prova a fare lo stesso», esclamò.

McGuire tentò con tutte le sue forze. Rovesciò lo sgabello e lo afferrò per le gambe. I suoi muscoli si contrassero, e i tatuaggi si gonfiarono, ma non ottenne niente: rimase semplicemente lì, con lo sgabello all'insù.

«Proprio non ci siamo», commentò Jack. «Io ho cercato di pareggiare la situazione.»

«Era nelle Forze Speciali», disse il prigioniero. «Ha partecipato a Desert Storm. È davvero un tipo pericoloso.»

«Non importa», replicò Reacher. «Se fa resistenza, l'FBI gli spara. Fine del problema.» McGuire non disse nulla.

«Non saprà che sei stato tu a parlare», proseguì Jack. «Lasceranno credere di aver trovato qualche prova.» Il soldato continuava a tacere, al che Jack fece oscillare la gamba dello sgabello.

«Il destro o il sinistro?» chiese.

«Che cosa?»

«Quale braccio vuoi che ti spezzi per primo?»

«LaSalle Kruger», gridò McGuire. «Battaglione approvvigionamenti.

Ufficiale comandante. È un colonnello.»