18
La squadra locale del Bureau di Spokane aveva lavorato duramente nella notte e si era procurata la collaborazione di un'impresa edile, di un noleggio gru, di una ditta di autotrasporti e di una compagnia di aerei da carico.
La prima aveva demolito il bagno di Alison Lamarr e tagliato le tubature.
Gli specialisti della scientifica del Bureau avevano avvolto l'intera vasca con una plastica pesante, mentre gli operai edili rimuovevano la finestra e demolivano la parete posteriore fino al pavimento. La squadra di addetti alla gru imbracò la vasca sigillata, calò il gancio attraverso l'apertura praticata nel retro della casa e sollevò il grosso carico nella notte. Esso ondeggiò nell'aria gelida e fu depositato con cautela in una cassa da imballaggio di legno, fissata sul pianale di un camion in attesa sulla strada. Gli autotrasportatori riempirono la cassa con polistirolo espanso, per proteggerne il contenuto, inchiodarono il coperchio con cura e si diressero subito verso l'aeroporto di Spokane. La cassa venne quindi caricata su un velivolo e spedita alla base di Andrews, dove un elicottero la prelevò e la portò a Quantico. Lì fu scaricata con un carrello elevatore e collocata con delicatezza nella zona di carico di un laboratorio, dove fu lasciata in attesa per un'ora, mentre gli esperti medico-legali del Bureau decidevano quale fosse il miglior modo di procedere.
«A questo punto la causa della morte è tutto ciò che voglio», esordì Blake.
Sedeva a un lato di una lunga scrivania nella sala conferenze del reparto di patologia, a tre edifici e cinque piani di distanza dal dipartimento di scienze comportamentali. Accanto a lui stavano, in ordine, gli agenti Harper e Poulton e infine Reacher. Di fronte a loro era seduto il capo patologo di Quantico, un certo Stavely, un nome che Jack pensava di aver già sentito da qualche parte. Quell'uomo godeva chiaramente di una certa fama, e tutti lo trattavano con deferenza. Era corpulento e aveva un volto rubizzo, stranamente allegro, mani grandi e rosse, che parevano goffe, anche se presumibilmente non lo erano. Al suo fianco c'era il capo tecnico, un uomo magro e tranquillo dall'aria assorta.
«Abbiamo letto i rapporti sui casi precedenti», affermò Stavely, poi tacque.
«Perciò?» domandò Blake.
«Perciò non sono quel che si suol dire pieno d'ottimismo», rispose il medico. «Il New Hampshire è abbastanza tagliato fuori dalla prassi operativa, lo ammetto, ma in Florida e in California, ne hanno, d'esperienza.
Credo che, se ci fosse stato qualcosa da trovare, ne sareste già al corrente.
Sono bravi, laggiù.»
«Qui siamo più in gamba», osservò Blake.
Stavely sorrise. «Con l'adulazione riuscite a ottenere ciò che volete, giusto?»
«Non è adulazione.» Il patologo sorrideva ancora. «Se non c'è nulla da trovare, che possiamo fare?»
«Dev'esserci qualcosa», insistette Blake. «Stavolta ha commesso un errore, con lo scatolone.»
«E allora?»
«Allora forse ne ha commesso più d'uno, forse ha lasciato qualcosa che troverete.» Il medico ponderò per un attimo la situazione. «Be', non trattenete il fiato, questo è il mio consiglio.» Poi si alzò all'improvviso, intrecciò le grosse dita e fletté le mani. Rivolgendosi al tecnico, domandò: «Siamo pronti?» L'uomo magro annuì. «Presumiamo che la vernice sia ormai ben secca in superficie, forse per due o tre centimetri di spessore. Se la stacchiamo completamente dallo smalto della vasca, dovremmo riuscire a infilarvi sotto un sacco salma ed estrarla.»
«Bene», commentò Stavely. «Conservate il maggior strato possibile di vernice attorno al corpo. Non voglio che si alteri.» Il tecnico uscì di gran fretta e Stavely lo seguì, presumendo evidentemente che gli altri quattro lo imitassero, cosa che in effetti accadde, con Reacher a chiudere la fila.
Il laboratorio di patologia non era diverso dagli altri che Jack aveva visto. Era un locale ampio e basso, bene illuminato da lampade al soffitto.
Pareti e pavimento erano rivestiti di piastrelle bianche. Nel centro della stanza campeggiava un grande tavolo settorio di lucido acciaio, dotato al centro di un canale di scarico, collegato direttamente a un tubo d'acciaio che scompariva nel pavimento. Tutt'attorno, una schiera di carrelli carichi di strumenti. Alcuni tubi flessibili pendevano dal soffitto. C'erano varie macchine fotografiche su Cavalletti, bilance e cappe di aspiratori. Si sentivano il basso ronzio della ventilazione e un forte odore di disinfettante.
L'aria era ferma e fredda.
«Camice e guanti», prescrisse Stavely, indicando un armadietto d'acciaio pieno di camici di nylon piegati e di scatole di guanti di lattice monouso.
L'agente Harper li distribuì.
«Probabilmente le mascherine non saranno necessarie», affermò il patologo. «Credo che il puzzo peggiore sarà quello della vernice.» Lo sentirono non appena il lettino entrò nella sala. Lo spingeva il tecnico, e sopra si scorgeva il sacco salma, gonfio, lucido e sporco di verde. La vernice filtrava dalla chiusura e gocciolava lungo le gambe d'acciaio fin sulle ruote, lasciando due tracce parallele sul pavimento di piastrelle bianche. Il tecnico camminava tra di esse. Il lettino tintinnava e il sacco ondeggiava e traballava come un gigantesco pallone pieno d'olio. Il tecnico aveva le braccia imbrattate di vernice fino alle spalle.
«Prima di tutto, la porti in radiologia», ordinò Stavely.
L'uomo cambiò direzione e s'incamminò verso una porta chiusa su un lato del laboratorio. Reacher fece un passo avanti e gliela aprì. Ebbe la sensazione che pesasse una tonnellata.
«Rivestita di piombo», spiegò il patologo. «Lì dentro, li bombardiamo per bene. Dosi molto, molto elevate, in modo da poter vedere tutto ciò che vogliamo vedere. Non che dobbiamo preoccuparci per la loro salute a lungo termine, non le pare?» Il tecnico sparì per un momento, poi tornò nel laboratorio e chiuse dietro di sé la pesante porta. Si sentì un ronzio remoto e potente che durò un secondo. L'uomo tornò nella stanza schermata e ne uscì spingendo il lettino, che continuava a lasciare sul pavimento due tracce verdi parallele. Il tecnico posizionò il lettino accanto al tavolo settorio.
«La sposti. La voglio a faccia ingiù», disse il patologo.
Il tecnico lo superò e si chinò sul tavolo, poi afferrò il bordo più vicino del sacco con entrambe le mani e lo sollevò in parte dal lettino per spostarlo sul tavolo. Poi si portò dall'altro lato, prese l'altro bordo e ripeté la procedura. Il sacco piombò sul tavolo, la cerniera verso il basso, e la massa al suo interno creò vari risucchi, rotolò e vacillò. Stavely la guardò, poi guardò il pavimento, segnato da un reticolo di tracce verdi.
«Soprascarpe, ragazzi», si raccomandò. «Finirà dappertutto.» Si allontanarono dal tavolo e l'agente Harper trovò alcune paia di soprascarpe di plastica in un armadietto, e le passò agli altri. Jack s'infilò le sue, arretrò e osservò la vernice. Filtrava dalla chiusura lampo come un'onda lenta e spessa.
«Ora la radiografia», ordinò il patologo.
Il tecnico entrò di nuovo nella stanza schermata e ne uscì con grandi lastre quadrate che raffiguravano il corpo di Alison Lamarr. Le porse a Stavely, che le valutò e le osservò alla luce delle lampade.
«Istantanee», commentò. «Come le Polaroid. I benefici del progresso scientifico.» Le mescolò come un giocatore, poi ne prese una e la sollevò. Un attimo dopo si spostò verso un visore per radiografie sul muro, premette l'interruttore e tenne la lastra alla luce con le grosse dita aperte.
«Guardate qua!» esclamò.
Era una fotografia della sezione intermedia del cadavere, dall'estremità inferiore dello sterno all'area sopra il pube. Reacher individuò i contorni delle ossa, d'un grigio spettrale: coste, colonna vertebrale, pelvi, un avambraccio e una mano posati su di essa, ad angolo. C'era anche un'altra sagoma, densa e tanto chiara da apparire d'un bianco intenso. Un oggetto metallico, sottile e appuntito, lungo quanto la mano.
«Un arnese di qualche tipo», commentò il patologo.
«Le altre non avevano niente del genere», dichiarò Poulton.
«Dottore, dobbiamo vederlo subito. È importante», si affrettò a dire Blake.
Stavely scosse il capo. «Adesso sta sotto il corpo, perché è capovolta. Ci arriveremo, ma non subito.»
«Quanto ci vorrà?»
«Il tempo necessario», replicò il patologo. «Sarà un caso più che mai complesso.» Appese le lastre grigie in ordine sul visore, poi le passò in rassegna, studiandole.
«Lo scheletro è relativamente integro», osservò. Poi, indicando la seconda lastra, aggiunse: «Il polso sinistro si è fratturato e ricomposto, probabilmente una decina d'anni fa».
«Praticava sport», intervenne Reacher. «Ce l'ha detto la sorella.» Stavely annuì. «Controlleremo le clavicole.» Si spostò a sinistra ed esaminò la prima lastra, che mostrava cranio, collo e spalle. Le clavicole rilucevano, curve in direzione dello sterno.
«Una lieve frattura», indicò il medico col dito. «È quello che supponevo.
Un atleta con un polso fratturato ha anche una clavicola fratturata. Cadono con la bici o i rollerblade, o in altro modo, protendono il braccio per attutire il colpo e finiscono per rompersi le ossa.»
«Nessuna lesione recente?» chiese Blake.
Il medico scosse la testa. «Queste avranno una decina d'anni, forse più.
Non è stata uccisa da un trauma chiuso, se è questo quello che intende.» Schiacciò l'interruttore e la luce dietro le radiografie si spense. Il patologo tornò quindi al tavolo settorio, si rimise i guanti, e le sue nocche crocchiarono nel silenzio.
«Bene. Diamoci da fare», disse con enfasi.
Tirò un tubo flessibile avvolto su un supporto fissato al soffitto e aprì un piccolo rubinetto inserito nell'ugello. Si udì un sibilo, e un liquido chiaro iniziò a fuoriuscire. Un liquido denso, lento, dall'odore forte, pungente.
«Acetone», spiegò il medico. «Dobbiamo rimuovere questa dannata vernice.» Spruzzò l'acetone sul sacco salma e sul tavolo d'acciaio. Il tecnico dovette usare non pochi tovaglioli di carta per pulire il sacco e spingere il liquido viscoso nello scarico. Il suo odore chimico era penetrante.
«Ventilatore.» Il tecnico si chinò e girò un interruttore posto dietro di lui, e il ronzio dei ventilatori sul soffitto si tramutò in un forte rombo. Stavely avvicinò l'ugello e il sacco, da verde qual era, cominciò a diventare di colore nero. Poi diresse il getto, tenendolo basso, sul tavolo, e con movimenti circolari sciacquò la parte sottostante il sacco, spingendo la vernice nello scarico.
«Bene, forbici», ordinò.
Il tecnico prese le forbici da un carrello e tagliò un angolo del sacco. Un fiotto di vernice verde si riversò all'esterno. Il getto di acetone la intercettò e la indirizzò, con alcuni gorghi, verso lo scarico. Ma la vernice continuò a fuoriuscire per due, tre, cinque minuti. Via via che si svuotava, il sacco si rimpiccioliva e si afflosciava. La sala si fece più silenziosa finché non si udirono solo il rombo dei ventilatori e il sibilo del flessibile.
«Bene, qui inizia il divertimento», annunciò Stavely.
Porse il tubo al tecnico e col bisturi tagliò il sacco longitudinalmente, da un capo all'altro. Praticò alcuni tagli laterali in alto e in basso, poi tirò lentamente la gomma, come fosse la buccia di un frutto. Essa si sollevò e con un risucchio si staccò dalla cute. Il medico la ripiegò, formando due grossi lembi. Sotto apparve il corpo di Alison Lamarr, a faccia ingiù, viscido e lucente di vernice.
Stavely tagliò col bisturi la gomma attorno ai piedi, poi risalì lungo le gambe, la curva dei fianchi, i gomiti, le spalle e infine la testa. Staccò le strisce finché del sacco non rimase che la parte anteriore, intrappolata tra la crosta di vernice e l'acciaio del tavolo.
La crosta era a contatto col tavolo, perché il corpo era rovesciato. La parte inferiore era gelificata e piena di bolle, tanto che ricordava la superficie di un pianeta lontano, alieno. Il patologo cominciò a sollevarne i bordi, che aderivano alla pelle.
«Non la danneggerà?» chiese Blake.
Stavely scosse il capo. «È come togliere lo smalto per unghie col solvente.» Là dove la vernice si distaccava, la cute della donna appariva bianco-verdastra. Con le dita protette dal guanto, il medico tolse la crosta e, grazie alla forza delle mani, spostò il corpo, che si sollevò e ricadde, flaccido. Il patologo v'infilò sotto il flessibile, sondando alla ricerca di eventuali aderenze, mentre il tecnico al suo fianco sollevava le gambe della donna morta. Stavely si protese al di sotto di esse e rimosse crosta e gomma insieme, fino alle cosce. L'acetone scorreva continuamente, trascinando con sé nello scarico un rivolo verde.
Il patologo si portò quindi all'altezza della testa, posizionò il flessibile sulla nuca e osservò l'acetone riversarsi sui capelli. Erano ridotti in uno stato pietoso, opachi e incrostati di vernice. Si erano gonfiati e le avevano incorniciato il volto, come una specie di gabbia intricata.
«Dovrò tagliarli», dichiarò Stavely.
Blake annuì, cupo. «Suppongo di sì.»
«Aveva dei bei capelli», osservò la Harper, la voce pacata sovrastata dal rumore dei ventilatori. Poi fece un mezzo giro e si allontanò di un passo.
Con la spalla toccò il petto di Reacher, e rimase in quella posizione un secondo di più di quello che avrebbe dovuto.
Il patologo prese un bisturi nuovo dal carrello e lo passò tra i capelli, il più vicino possibile alla crosta di vernice. Poi infilò un braccio possente sotto le spalle della defunta e la sollevò. La testa si alzò, lasciando sul tavolo una massa di capelli impastati di vernice, simili a un groviglio di mangrovie in una palude. Il medico penetrò nella crosta e nella gomma, e ne liberò un'altra parte.
«Mi auguro lo prendiate», sibilò.
«È nostra intenzione», replicò Blake, sempre molto cupo.
«La giri», disse Stavely rivolto al tecnico.
Il corpo si mosse facilmente. L'acetone mescolato alla vernice vischiosa fungeva da lubrificante sulla superficie incavata del tavolo. Alison scivolò a faccia insù e lì rimase, spettrale sotto le luci, la pelle bianco-verdastra, raggrinzita, macchiata e chiazzata di vernice. Aveva gli occhi spalancati, le palpebre orlate di verde. L'ultimo rettangolo del sacco salma le aderiva alla pelle dal seno alle cosce e, come una specie di antiquato costume da bagno, pareva proteggerle le pudende.
Stavely sondò con la mano e sotto la gomma localizzò lo strumento metallico. Tagliò il sacco, v'infilò una mano ed estrasse l'oggetto come in una grottesca parodia di un intervento chirurgico.
«Un cacciavite», spiegò.
Il tecnico lo lavò in un bagno di acetone, poi lo sollevò. Era un utensile di qualità, munito di un manico pesante di plastica e di un bel fusto d'acciaio cromato, con una lama affilata.
«È come gli altri nel cassetto di cucina, ricordate?» commentò Reacher.
«Ha dei graffi sul volto», esclamò all'improvviso Stavely.
Con il flessibile le stava lavando il viso. La guancia sinistra presentava quattro incisioni parallele, dall'occhio alla mandibola.
«Li aveva quando l'avete incontrata?» domandò Blake.
«No», risposero all'unisono Lisa e Jack.
«Che cosa possiamo concludere?» chiese ancora Blake.
«Era destrimana?» domandò Stavely.
«Non lo so», rispose Poulton.
La Harper, pensierosa, mormorò: «Credo di sì».
Reacher chiuse gli occhi e rievocò la scena nella cucina, la rivide mentre versava il caffè. «Destrimana», ribadì.
«Corrisponde», asserì il patologo, che le stava intanto esaminando mani e braccia. «La sua mano destra è più grande della sinistra, e il braccio è più pesante.» Blake si chinò a osservarne il volto deturpato. «Allora?»
«Credo siano auto inflitte», rispose il medico.
«Ne è certo?» Stavely girò attorno al tavolo, alla ricerca della luce migliore. Le ferite apparivano gonfie per la vernice, infiammate e aperte. Verdi, là dove avrebbero dovuto essere rosse.
«Non ne sono certo», rispose il patologo. «Lei lo sa bene, ma ci sono buone probabilità che lo siano. Se fossero opera dell'assassino, quali probabilità ci sarebbero che le abbia praticate nel solo punto in cui lei stessa era in grado di farsele?»
«L'ha costretta», osservò Jack.
«Come?» chiese Blake.
«Non lo so. Ma riesce a indurle a fare un sacco di cose. Credo le obblighi a versare con le loro mani la vernice nella vasca.»
«Perché?»
«Il cacciavite. È per aprire le latte. I tagli sono un'idea successiva. Se ci avesse pensato fin dall'inizio, le avrebbe obbligate a prendere un coltello dalla cucina al posto del cacciavite. O insieme col cacciavite.» Blake fissò la parete. «Dove si trovano ora le latte?»
«Sezione analisi dei materiali», rispose Poulton. «Proprio qui. Le stanno esaminando.»
«Allora porti anche il cacciavite. Che controllino se i graffi corrispondono.» Il tecnico lo infilò in un sacchetto di plastica trasparente per reperti, dopodiché Poulton si tolse camice e soprascarpe, e corse fuori della sala.
«Ma perché? Perché l'ha obbligata a graffiarsi in quel modo?» domandò Blake.
«Rabbia?» suggerì Reacher. «Punizione? Umiliazione? Mi chiedo sempre perché non sia più violento.»
«Sono ferite molto superficiali», fece notare Stavely. «Suppongo abbiano sanguinato un po', ma non le hanno fatto molto male. La profondità è assolutamente costante, per tutta la lunghezza. Perciò lei non è trasalita.»
«Forse è un rituale», azzardò Blake. «Un simbolo di qualche tipo. Quattro linee parallele hanno qualche significato?» Reacher scosse la testa. «Non per me.»
«Come l'ha uccisa?» chiese Blake. «Questo ci serve sapere.»
«Forse l'ha pugnalata col cacciavite», ipotizzò la Harper.
«Non ci sono segni», replicò il patologo. «Nessuna ferita da perforazione visibile in nessun organo vitale.» Aveva rimosso l'ultima sezione del sacco salma e stava asportando la vernice dalla parte centrale del corpo, sondando con le dita inguantate sotto il getto di acetone. Il tecnico sollevò il rettangolo di gomma, e Alison rimase nuda sotto le luci, abbandonata, flaccida, assolutamente inerte. Reacher la fissò e si ricordò di quella donna brillante e piena di vita, che sorrideva con gli occhi e irradiava energia come un piccolo sole.
«È possibile ammazzare qualcuno senza che un patologo scopra come?» domandò.
Stavely scosse il capo. «Non qui», rispose.
Chiuse il getto di acetone e lasciò che il flessibile si riavvolgesse al supporto appeso al soffitto. Poi fece un passo indietro e ridusse la velocità dei ventilatori. La stanza ripiombò nel silenzio. Il corpo era steso sul tavolo, pulito come meglio non si sarebbe potuto fare. I pori e le pieghe cutanei erano macchiati di verde, e la pelle era bianca e bitorzoluta, come quella di una creatura degli abissi. I capelli erano a ciocche, appuntiti, imbrattati dai residui di vernice, grossolanamente tagliati attorno al cuoio capelluto, a incorniciare il volto di una defunta.
«Ci sono sostanzialmente due modi per uccidere una persona», dichiarò il medico. «O arresti il cuore o arresti il flusso dell'ossigeno al cervello.
Ma fare una delle due cose senza lasciare traccia è un trucco di grande abilità.»
«Come si potrebbe arrestare il cuore?» domandò Blake.
«Oltre che con un proiettile?» domandò a sua volta Stavely. «Un embolo gassoso sarebbe il modo migliore. Una grossa bolla d'aria, iniettata direttamente nel flusso ematico. Il sangue circola in modo incredibilmente veloce, e una bolla d'aria colpisce l'interno di un cuore come un sasso, come un piccolo proiettile. Lo shock di solito è letale. Per questo le infermiere sollevano le siringhe ipodermiche, fanno fuoriuscire un po' di liquido dall'ago e poi le picchiettano con le unghie: per essere certe che nella miscela non vi sia aria.»
«Un foro di ago ipodermico si vedrebbe, giusto?»
«Forse sì e forse no. Di certo non su un cadavere come questo. La pelle è rovinata dalla vernice. Tuttavia si vedrebbe il danno interno al cuore. Naturalmente controllerò, quando la aprirò, ma non sono ottimista. Sulle altre tre non è stato trovato nulla di simile. E in questo caso presumiamo che il modus operandi sia invariato, giusto?» Blake annuì. «Che mi dice dell'ossigeno al cervello?»
«In parole povere, si dovrebbe soffocare una persona», spiegò Stavely.
«Lo si può fare senza lasciare tracce molto evidenti. Il caso classico è quello di un anziano, debole e deperito, ucciso premendogli un cuscino sulla faccia. Pressoché impossibile da dimostrare. Ma qui non si tratta di un individuo anziano. Questa donna era giovane e forte.» Jack era d'accordo. Aveva soffocato un uomo, una volta, nella sua lunga e movimentata carriera: aveva avuto bisogno di tutte le sue immani forze per tenerlo premuto a faccia ingiù contro un materasso mentre la vittima si dimenava e infine moriva. «Avrebbe lottato come una furia», osservò.
«Sì, penso proprio di sì», ammise Stavely. «Guardatela, guardate i suoi muscoli: non era un fuscello.» Reacher invece distolse lo sguardo.
La sala era silenziosa e fredda, e l'orrenda vernice verde si era ormai insinuata dappertutto.
«Penso fosse viva», affermò Jack. «Quand'è entrata nella vasca.»
«Motivo?» domandò il patologo.
«Non c'era niente in disordine», spiegò lui. «Niente di niente. Il bagno era immacolato. Quanto pesava: cinquantacinque, cinquantasette chili? Un bel peso da gettare nella vasca senza sporcare tutt'attorno.»
«Forse, la vernice l'ha versata dopo», suggerì Blake. «Sopra il corpo.» Jack scosse la testa. «L'avrebbe sollevato, sicuramente. Sembra proprio che lei vi si sia infilata dentro, come se facesse un bagno. Sa, prima un piede, poi l'altro, poi tutto il corpo.»
«Dovremmo verificare», osservò il medico. «Ma credo sia morta nella vasca. Sulle prime tre non c'erano segni di aggressione. Nessun livido, nessuna abrasione, nulla di nulla. Nessuna lesione post-mortem. Spostando un cadavere, si causano spesso danni ai legamenti articolari, perché non c'è la contrazione muscolare a proteggerli. A questo punto, ipotizzo che le donne abbiano fatto ciò che hanno fatto di loro volontà.»
«Non uccidersi, però», osservò la Harper.
Stavely assentì. «Il suicidio in vasca avviene in genere per annegamento in seguito all'ingestione di alcol o droga, o per taglio delle vene nell'acqua calda.»
«E loro non sono annegate», commentò Lisa.
Il patologo annuì ancora. «Le prime tre, no. Nessun liquido di nessun tipo nei polmoni. Verificheremo in questo caso, non appena l'avrò aperta, ma scommetto che non è così.»
«Ma allora come diavolo fa?» esclamò Blake.
«Ora come ora non ne ho idea», rispose il medico. «Mi dia un paio d'ore, forse tre, e potrei scoprire qualcosa.»
«Non ha proprio nessuna idea?»
«Be', ne avevo una, basata su ciò che ho letto sulle altre tre», ammise Stavely. «Il problema è che ora la ritengo assurda.»
«Quale teoria?» Il patologo scosse il capo. «Dopo, va bene? E ora mi dovete lasciare. Sto per aprirla e non voglio che assistiate. In un momento simile, lei ha diritto a un po' di privacy.»