Capitolo 39
Emma
Alla visita di controllo, in ospedale, mi sottopongono a una serie di test.
Seduta nell’anticamera dell’ambulatorio, con Oscar al mio fianco, aspetto che mi chiamino. Lui non è voluto restare a casa e sono contenta che sia qui con me.
Sono nervosa per le notizie che mi darà il dottore. Una parte di me vorrebbe che ci fosse anche James, l’altra è felice che non ci sia. Mi ha salvata quando ero più vulnerabile e voglio che sappia quali sono le mie condizioni di salute. Se tra di noi le cose evolveranno, deve sapere come sto realmente. Ma ho bisogno di tempo per accettarlo io stessa, e quando sarò pronta, glielo dirò con parole mie.
La porta si apre ed entra una dottoressa inglese con i capelli rossi e un sorriso gentile. Il suo nome è Natasha Richards, è il medico che mi ha seguita in ospedale e mi fido di lei.
«Ciao, Emma».
«Salve».
Scosta lo sgabello dal muro e si siede di fronte a me, con gli occhi alla stessa altezza dei miei e le mani incrociate sul grembo.
«Ho visto la tua cartella e sono davvero impressionata dai tuoi progressi».
«Bene. Cosa dicono le analisi?».
Lei digita sul tablet e controlla i risultati del laboratorio. Il suo tono ora è meno entusiasta.
«Be’… la massa muscolare è migliorata…».
Sento in arrivo un ma e decido di risparmiarle l’imbarazzo.
«E la brutta notizia?», chiedo.
«La brutta notizia», dice con voce esitante «è che la densità ossea è ancora troppo bassa».
«Capisco».
«L’osteoporosi è una malattia che non perdona. Quando si comincia a perdere densità ossea è difficile recuperarla».
«Cosa sta cercando di dirmi?»
«Devi ridurre le tue aspettative, Emma. Hai vissuto un’esperienza straordinaria, alla quale pochi sarebbero sopravvissuti. E so che tu e Oscar avete lavorato duramente per riabilitare il tuo corpo».
«Quali dovrebbero essere le mie aspettative?»
«Temo che dovrai usare un deambulatore per il resto della tua vita. Potresti non recuperare mai più i tuoi livelli energetici. Le fatiche che hai sopportato, i dolori, le emicranie e i crampi hanno lasciato il segno. Il massimo che puoi sperare è un leggero miglioramento nel corso del tempo».
Le sue parole sono come martellate al petto, come una condanna a morte inflitta a un innocente, sommarie, ingiuste. Voglio camminare ancora ed essere libera. Mi sono impegnata a fondo, non posso accettare questa realtà per il resto della mia vita.
La dottoressa Richards si accorge della mia delusione. Si china su di me e mi prende la mano. «Sembra peggio di quanto non lo sia, Emma. Adesso può sembrarti terribile, ma ti abituerai ai limiti del tuo corpo. Tutti dobbiamo farlo. So che per te è particolarmente difficile. Ho guardato i tuoi esami di laboratorio prima che partissi per la Stazione spaziale internazionale. Eri il ritratto della salute. E so quanto hai sgobbato per farti ingaggiare. Immagino che farai lo stesso per rimetterti in forma. Devi soltanto tenere a mente che più di tanto non potrai fare. Non dovrai affaticarti troppo e soprattutto non dovrai essere troppo severa con te stessa quando le tue performance saranno al di sotto delle tue aspettative. Gestire le tue aspettative è il compito più importante che ti aspetta nei prossimi mesi».
Oscar e io torniamo a casa in silenzio. All’improvviso penso a Harry, Grigorij, Min, Lina, Charlotte e Izumi. Sono l l’unico motivo per cui sono tornata sulla Terra. Se sono viva, è grazie al loro sacrificio. Mi mancano. Non riesco a fare a meno di pensare a loro. Dovrei essere grata di essere viva, grata di non essere in condizioni peggiori. È merito loro. Vorrei poterli ripagare in qualche modo. E devo a James molto più di quello che potrei mai dargli.
Superiamo la baracca dove vivono suo fratello e la sua famiglia. Tutt’a un tratto mi viene un’idea. Ho bisogno di qualcosa di bello, e lo farò accadere.
Quando torna a casa, James è sfinito. Non l’ho mai visto così stanco nemmeno sulla Pax, durante le infinite ore di stress della missione.
«Cosa è successo?».
Si lascia cadere sul divano e scuote la testa.
«Raffiche di domande. Un dibattito interminabile. E io in piedi davanti a tutta quella gente che cercavo di spiegare una situazione talmente complessa che nemmeno io riesco ad afferrare. È stato terribile».
«Sono sicura che volevano soltanto capire per poi prendere la decisione migliore per le persone che hanno a cuore».
«O per se stessi».
«E per se stessi».
«Onestamente, non so come andrà a finire».
«Tu cosa ne pensi?»
«Vedo due possibilità. La prima è che autorizzino la missione, dando una reale possibilità di sopravvivere agli esseri umani rimasti. La seconda è che decidano che non c’è alcuna speranza e ci neghino l’autorizzazione».
«Il che significherebbe?»
«L’Unione atlantica è l’unica delle tre superpotenze a conoscere la realtà della situazione. Le risorse e i luoghi abitabili sulla Terra sono ormai ridotti. Potrebbero agire per primi».
«Facendo cosa?»
«Finire la guerra che ora è in stallo. Potrebbero attaccare il Trattato del Caspio, siglare un accordo di pace con la Pac finché non consolidano i territori caspici e poi attaccare anche lei».
«A meno che la Pac non fiuti qualcosa e dichiari guerra per prima».
Faccio un sospiro. Come al solito, James ha capito tutti i risvolti della situazione prima di me, e probabilmente prima di chiunque altro.
«Cosa possiamo fare?»
«Adesso? Nulla. Dobbiamo aspettare».
Forse non c’è nulla che possiamo fare.
Ma c’e ancora qualcosa che io ho bisogno di fare.
Dopo cena vado in camera, indosso uno spesso giaccone, stivali e guanti di pelle, e poi mi dirigo verso la porta. Mentre mi metto il cappello con i paraorecchie e la sciarpa, arriva James.
«Dove vai?»
«A trovare Madison», mento, sforzandomi di non far tremare la voce.
«Adesso?», chiede lui strizzando gli occhi.
«Certo».
«Ma si gela là fuori».
«Fa sempre freddo».
Mi studia con lo sguardo.
Mi stringo nelle spalle. «Ho bisogno di un po’ d’aria fresca».
«Cosa ti ha detto oggi la dottoressa?»
«Che sto facendo progressi». Fin qui è vero. Tecnicamente non è una bugia.
James è perplesso, ma alla fine si arrende.
«Okay». Si volta verso Oscar, che sta lavando i piatti in cucina. «Oscar, va’ con lei».
«Sì signore», risponde mite Oscar.
«Non ce n’è bisogno, me la cavo da sola».
«È meglio che ti accompagni Oscar».
«James…».
«No, Emma, le tue ossa sono ancora fragili e sottili. Se una raffica di vento ti facesse cadere, ti spezzeresti una mezza dozzina di ossa e resteresti là fuori al buio tutta la notte. Non ne vale la pena».
Non ho nulla da obiettare su questo. E non lo faccio.
Oscar non mi chiede dove stiamo andando. E non sembra preoccuparsi del freddo o della lentezza dei miei passi.
Di notte il campo ha un suo fascino. Le cupole bianche risplendono nel buio circostante come caterpillar luminescenti sepolti nella sabbia. Lungo il sentiero, i lampioni a LED illuminano le bufere di neve che si succedono a distanza di qualche ora, ricordandoci che il Lungo Inverno non è ancora finito e che sta aspettando di seppellirci.
Davanti alla casa di Fowler mi tolgo la neve dal giaccone e busso alla porta. Lui apre subito. La sua faccia è scavata come quella di James.
«Emma», dice sorpreso. «Entri, entri».
Oscar mi segue all’interno. Mi toglie il giaccone e la sciarpa e li appende mentre Fowler mi fa strada nel suo alloggio, che è poco più grande del nostro. Una donna all’incirca della sua età si alza dal tavolo al quale è seduta con due ragazzi in età da college.
«Lawrence, non mi hai detto che avremmo avuto compagnia».
Fowler apre la bocca, ma io lo anticipo.
«No, signora, è una sorta di visita a sorpresa».
«Una bella sorpresa», dice Fowler. «Emma, questa è mia moglie Marianne».
«È un piacere conoscerla, Marianne».
«Ha mangiato?»
«Sì, grazie, sono solo venuta a chiedere una cosa a Lawrence. Ci vorrà solo un momento».
Lui mi guarda incuriosito e indica uno studio in un angolo del soggiorno. Il tavolo è coperto di carte come quello di James, ma è più ordinato. Oscar ci raggiunge, non c’è motivo di farlo restare fuori. Dovrò soltanto raccomandare anche a lui, oltre che a Fowler, la massima segretezza.
«Cosa ha in mente, Emma?», mi chiede Fowler sedendosi accanto a me.
«James. La sua famiglia. Sono qui, in una delle baracche».
«Lo so. L’unica richiesta che ha fatto James quando è stato reclutato per la prima missione di contatto è stata la loro sicurezza. Come lei, ha chiesto che il suo unico fratello fosse trasferito in un luogo sicuro».
«Cosa sa del rapporto di James con il fratello?»
«Non molto. James è andato a trovarlo prima di partire sulla Pax e il fratello non era in casa. Ho avuto l’impressione che la cognata non volesse vederlo. Non l’ha lasciato entrare in casa».
«Perché?»
«Non lo so».
«Vorrei chiederle un favore».
«Qualsiasi cosa potrò fare per lei la farò».
«So che James vorrebbe contattare suo fratello e ho deciso di aiutarlo. Ho visto che oggi hanno liberato l’alloggio vicino al nostro».
Fowler mi studia per un istante. «Sì, dopo la nostra presentazione il generale che abitava lì è stato trasferito, nel caso… fosse presa una certa decisione. Comunque, quell’alloggio sarà presto disponibile».
«Può assegnarlo al fratello di James e alla sua famiglia?».
Fowler riflette un secondo. «Sì, credo di sì».
«Quanto ci vorrebbe?»
«Per avere una risposta? Non molto. Domani mattina glielo saprò dire».
Sono a metà degli esercizi mattutini quando arriva il messaggio. Appena lo leggo traggo un sospiro di sollievo.
Assegnazione approvata.
Uscendo dall’alloggio di Fowler, ho fatto giurare a Oscar di non rivelare a James quello che ha sentito. Lui ha annuito senza fare domande. Mi sembra tuttavia di tradire James non dicendogli quello che sto facendo. Ma sono convinta che sia per il suo bene. La mia riabilitazione qui al Campo 7 è stata fisica, la sua grande ferita è invece il rapporto con il fratello. James mi ha salvato la vita. E mi ha aiutata a rimettermi in forze. Devo farlo per lui. E deve restare un segreto.
C’è un’ultima cosa che devo chiarire.
Quando in ospedale mi sono collegata la prima volta ad AtlanticNet, ho pensato che fosse soltanto l’inizio di una rete di informazioni e che il governo avrebbe caricato altri dati. Ma mi sono sbagliata. È uno strumento molto rudimentale, usato soprattutto per gestire la vita nel campo. Contiene orari di lavoro, mansionari e notizie che il governo reputa importanti. E, naturalmente, direttive che tutti sono tenuti a seguire. Per fortuna c’è anche un elenco dei residenti, fondamentale per ricollocare le famiglie e trovarle.
Ci sono quattro Sinclair, e soltanto uno di loro vive nella baracca che mi ha mostrato James: Alex Sinclair. La moglie si chiama Abigail, il figlio Jack e la figlia Sarah. Abitano nella Stanza 54.
Mi faccio una rapida doccia, mi vesto e, quando entro in soggiorno, Oscar è seduto sul divano, chino sul tablet.
«Oscar, devo fare un’altra commissione».
«D’accordo».
«E ho bisogno che non ne parli con nessuno, come per l’incontro con Fowler».
«D’accordo».
Non sono mai entrata in una baracca. Non è come me l’aspettavo.
L’atmosfera sembra quella di una casa di riposo. C’è un lungo corridoio con gente seduta fuori dalle stanze. Per la gran parte sono troppo giovani o troppo vecchi per lavorare. I bambini giocano, chiacchierano o fissano i tablet, guardando i pochi video disponibili su AtlanticNet.
Si era parlato di istituire delle scuole, ma sospetto che non sia una priorità. All’ordine del giorno c’è la sopravvivenza. Tutti i residenti di sana e robusta costituzione stanno lavorando per sostenere il campo e la prossima missione della NASA. È quello che farei anche io se fossi in condizioni migliori.
La porta della Stanza 54 è chiusa. È bianca e spessa, di un materiale sintetico che sembra vetroresina.
Busso e la porta si apre scricchiolando. Davanti a me c’è una donna bionda con gli occhi cerchiati di nero, come se non dormisse da tempo.
Mi appoggio al bastone, con Oscar al mio fianco, chiedendomi come cominciare.
«Ha bisogno di aiuto?», mi chiede con aria sospettosa.
«Salve. Il mio nome è Emma Matthews».
«Piacere, Abby Sinclair. Di cosa si tratta?»
«Sono un’amica di suo cognato».
«James?». La sua espressione si indurisce.
«Sì».
«Cosa vuole?»
«Vorrei parlarle».
«Di James?».
Evito di cadere nella sua trappola e ci giro intorno.
«Vorrei proporle di trasferirsi insieme alla sua famiglia in un alloggio più confortevole».
Lei strizza gli occhi, studiandomi. Alla fine spalanca la porta e mi fa cenno di entrare.
La famiglia Sinclair vive in uno spazio di sei metri per nove con due letti addossati alla parete, un piccolo tavolo, un bagno e un’area soggiorno. Il loro figlio Jack deve avere sette o otto anni. La figlia sembra averne due di meno. Seduti al tavolo, digitano sui tablet. È triste vedere come questi bambini, al pari di molti altri, trascorrono le loro giornate al campo.
«Jack», dice Abby «porta tua sorella in soggiorno e finite i compiti. Niente giochi né video».
I figli spostano le sedie un paio di metri più in là, in quello che immagino sia il soggiorno.
Abby mi indica il tavolo e ci sediamo. Oscar resta accanto alla porta, visibilmente a disagio. Abby gli lancia uno sguardo torvo, come se lo conoscesse e non le piacesse.
«Su AtlanticNet ci sono anche lezioni scolastiche?», domando cercando di mantenere un tono amichevole.
Abby annuisce bruscamente. «C’è un curriculum condiviso».
«È utile?»
«È tutto quello che abbiamo».
«Cerchiamo tutti di cavarcela con quello che abbiamo», rispondo in tono pacato. «È per questo che la famiglia è più importante che mai».
«Dipende però da come ti tratta la famiglia, non crede?».
Non sta andando bene.
«Certo», rispondo. «E quando si fa qualcosa per la famiglia, è importante che loro ne siano a conoscenza. Così possono sapere quanto bene gli vogliamo».
«Cosa intende dire?»
«Sto dicendo che è grazie a James che lei e la sua famiglia siete qui».
Cala il silenzio.
«Mi lasci indovinare», le dico. «Gli uomini del governo sono venuti a casa sua per dirle che sareste stati trasferiti in una delle zone abitabili del pianeta, salvati dalla guerra, e lei non ha chiesto perché?».
Abby scuote la testa. «No, non gliel’ho chiesto».
«Lo vuole sapere?»
«È venuta qui per dirmelo, vero?»
«Non solo. Ma il resto non dovrà rivelarlo a nessuno, per la sua stessa sicurezza. Quello che sto per dirle è ancora considerato top secret».
Le mie parole catturano la sua attenzione. Lancia un’occhiata ai figli. «Bambini, mettetevi le cuffie, subito», dice.
Poso le mani sul tavolo e intreccio le dita. «Voglio molto bene a James. Non so cosa sia successo tra di voi, o tra lui e suo fratello, e nemmeno perché è finito in prigione. Ma ho imparato a conoscerlo bene, e so che è una bravissima persona».
Abby mi fissa senza dire nulla.
«Ecco quello che non è stato reso pubblico: il Lungo Inverno non è un fenomeno naturale. La Terra si sta raffreddando perché ci sono degli oggetti alieni che stanno deliberatamente bloccando l’emissione dei raggi solari che dovrebbero raggiungere la Terra. James ha partecipato a una missione che doveva indagare su questi oggetti. Le sue competenze robotiche erano fondamentali per la costruzione dei droni che hanno scoperto cosa sono e perché sono lì. Anche io ho partecipato a quella missione». Faccio una pausa. «Ieri il responsabile della missione mi ha detto che in cambio della sua partecipazione, James ha chiesto soltanto una cosa: che voi foste trasferiti in un luogo sicuro».
Abby posa le mani sul tavolo e le fissa come se la risposta fosse tra le loro rughe.
«Se Alex l’avesse saputo», dice scuotendo la testa, «forse non sarebbe voluto venire qui e saremmo sepolti sotto due metri di neve».
«James può essere altrettanto testardo», dico avvicinandomi a lei. «È un motivo in più perché in questo momento le famiglie restino unite. Affinché la voce della ragione possa avere la meglio sui vecchi rancori. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro. E so che lui vi vuole molto bene».
Abby si guarda attorno nella piccola stanza dove vivono in quattro. «Ha menzionato un nuovo alloggio?»
«Sì, vicino a quello che condivido con James e Oscar».
Quando sente il nome di Oscar sogghigna e guarda nella sua direzione. Sì, lo conosce.
«E cosa ci chiederanno in cambio?»
«Niente. James vuole assicurarvi il meglio. E sa che se scopriste che è stato lui a procurarvelo, non lo accettereste. Così l’ho fatto io al posto suo. È vostro. Senza obblighi. Potete trasferirvi quando volete».
«Grazie», dice lei sottovoce.
«Vi chiedo soltanto una cosa. Non è un requisito, soltanto una richiesta».
«E quale sarebbe?»
«Che veniate a trovare James. Se Alex non vuole venire, venga lei, con o senza i figli. Tutto qui».