Capitolo 12

James

Per un lungo istante mi aspetto che Larson svenga. Sbianca in viso, barcolla, si appoggia con un braccio alla parete del furgone e si guarda attorno come se sentisse delle voci.

Mentre lui cerca di raccapezzarsi io mi interrogo su un altro mistero: perché sono qui?

Al college ho studiato biologia e ingegneria meccanica. E lo stesso giorno in cui mi sono laureato in medicina ho ottenuto un dottorato di ricerca in ingegneria biomedica. Ma non ho mai fatto un internato e non ho mai praticato la professione medica. Mi sono messo a costruire cose. Qualche anno fa ho costruito qualcosa che mi ha fatto finire qui, in prigione, deprecato dall’intera razza umana. E per uno strano scherzo del destino, adesso che l’umanità sta rischiando l’estinzione, mi hanno convocato. Probabilmente perché vogliono farmi costruire qualcosa.

Fowler mi sta fissando. Dopo il mio scambio di battute con Larson, il direttore della NASA è rimasto in silenzio.

«Volete che costruisca qualcosa?»

«Forse», risponde quasi con un sussurro.

«Ma prima di decidere cosa fare vi servono più dati».

«Per l’appunto».

«Volete andare lassù, vero?»

«Ci andrà lei, James. Lei insieme ai nostri uomini migliori».

«Volete che scopra di cosa si tratta, di cosa è fatto, quali sono le sue capacità e i suoi punti deboli, volete sapere come fermarlo».

«È questa la missione».

Mi gira la testa. «Quando? Qual è il piano?»

«Il lancio è tra meno di trenta ore».

«State scherzando? Aspettate. Dite sul serio? Volete lanciarmi nello spazio tra trenta ore?»

«Sì. Sarà rapidamente istruito su tutti gli aspetti della missione. Dovrà concentrarsi su quell’oggetto non identificato. Stiamo pianificando questa missione da tempo. Ma non sapevamo dove andare né cosa cercare».

Mi sforzo di immaginare i particolari, le infinite domande che voglio fare.

La prima è la più urgente. «E se quella cosa che ha messo fuori uso la stazione spaziale farà lo stesso con noi appena lasciamo l’atmosfera?»

«È un’ipotesi che abbiamo preso in considerazione». Fowler preme un tasto e sullo schermo del suo computer appare una simulazione che mostra dei razzi lanciati da quattro punti diversi della Terra. Poi un secondo gruppo di razzi. Un terzo, un quarto, un quinto. Conto sette lanci in tutto, ventotto cariche. La simulazione mostra le testate che si staccano dai razzi e cercano di manovrare a varie altitudini dell’orbita terrestre, ma una forza invisibile le spazza via come polvere al vento e vanno alla deriva nello spazio mentre la Terra continua a orbitare attorno al Sole.

La Terra diventa sempre più piccola e la simulazione si focalizza sulle testate, che si avvicinano e si collegano l’una all’altra formando due navi spaziali. Ognuna è costituita da un lungo cilindro centrale da cui spuntano dei moduli, come una mazza chiodata medievale.

Le due mazze si muovono verso il Sole e l’incontro con l’oggetto sconosciuto.

La simulazione è più esplicita di migliaia di parole, ma voglio essere sicuro di avere capito bene. La mia vita dipende da questo.

«Quindi lancerete quei razzi come se voleste ristabilire una rete di satelliti orbitali».

Fowler annuisce.

«Lasciate che l’oggetto sconosciuto… è così che lo chiamate, giusto?»

«Giusto».

«Lasciate che spazzi via i satelliti, presumendo che poi se ne dimenticherà. Ma le testate poi si ricomporranno come un Transformer, dando vita a due navi spaziali che gli daranno la caccia».

«A parte il riferimento ai Tranformer, è esatto».

È un piano interessante, ma c’è un grosso problema.

«L’oggetto sconosciuto ha neutralizzato a vista la sonda. Cosa vi induce a pensare che non farà lo stesso con queste due navi?».

Fowler si appoggia allo schienale come un insegnante che scruta uno studente. «Ha neutralizzato a vista la sonda?».

Scuoto la testa. «No. Ha ragione. L’ha fatto quando ha cominciato a trasmettere dati. È come se prima di allora non l’avesse vista. Un predatore spaziale che vede soltanto di notte. Oppure, in questo caso, quando la sua preda emette qualche forma di radiazione o trasmissione. Luce. Energia». L’implicazione è chiara. «Le navi dovranno essere silenti».

«Sì».

«E la trasmissione dei dati?».

Fowler mi porge un apparecchio grande più o meno come la mia mano. È nero opaco e non ha nessuna presa o porta USB.

«Li chiamiamo “mattoni informatici”. Possono immagazzinare informazioni e hanno un trasmettitore wireless. Le due navi spaziali, la Fornax e la Pax, li lanceranno verso la Terra», spiega Fowler riprendendo il mattone. «Non cominciano a trasmettere finché non toccano Terra. Li monitoreremo con stazioni terrestri, navi e droni».

È un buon piano per recuperare i dati.

Ma a mio avviso ci sono ancora alcuni problemi e questioni aperte.

Innanzi tutto, l’oggetto non è grande a sufficienza da bloccare abbastanza radiazioni solari per provocare il Lungo Inverno. L’implicazione è che faccia parte di un’entità più grande o stia sottraendo energia solare in un modo che ignoriamo. O forse non c’entra addirittura nulla con il Lungo Inverno. In ogni caso, sono d’accordo che si debba indagare più a fondo. Al momento è l’unica traccia che abbiamo.

Dalla sequenza temporale e dalla simulazione appare chiaro che il lancio deve avvenire subito – finché la Terra è ancora vicina all’oggetto. Questo ridurrà la distanza che le due navi dovranno percorrere e il fabbisogno di combustibile.

«E come rientrerà l’equipaggio?».

Fowler distoglie lo sguardo. «Stiamo ancora facendo delle simulazioni». Preme un tasto sul laptop. «Questa è l’idea migliore».

La simulazione mostra le navi che fluttuano oltre l’oggetto sconosciuto e poi si dividono di nuovo. Due piccoli moduli si sganciano dalla base di ogni nave. Sembrano capsule di salvataggio. La simulazione mostra l’interno di una capsula con tre passeggeri. Quindi su ogni nave c’è un equipaggio di sei persone. Dividerle durante il viaggio di ritorno ha il vantaggio di aumentare le probabilità di sopravvivenza.

All’inizio le capsule non si muovono e poi, lentamente, cominciano ad allontanarsi dall’oggetto. Devono essere alimentate a energia solare.

Studio le due navi, la Fornax e la Pax. Fornax era la divinità romana del fuoco (più specificatamente del forno, ma il fuoco funziona meglio come analogia). Scommetto che la nave ha una testata nucleare o un cannone elettromagnetico. Forse entrambi. Pax era la divinità romana della pace. Cercheranno prima di comunicare. Se la sua modalità di azione è quella usata con la sonda, l’oggetto spazzerà via la Pax. A quel punto la Fornax spedirà un mattone sulla Terra con la registrazione dell’accaduto prima di passare all’azione. I membri dell’equipaggio vedranno l’esito dalle capsule di salvataggio e faranno rapporto.

Sono quasi certo che l’oggetto distruggerà anche la Fornax.

È un buon piano, che potrebbe persino permettermi di tornare a casa vivo. Per quanto ne sappia, è la mossa migliore che possiamo fare.

La voce di Fowler è cupa. «Quello che ha visto è come noi prevediamo che si svolgerà la missione. Ma non è certo che le cose andranno così. I rischi sono…».

«So quali sono i rischi. L’ho saputo fin dal momento in cui ho visto quell’oggetto. E so cosa mi state chiedendo. Ci sto».

Fowler annuisce, fissa il pavimento del furgone e poi si alza.

«Bene, dobbiamo scendere al Kennedy Space Center, è da lì che verrà lanciato il suo modulo».

«Una domanda».

Fowler inarca un sopracciglio.

«Perché io?».

Fowler mi guarda negli occhi. «In verità lei non era la nostra prima scelta. E nemmeno la seconda, la terza, la quarta o la quinta».

Le sue parole mi feriscono un po’, ma non reagisco.

«Quando abbiamo presentato quello che ha appena visto ai candidati prescelti, tre di loro hanno declinato l’offerta. Volevano che ci andasse lei. Hanno detto che avrebbero sostenuto la missione soltanto se ne faceva parte».

«Perché?»

«Pensano che lei abbia più immaginazione e competenze tecniche di chiunque altro. Dicono che lei pensa e agisce in fretta – a volte anche troppo – e che se c’è qualcuno che può portare a termine questa missione, quello è lei. Quando hanno capito che le loro vite e quelle delle loro famiglie erano in pericolo, hanno richiesto la sua presenza».

«E gli altri due?»

«Il candidato di seconda scelta ha accettato. Lui sarà su una delle due navi e tu sull’altra».

«E l’ultimo candidato?».

Fowler lancia un’occhiata a Larson, che ha assunto un’aria assente, come se avesse appena subito una lobotomia. «Non era in grado di processare adeguatamente le informazioni che gli abbiamo fornito».

«Non mi sorprende. È una reazione assolutamente normale». Adesso è il mio turno di fissare Larson. Attraverso di lui posso vedere come reagirà l’intera razza umana quando la notizia trapelerà. «Questo segreto… è troppo grande. Non riusciremo a conservarlo a lungo».

«Sono d’accordo con lei. È l’altro motivo per cui dobbiamo muoverci in fretta».

L’elicottero che ci porta via da Edgefield è pieno di militari, ma non sono uomini della Guardia nazionale. Hanno tutta l’aria di essere agenti speciali. Sono molto professionali, e quando mi guardano non battono le ciglia né distolgono gli occhi. Mi fa piacere che siano dalla nostra parte.

Mentre ci dirigiamo a sud, con i rotori dell’elicottero che rombano sopra le nostre teste, sollevo lo sguardo verso il Sole. Non lo vedrò mai più nello stesso modo. Non vedrò mai più il mondo nello stesso modo. La vita. Il sistema solare, l’universo. Sento di avere passato il Rubicone. Nulla sarà più uguale.

E per motivi che non riesco a spiegare, voglio soltanto una cosa: rappacificarmi con l’unica persona che conta per me in questo mondo. Mio fratello.

Accendo l’auricolare. «Fowler, ho una richiesta».

Larson si gira e si sistema il microfono. Da quando è uscito dal furgone è tornato in sé, riacquistando il suo atteggiamento da pitbull. «Non puoi fare richieste. Fa parte del con…».

«Cosa vuole, James?»

«Ho un fratello, che ha una moglie e un figlio».

Fowler annuisce e solleva lo sguardo. «E adesso anche una figlia. Di dieci mesi».

«Giusto. Vorrei che gli trovaste un posto in una delle zone abitabili».

«Impossibile», ringhia Larson.

«Fatto», dice pacatamente Fowler.

«Vive ad Atlanta».

«Sei mesi fa si sono trasferiti in un sobborgo di Charleston, Mount Pleasant». Il direttore della NASA sembra avere memorizzato il mio dossier. Sono molto colpito.

«Che è sulla strada per Cape Canaveral».

Fowler annuisce.

Larson mi lancia un’occhiata. «Mi sta prendendo in giro?».

Ricambio il suo sguardo. «Ehi, lo so che sono la vostra ultima scelta, ma domani notte mi spedirete in un viaggio di sola andata e lui è l’unica famiglia che mi resta. Voglio soltanto vederlo due minuti. Per dirgli che mi dispiace. Tutto qui».

Fowler ci interrompe. «Si metta d’accordo con lui, Larson». Poi, rivolto a me, aggiunge: «Faccia in fretta, James. Abbiamo poco tempo».

So che questo è il quartiere di Alex prima ancora che l’elicottero atterri. È stato costruito di recente, con le strade che formano una griglia perfetta su cui sono allineate case con microscopici giardini immacolati dove nulla è fuori posto e non c’è nulla di inatteso. L’ordine e la pulizia del quartiere rispecchiano quelli di mio fratello.

Alex e io siamo sempre stati agli antipodi. Ognuno dei due eccelleva nei rispettivi campi e abbiamo sempre preso strade diverse, se non altro per contrapporci l’un l’altro.

L’enorme elicottero si posa sul prato perfettamente curato dell’area comune. Non riesco a impedirmi di pensare con una certa soddisfazione che il segno che lascerà solleverà più di qualche protesta al prossimo comitato di quartiere.

Davanti alla porta di Alex sento il cuore accelerare. Non vedo mio fratello da prima del processo. Anziché suonare il campanello, busso piano. Ho poco tempo a disposizione e non voglio svegliare la piccola.

Sua moglie, Abby, apre la porta senza nemmeno chiedere chi è. È un quartiere molto aperto, e la cosa mi rende felice. Lei, però, non sembra felice di vedermi. Il sorriso le svanisce dal volto e per poco non lascia cadere dalle braccia la bambina, che capisce che c’è qualcosa che non va e comincia ad agitarsi.

«Cosa ci fai qui?», chiede, guardando l’elicottero. «È tuo quell’elicottero? Ti ha dato di volta il cervello? Sei evaso? Chiamerò la…».

«Mi hanno rilasciato, Abby. Per… un… permesso di lavoro».

Lei mi fissa stupefatta.

«E quello è il mio elicottero. Mi dispiace per l’erba. La patente mi è scaduta mentre ero in prigione. E poi, ormai, chi guida più un’auto…».

«Cosa vuoi, James? Perché sei qui?».

Prima che possa risponderle, un bambino di circa sei anni scende di corsa dalle scale seguito da due amichetti. A metà strada si ferma e chiede: «Mamma, posso andare da Nathan?». E anticipando un diniego, aggiunge: «Per favore».

Poi si accorge della mia presenza e mi fissa, cercando di ricordare chi sono. «Zio James!», esclama quando mi riconosce.

«Ciao, tigrotto».

«Papà ha detto che eri in prigione».

«Sì. Sono uscito apposta per salutarti».

«Davvero?», chiede il bambino sgranando gli occhi.

«Nah».

La madre si volta verso di lui e gli intima: «Vai subito di sopra, Jack».

«Mamma!».

«Subito, ho detto!».

Poi si volta verso di me e mi dice: «Non tornare mai più», allungando una mano verso la porta.

«Voglio vederlo, Abby. Voglio soltanto parlargli», rispondo bloccando la porta con il piede prima che la chiuda.

«Pensi davvero che lui voglia parlarti? Che bastino due parole per rimettere tutto a posto? Ti rendi conto di cosa gli hai fatto? Riesci a immaginarlo?»

«Non c’è bisogno che mi parli. Voglio solo che mi ascolti. Ci sono alcune cose che voglio dirgli».

Lei scuote la testa e la rabbia cede il posto al fastidio. «Non è nemmeno in casa».

«Dov’è?»

«Al lavoro».

«In città?»

«A un congresso».

«Dove?».

Abby strizza gli occhi riducendoli a due fessure. «Non te lo direi per nulla al mondo».

Non riesco a trattenere una risata.

«Dottor Sinclair, siamo in ritardo per la riunione», mi chiama Larson.

«Gli dirai che sono passato, Abby?»

«Se ti farai vedere di nuovo, chiamerò la polizia», risponde lei sbattendo la porta.

«Vuoi ancora farli trasferire in una zona abitabile?», mi chiede Larson mentre ci allontaniamo.

«Sì. Sono la mia famiglia».