Capitolo 23
Emma
Mi sveglio con una maschera sulla bocca e un uomo che preme una sacca di plastica pompandomi aria nei polmoni.
Il petto mi brucia. Ho la gola secca.
Mi toglie la maschera e mi fissa. «Comandante Matthews, mi sente?»
«Sì», rispondo con un filo di voce.
«Beva questo. L’aiuterà», dice accostando una bottiglia alle mie labbra.
Annuisco e lui mi spreme il liquido in bocca – un mix dolce-salato che deve contenere glucosio, sodio e altri elettroliti. È come un balsamo per la mia gola riarsa.
Si toglie il casco e distoglie lo sguardo. Mi accorgo che sta parlando al microfono. «Goddard, qui tutto bene. Penso fosse soltanto disidratata e denutrita. Forte ipotermia, basso livello di zuccheri e squilibri elettrolitici nel sangue».
Ascolta per qualche secondo la risposta dal Goddard e io lo guardo mentre finisco di bere. Deve avere all’incirca la mia età, trent’anni avanzati. Ha il viso scavato e i capelli corti color sabbia che gli spiovono sulla fronte. Gli occhi sono azzurri e attenti, ma gentili. Sembra preoccupato, e mi sento subito a mio agio con lui.
«Ricevuto, Goddard», dice al microfono. Poi si volta verso di me e mi chiede: «Si sente meglio?»
«Un po’».
«Bene». Prende la bottiglia e la fissa con il velcro alla parete per impedire che fluttui via. «Mi dispiace, ma devo visitarla».
Ci fissiamo in silenzio per un secondo, dopodiché annuisco.
Mi sfila il guanto destro e poi fa lo stesso con il sinistro.
Il mio corpo è così debole che quando cerco di sedermi mi metto a tremare. «Vuole farlo qui… adesso?»
«Sì».
«Perché non sulla Terra?»
«Ci vorrà un po’ prima di rientrare».
«Un po’ quanto?»
«All’incirca dieci mesi. Prendere o lasciare».
Mi lascio sfuggire una risata. Sta di certo scherzando. Ma la sua espressione è seria.
«Dice davvero?»
«Sì».
Mi guardo attorno nella capsula. Quassù non potremo resistere più di qualche settimana. Ma poi mi tornano in mente le altre capsule, i razzi che le portavano in orbita come lattine che fluttuavano nello spazio.
«Qual è il piano?»
«Non c’è tempo, comandante».
«Per favore. La versione corta. E mi chiami Emma».
«D’accordo, Emma», risponde annuendo. «Faccio parte di una squadra inviata a controllare l’oggetto alieno».
Inarco le sopracciglia e lui si accorge della mia confusione.
«La nave spaziale individuata dalla sonda, l’immagine che lei ha inviato alla Terra prima che la stazione spaziale fosse distrutta».
«Le altre capsule che sono state lanciate si assembleranno nello spazio?»
«Esatto. Formeranno due navi, la Pax e la Fornax».
«Non siete venuti qui per me».
«Lei non è l’obiettivo primario, ma il suo salvataggio fa parte della missione per la quale mi sono arruolato».
«Le hanno dato una scelta?»
«Sì», risponde lui dopo una pausa.
«E lei ha detto di sì».
«Ho detto che avrei fatto il possibile per riportarla a casa. Fowler e tutti gli altri giù al controllo missione ci tengono molto a lei. Si sono dati un gran daffare per organizzare in tempi brevi la missione».
Sono sopraffatta dall’emozione. Gratitudine. Umiltà. Sono così fortunata. Trattengo a stento le lacrime e inspiro a fondo sperando che non si accorga della mia commozione.
«Okay. E poi cosa succederà?»
«Tra dieci minuti il Guyana Space Center lancerà l’ultima capsula».
«E dopo?»
«Poi aspettiamo di vedere se l’oggetto alieno reagisce come ha fatto con la stazione spaziale».
«Intende dire se ci distruggerà?»
«Sì. O semplicemente se ci sbalzerà fuori dall’orbita della Terra e ci scaglierà addosso dei detriti. In ogni caso, le capsule superstiti poi si assembleranno. Sarà un momento difficile e dovremo tenerci pronti».
«È per questo che vuole visitarmi adesso?»
«Devo controllare se ha dei traumi che richiedono una terapia. Dopo l’assemblaggio delle navi saremo molto occupati».
Mi sforzo di assimilare l’informazione. Avrei dovuto lasciare la stazione spaziale tra un mese. Non riesco ad accettare l’idea di rimanere quassù altri dieci mesi. Ammesso che riuscirò mai a tornare a casa.
«Come si chiama?»
«James Sinclair».
Quel nome mi suona vagamente familiare.
«È un medico?»
«Sì», risponde lui dopo un attimo di esitazione.
«Stava per aggiungere un ma».
«Ma non ho mai praticato. Sono anche un ingegnere meccanico e robotico, e un designer di intelligenze artificiali».
Risponde alla domanda successiva prima ancora che gliela faccia.
«Costruirò i droni che controlleranno l’oggetto alieno».
«Li costruirà?»
«Sì, durante il viaggio».
«Interessante».
«Lo sarà di certo. Ma adesso deve togliersi la tuta».
Non riesco a trattenere un sorriso e inarco un sopracciglio.
«Per ragioni strettamente mediche», aggiunge lui prontamente.
«Dice il medico non praticante».
«Sono il miglior medico in questa capsula, posso assicurarglielo».
È una battuta mediocre, ma quando lui sorride non riesco a non fare altrettanto. Mi piace il suo sorriso. E mi piace anche lui. Mi fa sentire a mio agio.
«D’accordo, miglior medico nella capsula, proceda pure».
Lui si avvicina e mi slaccia la parte superiore della tuta. «È soltanto una visita medica», dice.
«Certo».
Sollevo le braccia e la parte superiore della tuta cade ai miei piedi. Il casco e gli auricolari me li aveva tolti prima, quando mi rianimava.
Sotto la tuta gli astronauti indossano una calzamaglia raffreddata da tubicini in cui scorre acqua fredda che disperde il calore generato all’interno della tuta.
Mi aiuta a togliere la calzamaglia e rimango con indosso soltanto l’ultimo strato, la maglietta a maniche lunghe e le mutande di cotone che assorbono il sudore. Nonostante quassù non ci sia molta gravità, alcune astronaute indossano il reggiseno. È una scelta personale. Alcune lo fanno per nascondere le forme del loro corpo, altre per abitudine. Quando mi allenavo indossavo un reggiseno sportivo, ma adesso non ce l’ho. L’unica cosa che indosso sotto la maglietta e le mutande lunghe è un pannolino, che a questo punto deve essere intriso di urina.
Lancio un’occhiata alla videocamera nell’angolo. Sto per fare uno strip per metà della NASA e per chissà chi altro. Nello spazio la sopravvivenza vince il pudore, ma mi sento come una bambina che se l’è fatta addosso davanti ai compagni di classe.
Lui si accorge che sto guardando la videocamera. «Non sono collegati. La trasmissione di dati potrebbe scatenare un altro evento solare».
«Ho capito», dico con un sospiro, ma il cuore mi batte ancora come un tamburo.
«Nessuno la vedrà. Voglio soltanto aiutarla».
«D’accordo», rispondo.
Lui non si muove. Aspetta che cominci io. Mi lascia la scelta se togliermi prima la maglietta o le mutande.
Mi tremano le mani. Infilo i pollici nell’elastico delle mutande e le abbasso. Lui mi aiuta a sfilarle e avvicina le mani al mio inguine.
«Eserciterò una pressione. Se le fa male, dica “Ahi”, e poi un numero da uno a dieci, dove il dieci è il dolore più forte che abbia mai provato. Se l’intensità del dolore cambia, dica un altro numero».
«Okay».
Preme le mani contro il mio inguine, all’inizio piano e poi sempre più forte. La sua faccia è a pochi centimetri dalle mie cosce. Solleva lo sguardo e i suoi occhi incontrano i miei. Scuoto la testa per dirgli che non provo alcun dolore.
Scende con le mani lungo le mie gambe, con la testa china, scrutando ogni centimetro del mio corpo e continuando a tastarmi.
Una fitta di dolore mi attraversa la coscia sinistra.
«Ahi. Due».
Preme più forte. Il dolore si intensifica.
«Tre».
«Ne è sicura?»
«Sì. Non è così forte».
«È una contusione. Non c’è nessuna frattura».
Quando mi fa estendere la gamba e la muove di lato, sento un’altra fitta al ginocchio destro.
«Ahi. Tre».
«Un’altra contusione».
Ce ne sono una mezza dozzina, ma nessuna supera il due. Quella che è messa peggio è la caviglia destra.
«Ahi. Quattro», dico stringendo i denti.
Lui la tasta metodicamente.
«E adesso?»
«Cinque».
Solleva lo sguardo. «Una storta. Ma niente di grave. Nessun legamento rotto, nessuna frattura».
Prende un tubetto dal kit medico e mi spalma una pomata sulla caviglia.
«È un analgesico topico. Ridurrà l’infiammazione attenuando il dolore. Per un po’ cerchi di non caricare troppo sul piede».
Mi benda la caviglia, assicurandosi che la fasciatura non sia troppo stretta, poi fluttua in alto verso il mio petto e, ancora una volta, aspetta.
Ho di nuovo i nervi tesi. Penso stia aspettando che mi tolga la maglietta.
Ma mi sbaglio. Se ne occupa direttamente lui. Allunga le mani, mi afferra le spalle e dice sottovoce: «La farò girare».
Mi giro fluttuando nell’aria e lui mi sfila la maglietta. Le sue mani si posano sul fondo della mia schiena e cominciano a salire.
«Due», sussurro.
Mi spalma la pomata anche sulla schiena, massaggiandola delicatamente.
Ci sono altri tre punti dolenti alle costole.
Il collo è indolenzito (due) e le spalle e le braccia hanno piccole contusioni che non richiedono alcun trattamento.
«Fowler mi ha raccontato cosa è successo a bordo della stazione spaziale». Mi stringe la mano e poi comincia a tastare ogni dito. «È stata molto coraggiosa. E brillante».
«Sono stata fortunata».
«Sì, ma anche coraggiosa e brillante».
Mi sento arrossire. Sono contenta che lui non possa vedermi. Una fitta di dolore al mignolo sinistro.
«Tre», dico, quasi felice di cambiare argomento.
Lui lo tasta e lo piega. «Un’altra storta. Non è rotto. Posso steccarlo, ma poi non potrà più infilarsi i guanti della tuta».
«Non importa. Lo lasci così».
Mi posa di nuovo le mani sulle spalle, mi aspetto che mi faccia girare, ma non lo fa.
«Immagino si sia fatta un autoesame del petto».
Il cuore mi batte all’impazzata. Se mi controlla il polso, mi darà qualche pillola contro l’ipertensione.
Ma poi mi ricordo che la sopravvivenza vince la modestia, mi aggrappo alla parete della capsula, mi volto e lo fisso dritto negli occhi.
«La prego. Finisca la visita».
Lui deglutisce rumorosamente e interrompe il contatto oculare. Poi allunga le mani e comincia a tastarmi le clavicole.
«Uno».
«Probabilmente è un’irradiazione del dolore al collo».
Mi accorgo che sto trattenendo il respiro. Cerco di espirare lentamente, ma sono sicura che lui si è accorto che il cuore mi batte come un tamburo.
Non mi tocca mai i seni, ma ci gira attorno e sotto.
«Quattro».
Preme più a fondo, muovendo le dita.
«Cinque».
«Una contusione a una costola. È improbabile che sia fratturata. Non c’è nulla da fare».
Anche gli addominali sono dolenti.
Le sue mani si fermano sul bordo del pannolino – l’ultima cosa che indosso. Non lo toglie. «Dopo quello che ha passato è in forma perfetta», dice.
«Lo pensa davvero?».
Mi guarda negli occhi.
«Lo dico per certo».
Ci fissiamo per un tempo imprecisato, potrebbe essere un secondo, un minuto o un’ora. Il mondo si è come fermato… finché uno schianto non spezza il silenzio, scaraventandoci l’uno contro l’altra.