Capitolo 13
Emma
Nonostante abbia perso i contatti con la Terra, scrivo un messaggio per comunicare che ho identificato un potenziale sopravvissuto e che mi sto apprestando a soccorrerlo. Il messaggio partirà quando la capsula ristabilirà i contatti con la stazione terrestre. A quel punto io potrei essere troppo impegnata.
Accostare la capsula al relitto non è facile. Per fortuna il connettore della stazione spaziale è ancora intatto. Ma il problema è che io sono una genetista e non un pilota. Tuttavia sono stata addestrata anche per questo, e dopo tre tentativi ci riesco.
Durante la più maldestra operazione di attracco nella storia della stazione spaziale, sbircio attraverso il portellone del relitto dell’astronave, ma non vedo nessuno. La persona con la tuta spaziale – se nella tuta c’è realmente qualcuno – non può non avere sentito l’impatto della mia capsula. Eppure nessuno si affaccia al connettore per controllare cosa sta succedendo o farmi un cenno di saluto.
Apro il portello della capsula e fluttuo verso il modulo della stazione spaziale, dicendomi che forse è rimasto bloccato oppure ha perso conoscenza.
La tuta spaziale russa Orlan non si muove mentre mi avvicino. Il visore del casco riflette come uno specchio l’immagine di me che avanzo fluttuando nell’aria. Le mie speranze svaniscono quando tocco la manica della tuta e le mie dita affondano al centro. Non c’è pressione all’interno. Il braccio è scheletrico e senza vita.
Esamino la tuta e individuo uno strappo sul fianco destro. Sulla parete di fondo c’è un buco oltre il quale scorgo il nero infinito dello spazio. Un frammento della stazione ha sfondato la parete e si è conficcato nella tuta. L’ossigeno è fuoriuscito, risucchiando ogni molecola d’acqua dal corpo del mio compagno di equipaggio. Sono stata fortunata a non subire la stessa sorte. Io ero sopravvento, per così dire, mentre tutti quelli che si trovavano all’altra estremità della stazione sono stati investiti dai proiettili.
Fluttuo nell’aria stringendo la manica della tuta. È come se la mia mente non potesse accettarlo. Quando avevo visto la tuta, mi ero convinta che avrei salvato quella persona. Che avrei condiviso con lui la capsula e la gioia del ritorno sulla Terra.
Ma non è andata così.
È come se fossi entrata in una nuova realtà e non potessi tollerarla.
Uno scossone del modulo mi strappa ai miei pensieri. Poi un altro, e un altro ancora, come grandine su un tetto metallico. Un frammento della stazione è entrato in collisione con quello su cui mi trovo.
Fisso lo squarcio nella tuta del mio compagno di equipaggio. Devo andarmene da qui. Al più presto.
So che devo tornare nella capsula e lasciare al suo destino la tuta russa e chiunque ci sia lì dentro, ma non ci riesco.
Sgancio la tuta e la trascino verso la capsula. La pioggia di detriti si è intensificata, ora sembra una tempesta.
In rapida sequenza, mi stacco dal modulo della stazione spaziale, chiudo il portello della capsula e aumento la potenza dei propulsori per sottrarmi alla caduta dei detriti.
Mentre mi allontano, i tonfi sul tetto si attutiscono. Adesso sembrano gocce di pioggia, poi una tempesta di sabbia e infine cessano del tutto. Dall’oblò guardo i detriti schiantarsi contro i resti della stazione.
Se fossi stata in contatto con la base terrestre, mi avrebbero avvisata del campo di detriti e me la sarei cavata più in fretta. Ho bisogno di ristabilire i contatti.
Concentrati, Emma.
Lo sguardo mi cade sulla tuta Orlan. La pressione qui nella capsula è la stessa che c’è là fuori. Non rischierò nulla scoprendo chi c’è dentro.
Sfilo il casco.
Sergei.
Deve essersi infilato la tuta quando il sistema fotovoltaico è andato in panne. In quel momento avrei dovuto ordinare a tutti di mettersi le tute ed evacuare la stazione sulle Soyuz. È un pensiero che non mi dà pace. So che se non me ne libererò, finirà per distruggermi, come un cancro.
Non devo farmi divorare dal senso di colpa, ma concentrarmi sulle prossime mosse. Un passo alla volta. La lucidità è l’unica cosa che potrà tenermi in vita quassù.
Impugno la stilo e scrivo un messaggio alla base.
Qualche ora più tardi termino la ricerca.
Non ho trovato nessun sopravvissuto. Nessun’altra tuta spaziale. Nessun resto.
A quanto pare sono l’unica sopravvissuta alla catastrofe della Stazione spaziale internazionale.
Invio il mio rapporto. Sto sorvolando di nuovo il Nordamerica, dove ci sono parecchie stazioni terrestri allineate con la mia capsula. Come mi aspettavo, la risposta arriva subito.
Ricevuto. Stiamo pressurizzando la capsula. Rimanga in attesa.
Perché la stanno pressurizzando? A questo punto dovrebbero avere iniziato la sequenza di rientro per riportarmi a casa. Pensano forse che la mia malattia da decompressione sia così grave da richiedere urgenti attenzioni? Preferirei essere a Terra. Sto per scrivere un messaggio quando sullo schermo ne appare un altro.
La capsula è pressurizzata. Tolga il casco e inizieremo la procedura DCI.
Slaccio il casco e respiro a pieni polmoni l’aria, che è puro ossigeno (sulla Terra, per intenderci, contiene soltanto il 21 percento di ossigeno). Togliere l’azoto all’aria aiuta la terapia della malattia da decompressione. Poi alzeranno gradualmente la pressione per dissolvere le bolle d’aria nel sangue.
All’improvviso sento una gran fame e una gran sete. Da quando la stazione è collassata, sono stata così spaventata da non rendermi conto di quanto ero affamata. La costante paura della morte è la migliore cura dimagrante che esista.
Mangio e trangugio un lungo sorso d’acqua. È meglio che non beva troppo. Nella capsula non c’è un bagno. C’è però una confezione di pannolini e mi abbasso la tuta per infilarmene uno a scopo preventivo.
Respiro a fondo. La pressione sta salendo e respirare è diventato più facile. Sono esausta.
L’unica cosa che voglio è tornare a casa. Quando sono partita per lo spazio, traboccavo di gioia, ma adesso non vedo l’ora di rimettere i piedi sulla Terra e respirare aria vera, non questa sterile aria riciclata.
Nel minuscolo spazio della capsula riecheggia una voce maschile con un accento del Massachusetts che mi ricorda sempre JFK.
«Capsula Phoenix, qui è Goddard, mi sente?»
«Ricevuto, Goddard. È bello sentire la tua voce».
«Anche per me, comandante».
Finisco la bottiglia d’acqua e poi gli faccio la domanda che più mi preme. «Qual è il piano, Goddard?»
«Ci stiamo lavorando. Per il momento deve agganciare la tuta alla capsula. L’ossigeno e la pressione sono compatibili con quelli della stazione spaziale. C’è anche un serbatoio di riserva. Si ricordi di cambiarlo quando è vuoto».
Perché? È come se pensassero che non tornerò subito a casa.
«Non me ne dimenticherò. Quando è previsto il rientro?»
«Non lo sappiamo ancora».
«Perché? Cosa sta succedendo? La tempesta che ha colpito la stazione spaziale ha investito anche la Terra?»
«No».
«C’è qualcosa che non va nella capsula?»
«No, comandante. Nulla del genere. È che quaggiù siamo molto presi».
Presi da cosa? Stanno facendo altri lanci? Dev’essere così. Sono sicura che non vogliono riportarmi indietro finché non hanno monitorato la capsula per controllare che tutto sia a posto. Se stanno preparando un altro lancio, ritarderanno il mio rientro. E in ogni caso, qui o a Terra, la malattia da decompressione doveva essere trattata – ed è meglio farlo prima per evitare danni permanenti. Se la mia teoria è corretta, tutto comincia ad avere un senso.
«La riporteremo a casa, comandante. Stiamo facendo del nostro meglio».
«Lo so e vi ringrazio. Avrei dovuto farlo prima. Grazie di tutto. Prima di vedere la capsula pensavo di essere spacciata».
«Stiamo solo facendo il nostro lavoro».
C’è una lunga pausa. Il cibo mi ha fatto venire sonno. Oppure è l’aria più spessa. Ho la bocca impastata.
«Cosa posso fare?»
«Si riposi, comandante Matthews. Le daremo notizie al più presto».
Fluttuo accanto a Sergei e chiudo gli occhi.
Il sonno arriva subito.