Capitolo 1

Emma

Negli ultimi cinque mesi ho visto morire il mondo.

I ghiacci hanno invaso il Canada e l’Inghilterra, la Russia e la Scandinavia, seppellendo tutto nella loro inarrestabile avanzata.

Nell’arco di tre mesi il ghiaccio coprirà l’intera Terra e la vita come la conosciamo sarà finita.

Il mio compito è scoprire perché.

E fermarlo.

La sveglia mi strappa al sonno. Mi libero dal sacco a pelo e apro la porta della cabina.

Da quando sono arrivata alla Stazione spaziale internazionale non ho mai dormito bene. Soprattutto dopo l’inizio degli Esperimenti invernali. Ogni notte mi giro e rigiro nel letto, chiedendomi cosa ci riveleranno le sonde e se scopriremo un modo per salvarci.

Fluttuo fino al modulo Harmony e digito sul pannello cercando di identificare la causa dell’allarme. I radiatori solari sono bollenti. Guardo la temperatura salire. Perché? Devo fare qualcosa…

La voce di Sergei mi gracchia nell’auricolare con il suo forte accento russo. «È l’impianto fotovoltaico, comandante».

«Spiega meglio», chiedo fissando la videocamera.

Silenzio.

«Rispondi, Sergei. Sono i detriti? Perché si sono surriscaldati?».

C’è un milione di modi per morire sulla Stazione spaziale internazionale. Un guasto del sistema fotovoltaico è uno dei più certi. E ci sono molti modi in cui può guastarsi. Il sistema funziona come i pannelli solari sulla Terra: le radiazioni solari sono convertite in corrente elettrica. Il processo genera molto calore in eccesso che viene disperso nello spazio attraverso i radiatori, posizionati al riparo dalla luce del Sole. Se questi radiatori si surriscaldano, il calore si diffonde all’interno della stazione, mettendo a rischio la vita dei suoi occupanti.

Dobbiamo scoprire al più presto la causa.

Sergei sembra distratto, o forse infastidito. «Non sono detriti, comandante. Le spiegherò appena lo scopro. Adesso vada a dormire, per favore».

La porta della cabina accanto alla mia si apre e il dottor Andrew Bergin sbircia fuori con occhi gonfi e assonnati.

«Ehi, Emma, cosa succede?»

«Il sistema fotovoltaico».

«C’è di che preoccuparsi?»

«Sto cercando di capirlo».

«Sergei, cosa pensi che sia?»

«Penso sia l’emissione solare. È troppo forte», risponde Sergei.

«Un’esplosione solare?»

«È la spiegazione più plausibile. Non si tratta del malfunzionamento di un radiatore isolato, sono tutti surriscaldati».

«Spegni l’impianto e accendi la batteria».

«Comandante…».

«Fallo, Sergei. Subito».

Sul display le luci degli otto pannelli solari e delle loro 33.000 celle fotovoltaiche si spengono e gli indicatori della temperatura cominciano a scendere.

La batteria ci consente una certa autonomia. La usiamo una quindicina di volte al giorno quando l’ombra della Terra oscura il sistema fotovoltaico.

Bergin formula la domanda che mi ronza in mente: «Ancora nessuna risposta dalle sonde?».

Sto già controllando.

Un mese fa un consorzio internazionale ha inviato nello spazio delle sonde per misurare le radiazioni solari e registrare eventuali anomalie. Le sonde fanno parte degli Esperimenti invernali, il più vasto progetto scientifico mai intrapreso dall’uomo. Lo scopo di questi esperimenti è scoprire le cause della glaciazione. Sappiamo che le emissioni solari si stanno riducendo, ma non dovrebbe essere così, l’atmosfera terrestre dovrebbe surriscaldarsi.

I dati registrati dalle sonde saranno raccolti dalla Stazione spaziale internazionale, ma al momento non è ancora arrivato nulla. Questi dati potrebbero salvare l’umanità, o semplicemente dirci quanto ci resta ancora da vivere.

Dovrei tornare a dormire, ma ormai sono in piedi e ci resto.

Non vedo l’ora di ricevere i primi dati dalle sonde. La mia famiglia è sulla Terra. Voglio sapere cosa ne sarà di loro. E c’è una tacita domanda che assilla tutti i sei astronauti e cosmonauti della stazione spaziale: cosa ne sarà di noi? Se il mondo sta morendo – se non ci sarà nessun mondo a cui tornare – ci lasceranno quassù? Tre di noi devono tornare a casa tra un mese, gli altri tre fra quattro mesi. Ma le nostre nazioni spenderanno le risorse necessarie per riportarci indietro? Stanno già affrontando una crisi di rifugiati senza precedenti nella storia.

In tutto il mondo i governi stanno cercando di trasferire miliardi di persone verso le ultime zone abitabili e chiedendosi cosa fare con quelli che non possono evacuare. Quanto saranno disposti a investire per riportare a casa sei persone dallo spazio?

Tornare a casa non è una passeggiata. La stazione spaziale non è dotata di vere e proprie capsule di salvataggio, ci sono soltanto le due Soyuz che ci hanno portato fin qui. Ognuna delle quali può trasportare al massimo tre passeggeri. Possiamo usarle per evacuare la stazione, ma abbiamo bisogno di coordinamento dalla Terra, qualcuno deve raccoglierci quando atterriamo.

E al ritorno avremo bisogno di ancora più aiuto. Riabilitazione, per esempio. Nello spazio le ossa perdono densità a causa dell’assenza di gravità. E sono le ossa portanti a diventare più fragili: pube, colonna vertebrale e gambe. La massa ossea si riduce, come nei malati di osteoporosi. Il calcio che si infiltra nell’organismo provoca calcoli renali, e lo spazio non è il posto migliore dove avere una crisi di calcoli. Alcuni dei primi astronauti che hanno soggiornato alla stazione hanno perso fino al 2 percento della loro densità ossea ogni mese. Per ridurre i danni dobbiamo fare degli esercizi. Ma al rientro dovrò comunque sottopormi a una riabilitazione. Finché non metterò piede sulla Terra (o sul ghiaccio) non saprò in che stato sono.

La verità è che serviamo alla gente sulla Terra per gli Esperimenti invernali. E se non scopriremo cosa sta causando il Lungo Inverno – e come fermarlo – non lasceremo mai questa stazione. Siamo intrappolati tra le fredde tenebre dello spazio e un pianeta che si sta ghiacciando. Per il momento, questa è la nostra casa. E probabilmente lo sarà per un po’.

È una bella casa. La migliore che abbia mai avuto.

Avanzo attraverso i moduli che compongono la stazione spingendomi con le mani e con i piedi. Sono come una serie di enormi tubi avvitati insieme ad angolo retto, la maggior parte dei quali ospitano laboratori o semplici connettori.

Il modulo Unity, lanciato nel 1998, fu il primo elemento della Stazione spaziale internazionale costruito negli Stati Uniti. Ha sei punti di ormeggio, come i tunnel di un sistema fognario.

Passo nel modulo Tranquility, che ospita le apparecchiature di sostegno vitale, il sistema di riciclo dell’acqua, i generatori di ossigeno e una toilette il cui uso in assenza di gravità è tutt’altro che facile (anche perché progettata esclusivamente per astronauti di sesso maschile).

Da Tranquility fluttuo nel modulo di osservazione dell’Agenzia spaziale europea. Sosto per un lungo istante sotto la cupola con sette grandi finestre panoramiche che offrono una vista mozzafiato sullo spazio e sulla Terra.

La stazione ruota a circa quattrocento chilometri dal nostro pianeta a una velocità di 27.000 chilometri all’ora, descrivendo un’orbita completa 15,54 volte al giorno, il che significa che ogni quarantacinque minuti vediamo sia l’alba sia il tramonto.

La stazione ha appena attraversato il terminatore, rivelando la parte del pianeta illuminata dal Sole: il Nord e il Sudamerica.

Il ghiaccio ha invaso i Grandi laghi, come scheletriche dita bianche nell’acqua azzurra, e sta propagandosi a sud. Michigan, Wisconsin, Minnesota e alcune parti dello stato di New York sono già stati evacuati.

Gli Stati Uniti hanno fatto i loro conti. Sanno quali saranno le ultime zone abitabili della Terra. Sono sotto il livello del mare. Nella Death Valley, in California, è stato allestito un enorme campo. La Libia e la Tunisia hanno stretto accordi, ma tutti sanno che non sono destinati a durare. Non quando c’è in ballo la sopravvivenza.

Cercheranno di infilare otto miliardi di persone in un tunnel dove soltanto pochi di loro possono sopravvivere.

Sarà la guerra.

Sul tapis roulant chiedo un resoconto della situazione. Sergei non ha ancora riattivato il sistema fotovoltaico. Voglio fare un check-in con lui, ma so che lavora meglio se lo si lascia in pace. Quando sei persone vivono insieme in uno spazio così ristretto, si impara presto a rispettare i reciproci confini.

Controllo di nuovo se le sonde hanno inviato qualche dato e mi metto a leggere le mail.

La prima è di mia sorella.

Io non mi sono mai sposata e non ho figli. Mia sorella invece ne ha due, che per me sono le creature più dolci del mondo.

Alla mail è allegato un video in cui mia sorella Madison mi parla mentre corro sul tapis roulant.

«Ciao, Em. So che non posso dilungarmi troppo, ma ho un sacco di cose da dirti. David ha sentito delle voci. Dicono che… ci sarà un grande cambiamento. Che è in corso un esperimento grazie al quale scopriremo le cause del Lungo Inverno. Da queste parti la gente svende le case per trasferirsi in Libia e in Tunisia. C’è il caos più totale. Stanno inviando truppe…».

Il video si oscura per un minuto. Censurato. Continuo a correre sul tapis roulant fissando lo schermo finché non riappare il viso di mia sorella. È ancora seduta sul divano, ma accanto a lei ci sono i due figli, Owen e Adeline.

«Ciao, zia Em! Guardami!», strilla Owen uscendo dall’inquadratura. La videocamera lo segue e lo vedo infilare una palla da basket in un canestro a un metro e mezzo dal pavimento.

«Mi hai visto?», chiede alla madre.

«Certo!».

«Altrimenti lo rifacevo».

Sorrido mentre sul monitor appare di nuovo mia sorella. «Ti riportano a casa? E se lo faranno… qual è il piano? So che dopo il ritorno per un po’ non potrai guidare e dovrai fare riabilitazione. Finché la NASA non riuscirà a rimetterti in piedi, potrai venire a stare da noi, naturalmente. Scrivimi presto. Ti voglio bene». Madison si volta verso i figli che stanno litigando sullo sfondo. «Salutate zia Emma».

Owen spunta da dietro il divano e mi saluta con la mano. «Ciao».

Adeline si stringe alla madre, apparentemente intimidita dalla videocamera. «Ciao, zia Emma. Ti voglio bene».

Mentre digito la risposta, sullo schermo appare la scritta:

Dati in arrivo: Sonda 127

Apro subito l’allegato. Il livello delle radiazioni solari è preoccupante. È di gran lunga più alto che sulla Terra, ma la cosa non ha senso, visto che la sonda si trova più o meno alla stessa distanza dal Sole. A meno che non sia stata investita da un’esplosione solare. Ma non può essere, perché il livello resta inalterato nel tempo. Forse è un fenomeno locale.

Apro la telemetria della sonda e il cuore mi si ferma. C’è un oggetto. Una macchia nera di fronte al Sole. Non è un asteroide. Gli asteroidi sono frastagliati e rocciosi, mentre questo è liscio e oblungo. Di qualsiasi cosa si tratti, è stata costruita da qualcuno.

Siamo in costante contatto con la Terra – con agenzie negli Stati Uniti, in Russia, Europa, Cina, India e Giappone. Attivo il link per parlare direttamente con il Goddard Network Integration Center nel Maryland.

«Goddard, qui Stazione spaziale internazionale. Stiamo ricevendo i primi dati dalle sonde. La trasmissione è in corso. La 127 ha trovato qualcosa». Cerco le parole giuste. «La telemetria preliminare è di un oggetto oblungo e liscio. Non sembra essere un asteroide o una cometa. Ripeto: ha l’aspetto di un oggetto non naturale costruito da…».

Lo schermo si oscura. Il tapis roulant si blocca. La stazione vibra. Le luci tremolano.

Infilo l’auricolare.

«Sergei…».

«Sovraccarico elettrico, comandante».

Non è possibile. Il sistema fotovoltaico è spento. Stiamo usando l’energia della batteria.

Il pavimento vibra di nuovo.

Il mio istinto di sopravvivenza prende il sopravvento.

«Tutti fuori dalle cabine, salite sulle Soyuz! Avviare le procedure di evacuazione!».

Un violento scossone mi scaglia contro la parete. Mi gira la testa. Il mio corpo reagisce istintivamente e le braccia mi sollevano nella cupola. Attraverso le finestre panoramiche vedo la Stazione spaziale internazionale cadere a pezzi.