Capitolo 11
Emma
Quando alla fine smetto di piangere, faccio l’inventario di quello che c’è nella capsula. Negli armadietti sono stivate riserve di cibo e acqua, e c’è anche un kit di pronto soccorso. In un angolo c’è un grosso pacco. Quando scopro che cos’è per poco non mi rimetto a piangere: un modulo SAFER per la mia tuta spaziale (tecnicamente si chiama EMU, Extravehicular Mobility Unity, ovvero Unità per la mobilità extraveicolare), un’insieme di piccoli propulsori jet che si indossano come uno zaino sopra la tuta e che sono utili soprattutto per evitare di fluttuare lontano dalla stazione – o per le situazioni “freccetta umana”, come quella in cui mi sono trovata poco prima.
Dietro il primo biglietto, sulla parete ce n’è un secondo con scritto:
Non togliere la tuta.
Usare il terminale per comunicare.
Perché vogliono che tenga addosso la tuta? Posso pressurizzare la cabina. Forse l’evento che ha distrutto la stazione spaziale non è ancora terminato. Forse la capsula è vulnerabile.
Tolgo il pannello che copre il terminale e lo schermo si accende. La tastiera non è utilizzabile con gli spessi guanti della tuta, ma hanno pensato anche a questo. Una stilo fissata alla parete fluttua nell’aria, come il dito alieno di ET. L’afferro mentre sul monitor appare il primo messaggio in lettere bianche su sfondo nero.
Sono felice di vederla, comandante Matthews.
Mi guardo attorno nella capsula e in un angolo vedo una videocamera.
Sorrido e saluto con la mano.
Stato di salute?
Usare la stilo non è facile, ma a ogni lettera acquisto più dimestichezza.
Nulla da segnalare.
Sia onesta.
Mi chiedo chi ci sia dall’altra parte. Deve essere qualcuno che mi conosce. Incomincio con il problema principale: la malattia da decompressione.
Sintomi da decompressione. Tumefazioni.
E poi chiedo quello che mi sta realmente a cuore.
L’equipaggio?
Nessuna risposta. Non è un buon segno. Sono troppo nervosa per aspettare.
Capsule Soyuz?
Mi dispiace. Nessuna è stata recuperata.
Quelle parole sono come un pugno allo stomaco. Per un istante non riesco a pensare a nient’altro. Il dolore svanisce. Le lacrime mi rigano di nuovo le guance. Fluttuo lontano dallo schermo, soltanto la stilo mi tiene ancorata alla parete. Fisso le parole: Nessuna è stata recuperata. Sono tutti morti. Tranne me. Avrei dovuto…
Non avrebbe potuto fare nulla, comandante. Nulla. La stazione si è disintegrata in pochi secondi. Non c’era alcuna possibilità di salvezza. Siamo fieri che lei sia viva.
Non so cosa rispondere alle sue parole. Non ci riesco proprio. Passo così alla domanda successiva.
L’immagine dalla sonda, l’avete ricevuta?
Sì.
Che cos’è?
Un’altra lunga pausa. Perché? Digito sei lettere che ieri mi sembravano inimmaginabili.
Alieni?
Non lo sappiamo ancora. Ne parleremo quando avremo più elementi.
Cosa vuol dire?
Avete un piano?
Ci stiamo ancora lavorando. Per il momento deve restare in orbita.
Perché?
Per assicurarle un ritorno più sicuro.
Un altro mistero. Se temessero che la capsula andasse distrutta – come la stazione spaziale – dovrebbero riportarla indietro il più presto possibile. Cosa sta succedendo laggiù?
I sintomi della malattia da decompressione stanno cominciando a svanire, ma mi gira ancora la testa. Cerco di mettere ordine nei miei pensieri. Quale sarà il prossimo passo? Non posso tornare a casa. La stazione non c’è più. Le capsule Soyuz non sono state utilizzate per l’evacuazione. Cosa succederà adesso?
Altri sopravvissuti. Devo verificare se ce ne sono. Ritorno alla tastiera e digito freneticamente.
Avete scansionato il relitto per controllare se ci sono altri sopravvissuti?
Sì. Non ne abbiamo ancora trovato nessuno.
Voglio che li cerchiate.
Un’altra lunga pausa. Aggiungo:
Per favore.
A Terra, qualcuno sta valutando i rischi e i vantaggi della manovra.
Non è possibile.
Perché?
L’evento solare ha compromesso i satelliti.
Senza i satelliti, possono controllare la capsula solo quando è allineata con le stazioni terrestri. Devono avere programmato la sua orbita in modo che sia geosincrona con quella della stazione terrestre, che, stando a quello che si vede dall’oblò, si trova in Nordamerica.
Vi guiderò io. Per favore. Devo farlo.
Rimanga in attesa, comandante.
L’attesa è ancora più lunga delle precedenti. Mi preparo mentalmente a controbattere se la risposta sarà negativa. Ho già preparato una serie di argomenti quando sullo schermo appare la risposta.
Via libera per la perlustrazione del relitto della stazione spaziale.
Inviamo pianta del relitto e programma per il controllo locale e a distanza.
Sullo schermo appare un’immagine della Terra circondata dai vari strati di atmosfera in cui sono evidenziati piccoli oggetti in orbita: i frammenti della stazione spaziale. Sono sparsi su metà del globo. Alcuni sono più vicini all’atmosfera, altri più lontani. Chi ha preparato il piano di ricerca ha fatto un buon lavoro: la capsula recupererà prima i frammenti nell’orbita più bassa, che tra poco si incendieranno.
Sullo schermo inizia un conto alla rovescia:
INSERIMENTO CONTROLLO MANUALE:
15:28
15:27
15:26
E sotto appare la scritta:
Buona fortuna, comandante.
Fluttuo fino all’oblò e guardo la capsula manovrare verso il primo frammento della stazione spaziale.
Abbiamo perlustrato i tre quarti dei relitti. Ho cercato in tutti i frammenti in un’orbita discendente.
Niente.
La capsula ha perso il contatto con la Terra e la sto manovrando io, anche se con i guanti non è facile perché i movimenti devono essere molto precisi.
Il prossimo frammento è il più grande di tutti. Lo guardo avvicinarsi. Riesco a vedere il braccio robotico europeo ancora attaccato al modulo del Multilaboratorio Nauka. Poco più lontano fluttuano i moduli di servizio Zvezda e Poisk. Erano collegati al Nauka da Pirs, di cui però non c’è più traccia.
Faccio descrivere un lungo arco alla capsula e scruto i detriti, che sembrano lattine di soda sparate da un fucile ad aria compressa. Attraverso uno squarcio scorgo quello che mi sembra un braccio umano.
Mi fermo di scatto, chiedendomi se ho dormito troppo poco e ho le allucinazioni, oppure se non era semplicemente un detrito con la forma di un braccio.
Riporto indietro la capsula e allineo l’oblò con lo squarcio del relitto.
Non so se sto ridendo o piangendo, o forse tutt’e due le cose insieme, ma so cosa sto vedendo: non è soltanto un braccio, ma un corpo intero, in una tuta spaziale russa Orlan, che mi fissa dicendomi con gli occhi: Sono pronto per essere salvato.
Ed è esattamente quello che farò.