Capitolo 24

James

Emma e io rimbalziamo contro le pareti della capsula cercando qualcosa a cui aggrapparci. È come essere dentro un’asciugatrice… ma con un’altra persona. Che perdipiù è nuda. E che conosco a malapena. Ma che comunque mi sta a cuore.

Alla fine riesco ad aggrapparmi a una maniglia e aspetto che lei si avvicini. Con il braccio libero l’afferro e la spingo contro la parete.

Se la capsula viene investita da un detrito e si apre una falla, siamo finiti. Facciamo uno, forse due giri completi. In queste condizioni è impossibile infilarsi la tuta. Non riuscirei nemmeno a mettermi il casco.

Lo spazio è vuoto, o quasi, e quando un oggetto acquista velocità non c’è nulla che possa fermarlo.

Prima del lancio ci avevano preparati all’eventualità che un evento solare scaraventasse la capsula fuori dall’orbita terrestre. Il protocollo prevede l’assenza di ogni comunicazione mentre procediamo verso un punto d’incontro.

Spero soltanto che riusciremo ad arrivarci, e che anche le altre capsule ce la faranno. Devo capire dove ci troviamo e correggere la rotta.

«Dobbiamo spostarci dall’altra parte», sussurro a Emma.

«Guidami tu», risponde lei con le labbra incollate al mio orecchio.

Con la sinistra le afferro un braccio e lascio andare la maniglia che stringevo con la destra. Poi fluttuo attraverso la capsula, mi aggrappo a una maniglia sulla parete opposta e la trascino verso di me.

Lo schermo mostra la nostra velocità e la posizione, calcolata sulla base di dati raccolti dalle telecamere esterne in rapporto a quella delle altre stelle.

Aziono i propulsori e correggo la rotta.

«Aspetta».

Avvertiamo un colpo sul fianco destro della capsula, poi un altro sul tetto.

La capsula si capovolge e poi si raddrizza di nuovo.

«Cos’è stato?»

«Ho svoltato a sinistra».

Lei scoppia a ridere e sento il suo petto premere contro il mio.

«Tempo di arrivo previsto?», sussurra, afferrando un rotolo di garza che è volato fuori dal kit medico.

«Quindici minuti».

«Posizione delle altre capsule?»

«Sconosciuta. Stiamo viaggiando al buio e la capsula non è programmata per l’analisi della linea di vista, ma solo per la posizione relativa alle stelle».

Passano alcuni minuti di silenzio prima che si accendano i propulsori. Ci stiamo avvicinando.

«Da dove vieni?», mi chiede Emma.

Sto per risponderle «Edgefield», ma poi decido di aspettare ancora un po’ prima di dirle che sono un detenuto in permesso di lavoro per partecipare a un programma astronautico.

«Sono cresciuto ad Asheville, nel North Carolina. E tu?»

«New York City», risponde lei rimettendosi le mutande. La capsula ha smesso di beccheggiare e in assenza di gravità i suoi movimenti sono molto più coordinati dei miei.

«Hai sempre voluto fare l’astronauta?», le chiedo.

«Più che altro volevo stare lontano dalla gente. Avevo bisogno di solitudine».

«E hai scelto di vivere per mesi isolata quassù?»

«Be’, all’inizio la stazione spaziale non faceva parte dei miei piani».

«Cosa avresti voluto fare?»

«Quando ero giovane, i viaggi commerciali nello spazio erano in piena espansione. Sonde su Marte, droni che esploravano la cintura degli asteroidi in cerca di minerali. Volevo essere un membro di una delle prime colonie umane».

Interessante. Non c’era nulla di tutto questo nel suo dossier.

Cerco qualcosa di profondo da dirle, ma non riesco a trovare nulla di meglio di un ridicolo: «Fico!».

«Era il mio sogno. Sopravvivere in un nuovo mondo. Costruire un nuovo tipo di società».

«Che tipo di società vorrebbe Emma Matthews?»

«Una fondata sulla dignità, il rispetto e l’uguaglianza».

«Ci vivrei anch’io in una colonia così».

«Non ho rinunciato a questa idea».

«Sei stata solo un po’ deviata dalla tua strada».

Lei fa un largo sorriso. «Come battuta non vale più di un tre».

«Ma di recente la tua rotta è stata corretta?»

«Quattro».

«Okay. Mi fermo».

Lei sorride e guarda fuori dall’oblò. «Sono viva. Per il momento mi basta».

«Sei viva, e stai fluttuando mezza nuda nello spazio con uno strano tipo. Cosa direbbero i tuoi?».

Il suo sorriso svanisce. I genitori sono morti. Non avrei dovuto dirlo.

«Non mi sembra così strano», dice.

«Sì, sono supernormale».

Lei strizza gli occhi. Sa cogliere il sarcasmo, il che è essenziale per comunicare con me.

«Hai sempre voluto diventare un designer di droni?»

«In realtà non sono un progettista di droni in senso stretto».

«Che cosa fai, in senso stretto

«Sono un ingegnere robotico impegnato nella progettazione di… dispositivi più complessi».

«Che genere di dispositivi complessi?».

Non sa cosa ho fatto, né quello che mi è costato – e neppure cosa pensa di me il mondo. Meglio dirglielo subito. «Il genere che mi ha cacciato nei guai».

Lei inarca un sopracciglio chiedendosi se sto scherzando. «Nei guai con chi?»

«Con quasi tutti».

«Mi stai dicendo che sei un ribelle?»

«Un combattente per la libertà».

«La libertà di chi?»

«Di tutti».

Il suo sorriso si spegne. «Stai parlando sul serio?»

«Di solito no, ma in questo caso sì. Ho creato qualcosa che doveva ristabilire il rispetto e la libertà sulla Terra».

«E sei finito nei guai per questo?»

«Sì, non avevo tenuto conto della natura umana. Di come la gente avrebbe accolto quello che avevo creato. Ma ho imparato una lezione importante».

«Quale?»

«Ogni cambiamento che sottrarrà potere a coloro che lo detengono incontrerà opposizione. Tanto maggiore sarà il cambiamento, tanto maggiore sarà la forza contro la quale dovrà scontrarsi».

«Un po’ come il terzo principio della dinamica di Newton: a ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria».

«Non l’avevo mai vista in questo modo, ma sì, è molto simile».

Anche io e lei siamo molto simili. Emma voleva allontanarsi dal mondo e dalla gente per iniziare una nuova vita. Anch’io non ero a mio agio nel mondo, ma volevo restarci e migliorarlo. E questo mi ha fatto finire in prigione.

I propulsori si accendono di nuovo. Siamo a meno di cinque minuti dal punto d’incontro. La forza d’inerzia della capsula è ancora forte, ma gestibile.

«Meno cinque minuti. Meglio metterci le tute».

Quando raggiungiamo il punto d’incontro, ci sono soltanto tre capsule. Speravo ce ne fossero di più e mi auguro che stiano arrivando. Cerco di nascondere la mia preoccupazione a Emma, ma sento che se n’è accorta.

Fluttuiamo verso i due oblò opposti e sbirciamo fuori.

«Queste due sono senza equipaggio», le dico.

«Anche questa. E adesso cosa facciamo?»

«Aspettiamo».

«Queste quattro capsule non si assembleranno?»

«No. Be’, potrebbero farlo, ma c’è una sequenza di assemblaggio preferenziale. Le capsule sono programmate per aspettare e vedere cosa succede. E senza i componenti dei propulsori non potremo andare da nessuna parte».

«Quanto dobbiamo aspettare?»

«Ci restano circa due ore».

«E cosa facciamo in queste due ore?»

«Per prima cosa ti reidrateremo e ti faremo mangiare qualcosa», rispondo.

«Non ci vorranno mica due ore».

«È vero. Ma devo anche aggiornarti sulla missione».

Mentre lei mangia, le racconto del secondo oggetto alieno, Beta. All’improvviso smette di masticare. È abbastanza intelligente da capire le implicazioni, ma gliele spiego comunque. E le chiarisco anche gli obiettivi della missione: stabilire il primo contatto, chiedere aiuto e, se non ci riusciamo, cercare di distruggerlo.

«Speriamo che siano amichevoli», risponde lei rimettendosi a mangiare.

«Lo spero anch’io».

Le parlo quindi dell’equipaggio, soprattutto di quello della Pax, visto che sarà con noi, ma le menziono anche Dan Hampstead della Fornax.

«Sono un peso morto in questa missione», dice lei. «Tutti gli altri hanno un ruolo, mentre io sono qui soltanto perché mi ero persa per strada».

«Non puoi considerarti soltanto un peso morto perché sei un’autostoppista cosmica».

«No, è la mia mancanza di competenze specifiche a rendermi un peso morto».

«Fowler mi ha passato il tuo dossier. Tu non saresti un peso morto da nessuna parte, Emma. E di certo non quassù. Questa è la mia prima volta nello spazio. Costruire complessi robot sulla Terra è già abbastanza difficile, ma qui sarà un’autentica sfida. Tu hai gestito per mesi la stazione spaziale. Sei abituata a lavorare nello spazio. E io avrò bisogno di aiuto».

«Mi stai offrendo un lavoro?»

«Ti interessa?»

«Qual è il compenso?», chiede sorridendo.

«Potenzialmente… la tua vita, quella di tutte le persone che conosci e di tutti gli altri abitanti della Terra».

«Benefit?»

«Illimitati. Inclusa la copertura odontoiatrica».

«Ci penserò».

«Non metterci troppo, abbiamo altri candidati».

«D’accordo».

Qualcosa attira la sua attenzione nell’oblò alle mie spalle. C’è un’altra capsula.

Mi giro e vedo la faccia di Harry Andrews fluttuare dietro l’oblò. Si è tolto il casco e il visore.

C’è qualcosa che non va. Harry non dovrebbe essere qui. La sua capsula dovrebbe essere al punto d’incontro della Fornax. A meno che non fossero rimaste abbastanza capsule per assemblare la Fornax. Mi chiedo quanti membri dell’equipaggio della Pax siano sopravvissuti – e con quante capsule dovremo lavorare. La nostra missione potrebbe essere finita prima ancora di cominciare.

L’altra possibilità è che la base di controllo abbia dirottato la sua capsula. Perché? Forse hanno deciso che non potevo farcela da solo. O che due teste sono meglio di una. Su questo sono d’accordo, nel breve tempo trascorso insieme Harry e io siamo stati un ottimo team. Mi piace lavorare con lui.

Harry solleva una mano e mi saluta. Gli rispondo. Qualunque sia il motivo della sua presenza qui, sono felice di vederlo.

Due ore più tardi tutte le capsule tranne due sono arrivate. A parte quella di Harry, sono tutte componenti della Pax. È strano. Mi chiedo se le altre due capsule siano entrate in collisione tra di loro o con quelle della Fornax. Potrebbe essere andata peggio, trasportavano soltanto rifornimenti di cui possiamo fare a meno. La NASA ha sapientemente distribuito i carichi sulle capsule, ognuna delle quali ha più o meno le stesse cose. In totale, l’evento solare ci è costato circa il 7 percento delle forniture. Una percentuale assolutamente ragionevole.

Spero soltanto che con la Fornax sia andato tutto liscio. Senza trasmissioni elettroniche dei dati non lo saprò finché non ci incontreremo. E ci vorranno ancora mesi.

Prima del lancio la NASA ha ideato un ingegnoso sistema di comunicazione tra due capsule che non richiede alcuna trasmissione elettronica ma usa il campo visivo. Su ogni capsula ci sono dodici placche di comunicazione disposte in modo da essere visibili dalle videocamere delle altre capsule. Il pannelli utilizzano una tecnologia dell’inchiostro elettronico simile a quella dei vecchi lettori di ebook: un sottile strato di pellicola con microcapsule immerse in una soluzione liquida. Gli impulsi elettrici fanno salire in superficie le particelle bianche caricate positivamente, o quelle nere caricate negativamente. Ogni pannello mostra dei simboli senza emettere luce, microonde o altro, e tutte le cariche elettriche sono nascoste sotto la pellicola.

La NASA ha ideato un codice e una serie di simboli per comprimere e semplificare i messaggi. E ogni nave è dotata di un telescopio a lunga portata per vedere i punti di comunicazione. È così che comunicheremo… Sempre che la Fornax ce l’abbia fatta.

Attraverso l’oblò vedo le placche di comunicazione trasmettere in rapida successione una serie di simboli mentre le capsule si avvicinano per assemblarsi tra di loro. È probabilmente la più grande impresa di ingegneria spaziale della storia, il prodotto di mesi, forse anni di lavoro delle menti più brillanti del pianeta.

Sono sempre stati i periodi più bui e le grandi crisi a stimolare di più il genio umano. Le guerre, calde e fredde, hanno prodotto la bomba atomica e la corsa allo spazio. E il Lungo Inverno ci ha dato l’opportunità di spingerci così lontano nel sistema solare. Vorrei che il mondo potesse vedere come questa nave si sta assemblando nello spazio e conoscesse i nomi degli uomini e delle donne che l’hanno reso possibile.

Il portello si apre e Harry fluttua nella capsula. Solleva il visore, si toglie il casco e noi facciamo lo stesso. L’aria ha un odore metallico, artificiale, ma mi ci abituo. Sono felice di poterla respirare.

«Benvenuto sull’Espresso per l’oggetto alieno», dice Harry con un sorriso. «Posso vedere le vostre carte d’imbarco?»

«Chiudi il portello, già che ci sei», gli dico. Poi indico Emma. «Harry, questo è il comandante Emma Matthews».

«Felice di averla a bordo, signora».